martedì 30 ottobre 2012

Perdonare per amare







Non è forse vero, madre, che incerte sono le sorti del nostro mondo, eppure per te v’albeggia la speranza cerula, e che fragile s’è fatta la psicologia nostra affidata a pensieri sempre in crisi,e la vita sempre più precaria? E io, che m’illudo di te, non lo sono forse coi miei, che tu tenti di rassicurare, affastellati talvolta e agghiacciati anche, sentendo qui notizie di morte? Parlo di quelle di chi si veste, si trucca, da vigliacco, con vesti innocue d’apparenza, per aggredire gente ignara ai raduni, alle assemblee, colpevole per diversi pensamenti sul dio o convinzioni, e uccide, uccidendosi, e nel suo nome! Sì, sono della cronaca in qualche parte dell’Africa queste persecuzioni feroci di fanatici e poi risposte feroci dagli scampati per altri innocenti. O madre, scontrarsi tra credenti, far desolazione e schianto di morte! Spavento! Dapprima lupi su forse agnelli tremuli e poi lupi, questi mutati, contro quei lupi o altri inermi, tragedia rinnovata! Odio, che chiama odio! Ma nessuno conosce il dio, nessuno ti conosce, possiamo solo pregare, rendere omaggio, ciascuna comunità a suo modo , con parole sue, tutte equivalenti, suppliche, lodi, e tu ascolti tutti! Nessuno può dire all'altro, rendendo omaggio alla luce, fa questa cosa, perversa e bestiale che sia,annientati, uccidi e lo vedrai, ché nessuno l'ha mai visto e mente se dice di sapere e, nudo e laido sotto bella veste, l’altro condanna alla oscurità più fitta. Solo l’amore lo vedrà! L’amore tanto calpestato in questi tetri tempi, e il dio è amore, tu lo sei, dolce madre di tutti, anche di questi malvagi, che fanno tenebra della tua luce e luce la tenebra! Così per lungo che sia stato fin qui il percorso tortuoso a te, malattia o salute dell’anima, problematiche sempre rimangono e non perdono il carattere di rischio e di incertezza in questa tempesta. Tutti vi veniamo coinvolti, anche assai lontani, vivendo un mondo tutto diverso,e, nemmeno conoscendo bene i fatti, facile condanniamo e non dovremmo, se convinti che perdono si debba anche a chi stravede orrendamente e farnetica di bene e fa il male. Perdonare perché nulla giustifica l'atteggiamento del saccente delle cose del dio, “arcana dei”, di chi si fa guida, cieco lui stesso! Nessuno può inorgoglirsene se qualcosa sa e fa in coerenza, è poco più di un barlume, sempre, nell’economia del bene, e così non può onestamente credere di sapere ciò che altri non sa, ed è stupido credersi illuminato tra tutti ciechi. Ma costui dice sul dio e parla di ciò che il dio vuole. Ma è l’odio che predica, e il dio non può volerlo! Ognuno può fare cose lodevoli nel tentativo s’affermi il bene, ma altre sue non lo sono, trovandosi talora la ragione del suo agire piuttosto nella vita sua istintiva e passionale e nei suoi interessi faziosi ed egoistici quasi sempre. Nessuno possiede certezze morali, nessuno può dire di sé, ecco ho sconfitto ogni dubbio, sono nel vero, seguitemi! Nessuno ha d’altra parte l’obbligo di fidarsi delle parole degli altri e nemmeno delle sue, occorre, per dirsi a se stessi uomini dabbene, agire così per il bene sempre, e gli altri vedranno che pianta è dai frutti suoi, ne resteranno meravigliati, ammirati o dovranno del tutto trascurarla, cercando altrove, buona nelle promesse, deludente poi al tempo delle attese fruttifere. Noi non possediamo alcuna verità morale personale, da poter dire ecco è mia la scoperta, ho ben letto e interpretato tra le righe del mio testo sacro, se ne fossimo convinti, l’umiltà per continuare a cercarla, fuggita sarebbe dal nostro cuore e forse perduta per sempre, dal momento che non c’è che una verità, la tua e io pregare debbo ogni giorno, ogni ora, e chiederti, parlami madre, dimmi che fare! Ecco viene quest’ora della tentazione alla condanna tradendo il messaggio tuo d’amore, daccapo s’affaccia il male in me, sono le notizie di questi giorni a sconvolgermi e ho paura di tanta ferinità in quel mondo ottuso, non importa quanto lontano dal mio, e tento di esorcizzare l’orrore sbagliando, condannando! Ed era di poco fa l'illudermi di stare al tuo tepore e così di vedermi partecipe e comprensivo della varia umanità che mi circonda, con lo scoprire in tutti un fermento positivo alla ricerca della tua verità. E questa ricerca mai nessuno lasciar dovrebbe esposta al fanatismo di chi armato si crede di ciò che in realtà ha scarsamente compreso, ma nemmeno contraddirsi negandogli il perdono. Sempre siamo in cammino tutti verso la luce, che ci liberi dai dogmi, da intolleranti assolutismi persecutori, qui nel mondo del freddo e delle tenebre morali. Ma perché uccidere qui un altro uomo addirittura nel nome del dio? Orrore! E quanto costerà al dio stesso recuperare all'amore carnefice e vittima sua, forse sì errante e palesemente, ma cui il fanatico ha negato ogni possibilità di incontro qui con te, negandola a sé con l'atto suo sconsiderato? Non è conquista dell'uomo d'oggi sottoporre ogni giudizio, ogni affermazione a una critica rigorosa? E come può uno pensare d'aiutarti negando la vita al fratello? Sì, quella che tu gli hai dato anche forse mediocre o di colpevole disinteresse per te, o malvagia verso gli altri. Sì molti rendono brutto questo mondo, scomodo inquietante,essi resistono al bene, ma errare e ravvedersi fanno la possibilità di vita per tutti, e si è malvagi più ancora se nell’odio che pullula contro essi è coinvolto l’innocente o il buono, la donna e il piccolo suo. Meglio la fede ingenua, candida, con ingenue certezze, come quella che solo chi ama tutti possa agire comunque, non uscendogli che bene, ma questo saper amare e saper di amare così, è un traguardo per tutti. Ma meglio di che? Che star dietro a tutti i saccenti e a questi propagatori di morte, che promettono la luce, che non vedono, a chi porta nel baratro il fratello! E' prosaico questo mondo, è fatto di molti malvagi? Occorre mutarlo col bene, tu vuoi così. E' stupido? Esiste così perché il buono lo renda migliore, più con l’esempio che con tante parole. Monito di questi accadimenti? Non vivere dogmaticamente! Tutti tu inviti a ragionare sulle cose, a comprenderne le contraddizioni, e a scegliere il bene per sé e tutti, nessuno vuoi s’erga a giudice e giustiziere del fratello per malvagio che sia, nessuno tocchi Caino! Ripeto, l’unico traguardo qui a questo mondo in questa realtà, non è la conoscenza, ma l’amore! Se si smania, se si crede di possederlo in anticipo e senza sforzo, sfugge,ma si può pregare che tu ne sostenga l’anelito. Nulla invece sorregge e giustifica l’odio, nemmeno verso il crudele! Madre, dacci la forza di rispondere amore sempre, pure a chi ci odia e farnetica di bene ed è nel male! Sì, fa tenebra della luce e allora lo veda questo suo dio, lo senta e s’accorgerà del nulla nell’abisso che ha scavato nella sua cecità malvagia. Ma ecco ancora ora il nemico, sfida per l’amore. Perché? E’ quello che s’ammanta di bene e aggredisce il bene, e tocca non escluderlo dal perdono! Vuoi così, sei fatta così, ami nonostante, e me pure, che sbaglio condannando e ritenendomi esente d’errore e devo ben altro, perdonare per poter amare. Soccorri la mia saccenteria, sono uno stupido, ma t’amo!

