giovedì 5 gennaio 2012

Dilemma

Dilemma

Ora che s’appressa per Cerere la restituzione
agognata della figlia, a me il compito
d’esprimermi su ciò che chiamano testamento biologico, tocca ingrato. Ma niente facciamo se non per iniziativa del dio..., m’assista la madre nostra, ché qui difenderò un diritto, e chiare ne siano le ragioni...
Come conchiglia strappata dallo scoglio là dove nacque, e si pasturava e tappezzava con alghe compagne, per l’onda di tempesta, che tutto il mondo suo ha sconvolto in una notte di rabbia,in sé si chiude serrando le valve a difendersi dalla novità, che l’ingiuria, così fa l’uomo, che grave squasso subì nelle strutture della mente sua, se questa ne è tutta irrimediabile danneggiata,
e si chiude al mondo. Ché i riferimenti tutti 
nell’ambiente suo sono persi, smarrite sono le interpretazioni dei sensi e la vita, che ne residua, di cui nessuno nulla di certo sa, se non per congetture, si cela...
Tutto perduto, parole, sorrisi, espressioni d’amore...
Quella vita s’è raccolta in sé, impegnandosi
in una sua latebra, e forse nel niente. Ma nessuno direttamente può guardare nello sconvolgimento,capirne l’adattamento, il compromesso, ché le strutture in cui riposa sono ridotte a essere appena. Ma la vita è mistero e ogni sua definizione di tautologia suona...Vero è solo che macchine e affanno di molti impegnati devono ormai sostenerla,
forse in un sonno senza sogni, ché misera sembra in corpo che risposte, se non le mere vegetative,non dà alla realtà, che solo di galleggiare le permette...
Ma è proprio come per la conchiglia, che tutta s’è chiusa e cerca la difesa da quell’acqua prima amica,e par che cerchi sol  di nascondersi per tempi migliori. Ma come quella furia di gorghi, altrove
la mena e qui e lì e su e giù, e quella rassegnata pare, ché nulla ha cui aggrapparsi, finché in un ambiente nuovo
si scopre portata, diverso dal mondo delle sue abitudini, essa lì nutrirsi non sa o non può e par non voler sopravvivere comunque. 
O forse sulla battigia l’onda fragorosa l’ha spinta alla mercè di predatori da terra e da cielo, ché già neri uccelli bramosi, come la tempesta si cheta, calano a farne scempio e, venuta la notte, ratti famelici la conchiglia frantumeranno. Sicché la sfortunata, serrata negli umori suoi ultimi, agonizza,
ché comunque morrà dell’aria e del sole 
che la vita sua insidiano, e par invocare da quelle nere presenze la liberazione... Così proprio, la mente ormai malata è naufragata, smarrita nel mondo suo, che creato s’è, ultima illusione, e ignoto le è, forse di sole
allucinazioni fatto e comunque di gelo, tanto gelo, quello dell’agonia in cui lentamente scema, che nel delirio di parenti e operatori, prolungare si vuole, fuor della lira che la provvida natura assegnata ha alle creature tutte. E non della vita quei caparbi son predatori, ché a sostenerla s’industriano, forzosamente alimentando quella vittima, 
di quello che più forse non vuole,
ma della provvida morte negatori sono, che pietosa vuole per sé quella, e portarla laddove la fede sua ha vagheggiato un approdo... 
E mi chiedo allora.
Può la medicina, ancella del dio, che la vita delle creature sue sostenere deve per l’amore con amore, dar dignità a quella pretesa, che ignora il dramma della 
vittima, ché vuole duri quella vita, che più non può essere relazione, scambio, incontro, amore attivo,né passivo consapevole? E poi gli occhi più non hanno lagrime,
e le labbra e la lingua si son fatte aride nella preghiera delusa...E poi quella vita tanto s’è ristretta, che boccheggia nel suo degrado, 
che ottusamente mantener si vuole. 
E allora la sua serva, che incapace è
di recuperarla dalla notte in che è immersa, credo non abbia diritto a trattenerla, deve lasciarla andare, non interporsi.
Certo soli nasciamo, soli traversiamo questa vita di dolore,soli moriamo e chi è più solo di queste vittime?
E noi medici soli siamo nella coscienza nostra
a dover sempre scegliere tra bene e male. E dove finisce l’uno e dove comincia l’altro? Sono situazioni estreme come queste,
a lasciarci perplessi ed è un vociare qui dell’una e dell’altra tesi e sicuro io or ora l’ho fatto...Ma io dico, non insegnano agli operatori tutti a non rianimare soggetti terminali, che pazienti hanno già sofferto di malattia atroce e senza scampo?
Sì quelle vite provate s’arrestano talora
di colpo e solo un mal riposto amore, che d’egoismo sa, talora può spingerci a tentare quel che non si deve. E io proprio, e son molti anni, per persona cara, ma per fortuna senza successo, lo tentai. Sì, una condotta medica sbagliata, fin da studenti delle discipline nostre, ci hanno detto è il richiamare la vita, quando sussistere
degna non potrà. Si sbagliano i maestri nostri, non è obbiettivo quello che dico in metafora, che è la fredda valutazione e non l’amore, la bontà che pur c’è in ognuno
che quest’arte ha scelto, a doverci guidare e non quello che incauto e inopportuno la pietà suggerisce?
Ma noi credenti, piangiamo pure con chi piange e raccomandiamo il loro inerme a chi è salus infirmorum, che ne custodisca l’anima prigioniera di quel corpo e che d’esso la liberi.
Sì senza interferenze lasciamo che la natura faccia il destino dello sfortunato e che sia 
il dio a rinnovargli la vita degna dell’amor suo e nostro.


Una risposta dovuta.

Qui proprio devo rispondere al mio commentatore che chiede: perché il dio e non Dio?
Il nostro è un dio unico, ignoto, impronunciabile, sì, tanto santo che non è lecito nominarlo fuor d’arroganza. Perché? Non fu egli che anticipò il nome suo? Ma per le presenze divine un nome esprime l’essenza stessa del chiamato. Possiamo presumere di capire quel nome per quanto la mente possa profondersi? Noi stessi un nome convenzionale abbiamo, e solo alla fine dei tempi, chiamati saremo col nome vero da colui che per ora, chiamiamo Gesù e che solo allora ci dirà il suo. E noi lo chiameremo resi perfettamente capaci. E così è Maria un nome provvisorio per la madre amata, non il suo vero.
Scrivere Dio, è un segno di rispetto, senz’altro, ma meglio è con l’articolo. Francesco, la notte che commosse Bernardo, ché a casa di questo egli dormì, non faceva che ripetere, Iddio mio, Iddio mio! E ben fanno i fratelli musulmani a chiamarlo Allah! Scriverlo con lettere minuscole non è lesivo di dignità, ma io tanto lo so mio solo amore, da scriverlo appena nell’umiltà mia! 

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