venerdì 13 gennaio 2012

Briciole per fiori

Pigro è quest’inizio d’autunno, e qui a crogiolarmi all’ultimo sole vengo, ché dicono il tempo cambierà a breve. Un tempo d’attesa che i membri di questo formicaio intuito hanno, ché più indaffarati del solito sembrano. Sono grosse formiche di bosco con operaie più piccole e soldati imponenti. Ma tutte lavorano frenetiche, come presagito abbiano l’imminente pioggia. Sono raccoglitrici di semi per lo più e vengono e vanno alla sterpaglia che molti caduti ne ha, da fiori secchi che provvidi bombi fecondato nella lunga estate hanno. Ma se accada che compagna la disastrosa disattenzione della specie umana abbia subito, che distratta ammira or piante or mare e non le lunghe loro teorie, se questa erta percorra, subito la soccorrono e al nido la recano malconcia. Che ne faranno, visti gli evidenti irrimediabili danni? La mangeranno come fanno dei numerosi insetti fin ad oggi stipati nelle gallerie loro? A me piace pensare di no, ché meno disastrate situazioni pur devono esserci ad attendere rimedio, ché inabili operaie forse attendono zampetta nuova o antenna o altro da quel corpo straziato prelevati. Così sia di me. Non ho che organi vecchi inutilizzabili, credo da quello che so di medicina. Ma di quello che ho nella mente e nel cuore metaforico, pensieri tanti e per te, penso che , brava Igea, tu riutilizzerai al meglio. Trapiantalo, ché in mente giovane cresca e dia frutti, ché forse da me di assai scarsi ne ha dati. E così privato, la coscienza di poter abbandonarmi alla pura felicità conserverò, ché l’anima tutta spoglia, nuda sarà passata per la cruna d’ago. Oh quanto delusa debbo averti nelle opere mie sognate grandi e presto miseramente finite! E quanto il tuo lavoro a sgombrarmi l’anima! Peccati certo, omissioni per lo più, ché mai di proposito il male ho pensato o attuato, desideri di cose vacue o effimere però di certo, tempo speso nell’appagamento e la tristezza eccessiva e non dovuta alla delusione seguita alle illusioni tante. Sono stato giovane, attratto dai luccichii e dalle cose tante e belle di qui, sono vecchio insensato che del tempo trascorso ha conservato inutile rimpianto. E di tutto mi son rimproverato, perfino della bella dell’epoca di non aver saputo suscitare l’interesse e che poi proprio senza me, certo presunzione da maschio frustrato, destino felice non abbia avuto... Pagliuzze, credo, inezie, mentre la trave pesante delle omissioni vere nel bene non attuato o non saputo attuare o rimandato o scordato, non ho forse mai completamente portato alla coscienza da pentirmene e chiedertene perdono, ma relegata l’ho in una latebra già appesantita dai fatti bui di una vita, lì da bravo nevrotico stipati. Ma il buon amico prete dalle cose più pesanti forse m’ha tutto liberato, recandomi il perdono tuo, ché questo è l’ufficio che tu affidato gli hai, ma dimmi allora che sia che ancora qui mi trattenga? Le mie briciole fa siano per gli asfodeli sulle belle nostre montagne dalle mie ceneri disperse e fiori anche nell’orto tuo ne nascano dal meglio mio, ma per te superfluo, tu liberandomi. Fa che solo conservi il desiderio di te. T’ho cercata, oh quanto t’ho cercata! Sorriso e lacrime di donna quanto attratto m’hanno! Lì eri?Ma in chi di preciso, ma quando? Possibile che tu lì affacciata ti sei, quegli occhi proprio le sole finestre per vedermi innamorato? Parole rare di compassione, d’amore forse, ho mai udite? Ed è passato così il mio tempo, attese deluse, amare rinunce, disillusioni. Dimmelo ora se mai venuta sei, sei stata vera almeno negli occhi di questa donna? E tu forse me lo dici affidando a questo vento, che ora dal mare s’è levato, le tue parole, ma udirle non posso, orecchie solo umane ho, e dire che di più fini sempre nella preghiera ti ho chieste! Vedi, piove ora ché tutto già in cielo rannuvolato s’era e tutto mi bagnerò ché il cuore vecchio di correr mi vieta. Morirò d’affanno in questo chinale, morirò senza te? Oh vieni, vieni, ché indugi? Corro vero questo pericolo, non sono dopo tutto un tuo uomo di medicina?

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