sabato 27 ottobre 2012

Una coppia di uccelli







Ecco forse una società di perfetti, è una comunità di formiche, che un nido abita dello stradello bianco che sale questo chinale. Tu puoi vederle esplorare ancora, andare ai semi caduti dopo la recente ventata, affaccendarsi, approfittando del novello sole, per procacciare ancora del cibo, incombenti le copiose piogge d’autunno. Io non so in che consista la felicità delle formiche, ma so stanno l’una per le altre tutte, e in ogni modo io stesso ho felicità dal tentare d’essere per ogni altro. E così so di appartenerti, felice un po’ nelle tregue! Sì, qui occorre credere in te e nel figlio tuo, nonostante il male. E si soffre e muore in questa umanità, è dramma rinnovato per il figlio tuo divino, ma per fortuna sono in molti a gridare le vostre ragioni,e devono tutti di più, farsi eroi e prestarvi la voce ancora della sofferenza loro, e il pianto, e mimarvi. E’ la più bella, questa ridetta ancora, delle favole raccontate? E ad essa che mi fermo, o piuttosto il significato, la morale ne cerco, sapendola nascosta in ogni favola? Sì, quella velata allora sotto bella veste e così tramandata, ma parlante oggi ancora a coloro che ascoltato hanno una vera storia di testimonianza tragica, ché tale è stata e lo è ancora, nuovi i protagonisti, in cui rivivete, e vi si sacrificano come voi allora, e lo faranno finché non morrà anche la superbia di questo tempo. Allora se storia tragica è questa che si rinnova, in cosa è la favola? Forse sta nel credere essa abbia struggente importanza e attualità di vita, il che richiede un po’ farsi bambini, ritornare candidi un po’ e ascoltarla con ingenuità e così aderire alle richieste sue, generosi e fiduciosi. Noi siamo destinati alla vita, essa dice, la vuole per noi e ne indica la strada, ecco forse sol favola è ma che favola, ha sconvolto il mondo! Tutti vi sono chiamati. Rimane però una nemica dell’uomo e del dio, la morte. Vivere è anelito supremo, ma ce ne ruba la gioia il sapere di morire. E’ la morte la vera nemica della felicità. Ma perché anche per il dio lo è, non ne ha egli permesso l’ingresso nella sua creazione, ché tutta libera vivesse, sposando però quella? Non può egli non sentir sua la tristezza nostra, l’angoscia, che raro ci lascia e questa verità diciamo ragione, perché, motivo del suo farsi uomo e rimanere in tal forma. Ecco, da allora saperlo è averne conforto, ma egli vuole liberarcene, il suo è un rioffrirsi per amore, ché il suo gesto rinnovi in ogni epoca l’efficacia sua. Chi divorerà la morte se non l’amore? E’ della morte il nemico e ne reca l’infallibile segno di superiorità, la croce, anche se oggi meschina la si vuol ridurre, ed essa vincerà. Ora è schiacciata dalla pesante esteriorità del mondo, blaterante le ragioni sue, humus al male e alla mala sua pianta, la morte. Ma l’amore v’ha messo un baco e averlo in sé la farà morire. Morire la stessa morte! E’ favola questa? Se non lo è nella sostanza, immaginifico restando il modo d’esprimere la verità sua, occorre svegliarci, alzarci, ché accosciati, inermi ci rende questa tristezza, che attosca , cancella ogni parvenza di felicità che ci baleni, e andare incontro al dio che torna. Eccoci viatori sulla vostra strada, c’è chi canta, c’è chi piange ancora, chi blatera le ragioni sue, ma non siamo più soli e nella selva da alcuna traccia segnata, dove pianto e grida eco alcuna avevano, camminiamo nel sole e ci siete voi con noi. E il male è sempre qui e infosca, assale la nostra piccolezza, ma nella meschinità il comune dolore affratella, ché se il destino pare ancora sospingerci tra le braccia della nera sorella, abbiamo una speranza, la vostra donata. E’ vero, ci preme miseria, affastelliamo le ragioni dell’egoismo, che ci illude di scampo, c’è incomprensione, diffidenza e un vociare spesso senza ragione. Ma avete detto, amate i vostri compagni, sostenetevi l’un l’altro, perdonatevi a vicenda e le parole amico, nemico diventeranno senza senso! E’ l’amore che tutto supera, ogni morte e la morte di croce sempre rinnovata. Qui or proprio stanno chiavando, con nuovi chiodi su novella croce, la vittima di odio novello, e tu rinnovi il pianto tuo disperato alla morte di quel figlio. Recita egli inconsapevole una parte, interpreta tuo figlio. Ecco madre, sto per ridire cose già dette. Non è forse un pericolo ripetersi, non si rischia di innamorarsi delle proprie parole e perfino del loro suono? E soprattutto di non fare quello che si afferma con enfasi? Ma è così dolce dirmi e ridirmi nella speranza, che è come mi dicessi nella felicità d’amore e forse vero l’ho! Ecco che dirò ora. Il figlio tuo, morendo ancora oggi di croce, rinnova il comando suo nuovo, quello dell’amore a tutti e più ai nemici. Così l’altro, chiunque, non è appunto più altro da noi, il diverso, ma noi siamo in esso, ma noi siamo lui. E non importa se così spesso non ci si migliora, anzi riguardo al non più guardato come nemico, se ne prende l’indegnità perfino, si acquisisce la minaccia o la conseguenza dell’azione sua colpevole, per immiserirsene, colpevolizzarsi, ma è anche occasione meravigliosa di riaffermare la ricchezza, la bellezza della bontà, che ci fa crescere dentro la presenza tua. Sì, quello è stato strumento di male e ne abbiamo sofferto e pianto anche, ma ora questo farci lui ci permette di appropriarci della colpa sua e vincerla, noi abbiamo un farmaco divino! Il nostro è l’agire stesso del figlio tuo, che, morendo, astante il pianto tuo, prese su sé la colpa degli aguzzini suoi e ogni altra. E ora lo rifà in chi subisce ed è capace di prendere su sé la responsabilità dell’accaduto. Il colpevole può aver ancora tutto il cuore suo occupato dall’odio, la vittima innocente lo ha sgombro, ampio, capace, ed egli, non permettendo vi nasca rancore e desiderio di rivalsa, fa molto di più in lui, spronandolo a prendersi la colpa, il frutto del male che alberga nell’altro, e così lo rende sterile di ulteriori danni,e se l’altro sa capire il gesto, lo avvia alla guarigione, spintovi da quella generosità che imbarazza e turba,e che, donatasi, domanda ora ricambio. Ecco cosa fa il farmaco dell’amore divino! E poiché tu stessa abiti quel cuore grande, fai tu, cooperando, che esso s’affranchi vincendo la colpa trasferita a sé,schiacciandola col peso dell’innocenza, abbagliandola di candore, di luce. Ma il cristo tuo ha preso su sé anche la morte, non solo la sua orrenda subendo, ma quella di ogni altro, in ogni epoca e solo egli può dire che chiunque gli crede vivrà! E credergli è fare di simile con l’amore, al nemico anche. Comportarsi così è da vero credente, ma è certo un non facile industriarsi per la coerenza e inoltre questa gli pone un ineludibile problema dove vive, qui. Qui chi falla incorre in una giustizia rozza, primitiva, perché punitiva. Così il già cittadino del tuo mondo non può essere buon cittadino di questo. Egli sempre vuole la legge del perdono anticipato, cui, ravveduto l’altro, segua l’amore palese per il già amato in segreto, perché crede la giustizia già soddisfatta dal prendere su sé la difalta dell’altro. Sì, così proprio il figlio tuo, intese soddisfare l’esigenza di giustizia del dio, lui stesso, tu stessa,il padre, prendendo su sé ogni colpa. Oh quant’è bello questo vostro amore di cui star alla sequela e non importa la fatica! Sì,non importa se confliggere si debba ad ogni ora con le norme di qui di coloro che scelgono di rimanere nella morte, da cui ci si affranca solo facendo la volontà del figlio tuo. Allora rimaniamo a voi vicini! Laddove ogni problema sparisse, anche questo conflittuale, saremmo già nel luogo del solo amore. Sono i problemi, le contraddizioni che fanno il vivere e soffrire, e nobile pur la più misera delle vite. E non è stato detto che se si disponesse di soluzioni per tutto, l’uomo e il suo dio stesso, problema l’uno all’altro e in più l’uomo a se stesso, più non sarebbero? Ecco qui pur dovranno tutti i contrasti sparire, appianarsi, e sarà davvero la fine, ma pure un principio. Ritorna la profezia del serpente: eritis sicut dei! E per chi ha creduto in voi da vivere l’assurdo, il paradosso di non essere per sé, ma soprattutto per l’altro,il farsi formica tra molti che non sanno neppure d’abitare un formicaio, ecco c’è una forma nuova, ché si rinasce sì uccelli, ma di paradiso. Allora madre vedrai un tandem di due venirti incontro, amore li sostiene e li porta leggeri, non sono già qui una coppia di uccelli? Vivono come su ramo, come pasturassero ancor i nidiacei loro, e il vecchio maschio canta languido, amore alle albe che da te manifesta, ancora li separano! Non vorrai tu che volino il tuo cielo?

giovedì 25 ottobre 2012

Vanità d'amore


Come con le donne di qui di scegliere crediamo, ma ne siamo scelti, così con te, e in fondo sempre scegliamo di essere scelti. Ma così non nego la presenza tua in tutti, ché per questo discesa sei ai nostri termini più bassi, quelli infimi della sfortuna o della trivialità, lì caduti o nati, ma che lo sei palese in chi scegli di venirci sì per amore, ma manifesta. Così qui voi fate talvolta, come farfalle di campo vaghe a primavera coi fiori di questo chinale. Interesse sembrate aver per tutti, lì o qui sostando il volo vostro, forse stordite da tante presenze, ma poi attratte, su uno vi soffermate di più ed è amore palese, date e prendete da quello, è scelto e forse non è il più bello. Io invero non so se questo proprio mi sia  accaduto o se vi sia destinato, ché piccolo, insignificante sono in questo campo, se fiore dirmi posso. Ma se desiderio ho di te, che forse solo bella farfalla più di tutte le belle ti sogno, ed esso mi strugge come inappagato,e non può essere che tu ancora non sia venuta, attratta da piccola mia fragranza, io forse sopito ero o abbagliato, e,  venuta, m’hai lasciato un amore. Sì, ché viene farfalla, or ora sta sui petali miei e poi va in piccolo volo attorno, ma sempre ritorna e su me indugia, né d’altri ha cura. Vive  di me e io di quella, sì vive del riso tuo quest’amore, ma forse noi due viviamo altra metafora con te, siamo in un eterno gioco, tu esser vuoi bambina con questi  bambini tuoi e si gioca forse a nascondino. Solo non è accaduto come quando chi bambino, l’iniziativa prende d’un nuovo gioco, avvertendo del ruolo che affida a coloro che a quello invita, facciamo come se tu eri…ed io ero…, qui tu non dici, allora che gioco è il nostro? E io del tuo silenzio più mi struggo! Oh quanto, sapendo che la regalità tua perder hai dovuto per scender fin alla mia condizione bassa, vorrei aiutarti a riguadagnarla! Ma niente invero qui facciamo se non per iniziativa del dio. E se tu con me a quell’altezza perduta tornar vuoi, aquila mi vuoi  e questa trasformazione forse c’è, ma ben lenta. E allora affrettati, ché m’affretti, non vedi come corre il tempo mio? Qui i sogni non vaniscono all’alba, ma al venir della notte e forse già crepuscolo è. Ma quante le scorie di cui spogliarmi fino a farmi anima nuda degna d’ali! Ma come sarà che nella virtù io faccia tanta strada avendo la vanità compagna? Non sarà che questa come la dolcissima, occhi per i miei occhi, non mi lasci mai? Essa mi tormenta tanto appiccicata me la sento, e perfino ora che di noi scrivo l’avverto. Non voglio forse nel sogno nostro coinvolgere altri e questi non dovranno leggere, e leggere scritto cattivante? E io non mi farò vanto di aver scritto bene e quelli, che m’avranno letto, non indurrò allo stesso peccato, compiaciuti d’aver letto qualcosa di ben espresso, che senso abbia avuto per loro? Ecco io sono nella vanità e altri vi induco! E un tuo saggio ha detto,  “vanitas vanitatum et omnia vanitas”. Nessuno esenta! E non evoca la parola vanità, vuoto e nulla, e l’uomo vanesio non è vuoto un po’ sempre, insipido, frivolo sempre  negli entusiasmi suoi per cose da nulla? E io? Ho davvero poco o nulla in questo cuore, ha solo la consistenza dell’illusione? Sono frivoli i desideri miei? Sono troppo oso io che te adescata vi voglio? Oh aiutami! Ché, preso in queste contraddizioni, più da solo non ne esco, e come tu certo non fai, fa non si fermi agli aspetti superficiali e vistosi del comportamento mio questa compagna paziente, ma che capisca il mio dramma e come tant’altre volte sia la saggezza sua a suggerirmi. Ecco, siamo così legati che se mi perdo, lei mi segue. Ma perché pur ora, questo dicendo, la vanità rispunta come fame e sete fanno? Meglio per me viver ignorato e oscuro per tema dei miei passi e delle incaute mie parole con cui voglio esprimerli, o a un ideale, a questo mio, sacrificare tutto e me stesso, col rischio anche di correr invano, se qui la vanità più non è sprone come anche fa l’ambizione per altre conquiste di vita, ma è freno, difalta? Quali siano state le oscure origini psicologiche dei miei primi passi io ho scelto te, sapendomi scelto, o illudendomene. E se dalla vanità non puoi esentarmi, raffinala, eleva il tono suo, fa non scada nel ridicolo o diventi soma eccessiva, forse trascinerei quest’amore e te più in basso, e vi costringerei a restarvi, me voi volendo e che non mi perda. Sì, che io non cerchi stima o approvazione mai, né invidia, ché buona opinione me ne resterebbe, proprio io ammirato o invidiato! Ho meriti reali o presunti? Fa non me glori, ma solo di questa piccola donna lasciami il vanto, che sacrifica se stessa a quest’amore, dà molto e mai se ne fa vanto, anzi sempre carente le sembra il far suo e non sa di far molto per questo cuore. E il valore d’un’anima è quanto fa per altra e da che ne è spinta, ecco che forse è solo per lei che a me vicina stai, accorta, tenera, indulgente pure alle vanità mie! Lascia allora che quest’aquila me verso te porti, come Lucia il poeta suo dormiente, leggero carico elevò, ché talora di fatica cade un cuore, più presto ancora del desiderio, di cui quello metaforico vive! E tu sei il mio, forse ancora vanità, ma d’amore!

martedì 23 ottobre 2012

Fiore d'amore


Madre dolce, noi sotto la tua guardiania tutti siamo, ché di custodia e ripari tu ne provveda, dopo le procelle di questo mare, tanto provate navicelle, al fine in porto sicuro, il tuo cuore! E una scala hai dovuto discendere fino alle bassure nostre per far dimora nei nostri cuori a condividere di ognuno la sorte. Che fa questa tua presenza?
Sorpreso da tanta nebbia il poco bene, fattosi incerto l’avvenire, avvilito dalle troppe ombre il presente, è drammatico o tragico il destino personale, ma abbiamo una certezza, tu ne garantisci il recupero, fosse pure estremo o postumo addirittura. Quale allora il compito nostro in questa simbiosi d’amore? Ti aiutiamo a riguadagnare l’altezza perduta da dove discesa sei. Eccessivo è questo mio pensare, ché bisognosa ti riduce all’aiuto di chi aiutare intendi? Ma amore è questo tuo immiserirti, farti debole in chi, vinto, la sofferenza fiacca, ma tal’è la natura nostra che il meglio diamo se pestati, come d’erba occorre a mandar la fragranza sua,  e sebbene ridotti appena, la risposta è pur’essa d’amore. Un amore grande scambiato, da poter dire: ti do un po’ di quanto mi dai! Sì,  vogliamo delle sofferenze che ci angosciano risparmiartene un po’, ché venuta sei a piangerne con noi ed è il coraggio, che ci dà questa volontà di bene per l’amata, a sbrigliarci della melma in questa palude che fa il mondo delle acque morte sue. E, liberato il cuore da ciò che lo grava al fondo, libera con esso te rendiamo e puoi tornare alle tue stelle con te il cuore nostro portando. E’ mistero d’amore, di quest’amore. Sì tutto ci accade compulsi d’amore a diminuirti il disagio dello star tuo qui in cuori martellati dal male, così è noi  proprio che con te affranchiamo, ma forza non ne avremmo se della presenza tua non avvertissimo l’afflato. E tutto ci accade come quando una donna accetti di spartir la nostra sorte, ci industriamo a lenirle i disagi dello stare in due al passo del più debole, che quasi mai ella è. E nemmeno importa molto la sua vita prima e quanto costata le sia quella rinuncia, anche se l’avessimo sollevata da una condizione più misera, vorremmo comunque esentarla da ogni presente pena, e per lei la sola gioia, quella che ella stessa da al cuore. E’ domina, è fata della nostra fiaba, é gli occhi che ci guardano appassionati,essi mai pianger dovranno per nostra difalta! E con te di simile accade e poiché c’è ora chi ti mima e dice le parole del tuo amore, è a lei che, per farle tue, vanno rivolte le attenzioni nostre. Perché se quella sorride è tu che lo fai e se a lei va carezza, é tu anche che l’avverti! E che dire del compito di chi dentro t’ha  di voler che riguadagni il tuo cielo? Potrà solo accadere sublimando quest’amore terreno, ché si imparadisi! Quindi qui femmina amare non è andare ciascuno per sé, la salvezza pensando personale, non lo è più. Noi sì siamo nati soli, ma tenere braccia ci hanno subito stretto su caldo seno e poi è subentrata altra piccola donna. Può essere insignificante all’apparenza, importante per noi soli, così come siamo noi soprattutto che la troviamo sempre bella, ma è preziosa per il cuore che l’ha accolta e sappiamo che sei tu che ti ci specchi compiaciuta. Ha un cuore grande questa, ospita chi ti ospita. No, non siamo più soli,io non sono più solo, si è riempito il cuore e piene sono queste braccia. E questo m’accade, brutto anatroccolo forse ero e questa m’ha trovato bello. Pavido forse un po’ e questa vero uomo mi pensa, è buona e mi trova così. E io vado di lei fiero per le vie di qui sempre tenendola per mano, invidia, sogghigni non ci fanno cura e così te la porterò o sarà che ella da te mi porti. No, non ho viaggiato questa vita solo, occhi pur ora mi guardano appassionati e te ho nel cuore, che importa che quello fisico, che già vacilla, fermarsi dovrà, altro in altra forma batterà per voi due, sospiri miei d’amore di una vita! E dico a questa donna, mio fiore: “agri flos esto cordi meo et aiam tibi semper”. Ed ella, che parla con gli occhi suoi belli le parole tue: se qui donna, tu fiore mi vedi, lassù stella sarò, sii qui la mia farfalla, lì con me lucciola!

domenica 21 ottobre 2012

La scala


Dacché il mondo lontana qui il dio è 
precario quanto lo sono i buoni tra il 
brulichio di ben altre presenze. Tu e 
il figlio tuo questo mondo avete 
voluto e fatto, e vi avete permesso 
il male, questo ha scavato un 
abisso. Ora per noi di qua le cose 
del vostro bel mondo si son fatte 
tanto lontane che solo sospiri ci 
permettono ai barlumi che ne 
giungono, e desiderio di pace, di 
quella pace, nelle rare tregue dal 
male! Ma questi aneliti tanto 
inappagabili sono, che perfino l’aver 
ignoranza di quelle cose belle, noi 
benediciamo, ché conoscere e non 
poter avere aumenta sempre la 
sofferenza, invece pietosa essa vi 
stende un velo facendole come più 
indistinte e indeterminate, 
inconsistenti come le cose dei sogni 
o delle fiabe, che a bambini 
raccontate venivano nelle lunghe 
sere d’inverno davanti a fuoco 
scoppiettante. Così il non ben 
sapere è sì altra carenza, ma, 
paradosso, mitiga la pena della 
deficienza qui, in cui tutt’altro tocca 
vivere. Sicché sì ne soffriamo, ma  
in vaghezza di aspirazione, solo 
intuendo dalla stessa gioia che qui 
ci danno le rare cose buone e belle, 
e ne resta mitigata la delusione per 
l’ardore che sempre rimane 
inappagato e presto ci rassegniamo 
e solo resta la vaga speranza che 
sarai tu a portarci quelle cose 
agognate quando la cruna per quel 
tuo mondo incantato permetterai 
varchiamo. Ma non dovremmo, è 
rassegnazione questa a quel che qui 
c’è, al male, è colpa, difalta, 
peccato! Sì,questo mondo è ostile 
all’uomo, lo è al dio, è il nemico! 
Come recuperarlo all’amore? Ecco 
voi siete venuti forse per questo, 
poveri tra poveri, e il male vi ha 
raggiunto, ha aggredito corpi e 
cuori, non distinguendovi, nella 
forma umana assunta, da 
qualunque altro che qui in 
quest’incubo si svegli. Avete così 
sondato quanto qui pesi l’assenza 
del dio, la vostra. Ecco, qui ora e da 
allora i vostri hanno la certezza 
della speranza, è la fede, nella 
vostra luce che finirà con l’inondare 
tutto questo mondo ora di tenebre, 
tante! E’ bello, è bene averla, 
riempie il cuore, lo motiva, lo aiuta 
a tollerare il dolore, consola. Ma io 
penso allo sconcerto vostro d’allora 
di provenire dalla luce e non vederla 
più se non in parvenze, debole la 
vista fattasi, debole la memoria 
divenuta e dover, così impoveriti, 
vivere quest’incubo, tutto! Ma 
dovevate proprio venire, forse per 
constatare e poi porvi rimedio, ma 
come? Sì,da allora, e per voi, 
questo è un mondo che ritorna al 
bene, alla bellezza con cui lo sognò 
il dio e poi lo perse, sacrificandolo 
ché avesse libertà, perché questa 
ingresso fece al male. Fu il vostro lo 
stesso dolore che qui fa la 
mancanza d’un bene sottratto 
quando prima se ne godeva, ma 
amplificato in modo difficilmente 
concepibile, perché voi siete 
persone divine! Più grande è un 
cuore più danno vi fa anche piccolo 
dolore! E io non so che poco della 
vostra vita, perché quanto è 
raccontato è avvolto di leggenda, 
ma so che avete toccato, palpato 
ogni dolore e ne avete pianto. 
L’avete fatto vostro, subendolo 
personalmente, o appropriandovi di 
quello che altri subiva. Ecco da 
allora è come cresciuto questo  
umanizzarvi però in unα κλιμαξ,una 
scala tutta da discendere, ma lo 
dovete ancora, non basta quanto già 
sofferto da voi in forma d’uomini, è 
un’umanarvi che deve umiliarsi a 
chiedere, a cercare, a vedere, a 
sentire come noi, creature orfane 
rimaste del dio, sì come vediamo e 
sentiamo nelle nostre bassure più 
infime, miseri, degradati, incattiviti, 
e ne prendete ogni angoscia, ogni 
lacrima, ogni gemito. Ecco il modo 
ed altro non v’era! Sì fate proprio 
come idrovora fa nel prosciugare 
una morta gora, che fanghiglia ne 
prende e foglie cadute e rami 
spezzati dal vento delle taciturne 
piante che più non vi si specchiano, 
tanto torbida s’è fatta quell’acqua. E 
sono i dolori nostri, i pianti e i pigolii 
nostri, che bruttura fanno allo 
specchio del mondo, che non più 
ritrae bellezza! Ecco voi esplorate 
con noi l’abisso della  assenza del 
dio, dove il male, consolidato, ha 
fatto fermento, accrescendosi a 
dismisura. Chi ha permesso che 
tanto lievitasse? La vita di ognuno è 
così breve e insignificante che il 
bene prodotto quasi traccia non 
lascia, effimero nei risultati suoi, 
tanto contrastati. Non così il male, 
aggiunge un pezzetto di fermento, 
per piccolo che sia, reca così sicuro 
altro e maggior danno. Ecco, allora 
occorre evitare non solo le 
conseguenze personali del male, ma 
il non aggiungerne di nuovo è una 
norma da cui non derogare, più 
ancora di quella positiva di volere 
tenacemente e attuare il bene, che, 
per piccolo che sia quello che vi 
si aggiunge, ha del bello, ha del 
buono, è opportuno sempre e può 
lenire la pena della sofferenza a chi 
il male attanaglia. E questo fa forse 
merito, ma è più ancora, è agire 
imitando il figlio tuo, che, 
premuroso medico, soccorre, aiuta, 
cerca di sanare da allora ancora e 
ancora, con le braccia di chi a lui 
crede. Quanto allora più trascurerò 
la necessità di tregua dal male del 
fratello, si chiami pur con un nome 
sgradevole che significhi ostilità e 
inimicizia? Ecco io posso forse solo 
poco, ma lo devo, vincerò o più 
spesso perderò una, cento volte. Ma 
la vittoria in questa lotta immane è 
già vostra e si sarà avvalsa anche 
del mio piccolo, insignificante 
apporto, ma che, non nato 
dall’esenzione, offerto dalla 
indigenza, è prezioso per voi, è un 
piccolo ma effettivo vostro 
avanzare. Perché voi vedete con 
gli occhi nostri, occhi miopi e cisposi, 
sentite con le nostre orecchie, 
tappate e quasi sorde, avanzate coi 
nostri titubanti, corti, deboli passi! 
Ecco questa mia povera vita, 
nell’economia di questa salvezza è 
ben poca cosa, ma io la metto ai 
vostri piedi, prendetela! Ecco, 
subisco, oggi un dolore o 
un’angoscia, domani una mancanza, 
un rifiuto, un giudizio malevolo, ho 
sì bagliori di luce, ma anche abbagli, 
sconforti, cedimenti, e tutto mi fa 
tristezza, ma anche 
momenti di piccola gioia da piccolo 
cuore innamorato. Sono in fondo 
un fortunato. Passa la bufera 
con gli ululati suoi, lì schianta, 
qui angoscia, su forza, coraggio, 
mio piccolo amore, la madre ci attende 
appena oltre! E già ha preso 
la nostra pena, già ha fatto suo 
il nostro pianto, garanzia che la 
cruna passeremo e insieme!

venerdì 19 ottobre 2012

La fata bambina



Ma poi santo chi è? Parli chi ne sa!
Mi chiedo e rispondo in questa solitudine dai pensieri tanti e delle domande molte, qualcuno che viver sa eroicamente qui, nel regno della malvagità, la coerenza con la fede sua, e non si ferma alle, forse solo illusorie, consolazioni mistiche, di cui non ha comunque vanto. Ma  si fa vanto della completezza alla sofferenza del figlio tuo di ciò che tormento fa alla carne sua, e di quello che al tuo cuore aggiunge il dolore per cui grida, da non aver più voce, contro al cielo chiuso, troppo simile al tenebroso sopra al capo tuo, quando vinta, arresa stavi sotto alla croce. Ecco io non sono nemmeno un po’ santo così, anzi sicuro santo non sono! Sono solo uno che t’ama, forse un po’ solo e di più oso non è, e dell’amore nostro non ne so di più ora di quanto ne ignorassi, ma so che attende le tue parole dopo le tante mie! Qui ora c’è silenzio e fa freddo un po’ dopo l’umido rimasto alla recente pioggia, ma ora anche echi di parole ho nella mente e mi sovvengono i volti cari perduti e muti quasi tutti mi si riaffacciano alla memoria, sì, proprio son solo con questi fantasmi, e della compagna il sorriso casto mi fa pungolo al cuore e nostalgia, la rivedrò? Ché temo smarrirmi, tanto come ubriaco mi sento, e di che poi? E’ forse questo silenzio, son forse i ricordi che tanti sorgono ad affollar la mente e vi fan tristezza, non so, ma così temo la strada del ritorno a lei più di non ben sapere!  E ora  mi fermo, seggo sulle tante foglie morte e quando lo smarrimento sembra lasciarmi, mi chiedo e cerco risposta, ma so che comunque di te saper voglio anche d’altro parlandomi, e così lo faccio. Se saper di cosa nuova  sentissi necessità, oggi davvero l’avrei o saprei tutto di quella, ché non è difficile conoscerla se della cultura o delle indagini d’altri in passato o attuali fa parte, ché mai le nozioni così prossime si son fatte, eppure tante le neglette, anche da me! Sì, ogni parola ha una sua storia, un uso per indicar cosa nota o descrive una situazione, un fenomeno, o definisce un concetto. Ma non tutti i perché vengono soddisfatti dalle risposte che se ne compongono e talune di queste aprono anzi una prospettiva e un problema nuovi. Diverso sarebbe se non mi contentassi delle cose scritte o da altri parlate o se desiderassi di un fatto sì un significato, ma quello personale, che chiarito cioè mi venga ciò che assume una rilevanza ristretta, che divenir voglia esclusiva e peculiare alla coscienza mia. Vero possibile mi nasca questa necessità e a me ne voglia io far chiarezza? Ecco io ricerco in tutto e tutti il significato tuo per me solo! E non è poco che voglio!Tu che sei, chi sei per me in particolare? Ecco un fiore, e mi meraviglia la presenza sua qui nel chinale or che è autunno, ché in altra epoca lo so apparire. Lo descriverò a chi ne sa e portarglielo potrei, segno d’affetto,ma questa vuol che i fiori stiano sulle piante loro, ché saperli recisi le fa tristezza. Certo ella me ne ricorderà il nome ed esperta, qualche curiosità aggiungerà e ne avrò diletto. Ma come dirle la particolare impressione, la dolce sorpresa, di poco fa e ciò che tuttora mi suscita la vista sua coi suoi petali gialli e lucenti, singolo fiore in un prato di foglie morte e arbusti scheletrici? Essa non appartiene a nessun sapere, è mia, e tentando di comunicarla la falserei, comunque nulla emozione simile accenderei nell’altra, eppure tutto cerco di condividere con lei, perché mi versi un po’ della dolcezza sua nel cuore assetato. Ecco, è proprio così che m’accade di te parlando a me stesso,  pensandoti anche senza parole, o le mie cose raccontandoti. Sono incomunicabili, se ad altri parteciparne volessi, e mi fa groppo al cuore non riuscire a ben chiarirle nemmeno a me stesso. Ma c’è dell’altro più inquietante. Io, benché tanto lo desideri, più non ti vedo nemmeno nei sogni, e resti, sebbene tanto parlata e mai parlante, nel vago del desiderio, nell’indeterminato dell’aspettativa e nell’anelare della speranza che venga il futuro a portarti, quando più acuta l’imminenza, certo illusoria, si fa al cuore, che ti sogna tra le cose belle, buone e di bene di cui nostalgia ha, e accorciar vuole le distanze. Ed è allora che il tuo mondo, che non so, avverto appena dopo, appena oltre queste apparenze e le emozioni che mi suscitano, e dolce m’è credermi capace di sollevarne il velo. E il cuore mi s’avaccia e il respiro si fa bolso! Oh quanto vorrei di te, e mai questo cuore ne sarebbe sazio! Ecco questa mia storia di innamorato, tanto desiderio e pochi fatti, non somiglia ad alcuna dei mistici tuoi, che pur tanto mi commuovono, più delle parole con cui tentano inadeguatamente di trasmettere le esperienze loro. Io non nego affatto il loro accesso al mondo tuo sacro e arcano, ché le parole loro sincere sanno di accorata preghiera, solo non posso farle mie, escono da cuori ricchi e umili a un tempo, e io troppo misero sono! Sì, t’hanno pur vista, toccata, avuta nella mente con più dell’impalpabilità del sogno, nella visione e io non posso aver tanto! Oh fortunati! Sì tu a me favola sei, favola vuoi restare e io favola ti vivo e questa nostra storia, che non ho parole adeguate per descrivere, quanto vero somiglia a un vissuto mio, che confabulerei nel ricordo tanto lontano s’è fatto! Anche lì parole strappate alla mia timidezza, eppure quante dirne avrei voluto, occhiate furtive, sorrisi fugaci, desideri, oh sì desideri, eppure tanto casti, forse scarne carezze e il conclusivo piccolo bacio della fine dello stare un po’ insieme e poi buio, tanto buio! E dov’è più la piccola di quella favola? I suoi biondi capelli son tutti trascolorati, il suo corpicino ossuto s’è fatto diafano, le sue parole echi! E dove ora tu, favola di tutte le favole della mia vita? Perché non tornate, con la sua cantastorie, la madre cara, che a me e a mio fratello, rapiti, le tue storie dir sapeva? E’ passato il tempo, oh quanto! Eppure è come acqua che leggera, lenta cade sulla pace dello specchio d’una gora in cui alberi stormenti alla brezza, cantano con parole arcane e dicono dei nostri rimpianti e parlano dei nostri sogni ai nostri morti, occhi lì tutti affacciati! E io son sì accorato, ma rassegnato, triste un po’ con gli occhi velati, e la mia smania di te sento chetarsi, ma brivido ne ho al cuore. Ma se forza avessi urlerei da squarciare il cielo e farti cadere tra queste braccia avide, né ti lascerei qualunque forma assumessi, come la Teti del mito che invano sfuggir tentò dalle braccia di chi l’amava. E a questa immagine di lotta, che forse mi lasceresti vincere,  sorrido, ma amaro! Ma allora qualcuno che m’ama urli per me, squarci questo cielo oggi cristallino ma pur tanto greve, o culli lei per te i pensieri di questo vecchio, che solo addormentarsi vuole al suono dolce delle sue parole, ché forse verrà la bella fata, bambina occhi cerulei e biondi lunghi capelli!

martedì 16 ottobre 2012

Atei


Penso che se il dio è in me problema, pungolo, e rimane mistero, e, nonostante tu vicina tenti d’essermi, anche dramma, io debba considerarmi come l’ateo è. Misticismo ho sì, ma improprio, contraddittorio, quello che ha l’ateo appunto, e lo proverò! Ma ateo di che specie?  Io sono infatti un tuo patito, come lo è anche, e più ancora, chi ti nega, tormentandosi, e non certo chi, religioso si dice, e ti nega nella carenza di gesti, anche appena dopo l’ossequio formale nell’assemblea. Lì si va, credo, per rivestirsi della vostra carne in un processo che, iniziato, deve proseguire nell’imitazione del figlio tuo, cioè nell’avere la sua stessa disponibilità per il fratello e più ancora per chi non vuole esserlo, come una pulsione, un’ossessione di benevolenza. Non mi stancherò mai di ripetermelo e di ripeterlo! Ma piuttosto lo gridi chi sa, è questo il suo compito, come si fa con i sordi, ché io forse non ho più voce! Ma insomma chi è il mistico se non chi crede possibile un’unione intima e diretta con te, riconosciuto che qui proprio sei, e anche e soprattutto chi, cercando di negare il principio fondamentale dell’essere, se lo ficca nel cuore? C’è vero anche un misticismo ateo? E io qui a questo rispondo, ma prima così mi dico: se vero è quasi sempre un’ipocrita il frequentatore abituale dei luoghi sacri, chi prega, o crede di farlo, nel solo rito, se non prosegue nel gesto la preghiera sua, io così non vorrei ridurmi, preferisco, per averti sempre nel cuore, il gesto tentato anche se inefficace, non le parole recitate, che tu forse nemmeno ascolti più se ad esse quello non si fa seguire, e, forse ingenuo, vederti nelle donne tutte e più in questa, ché pensare m’è dolce tu me l’abbia data. Sì, io t’ho nella mente, non solo nella sua parte migliore, che dico cuore, e lì t’amo, o forse mi illudo d’esserne capace, ma in fondo non diversamente dall’ateo dichiarato. Costui, nella sua forma d’amore negata, ma presente suo malgrado, non tanto provar vuole che  tu non ci sia, qui nel mondo, ma che tu non sia nella realtà tua metafisica, ché nulla c’è per lui oltre. Questo non esserci avrebbe del vero se almeno in lui “de facto” tu non fossi, ché nascosta sei qui anche altrove, o forse solo anche presente in una latebra del cuore di noi pochi, e soli spesso, che t’amiamo, o ardentemente lo desideriamo, e forse proprio in questo volerlo tu sei di sicuro. Sì, altrove assente saresti, se non trasparissi soprattutto nel gesto di bene per l’altro nel bisogno suo, fosse pure per l’immeritevole o il nemico perfino, in questa realtà dove sicuro il male spadroneggia, quasi indisturbato. Sì, egli, l’ateo, si illude di ben altro,  che tu non sia ontologicamente e dimostrarlo vuole a se stesso almeno, e si tormenta dell’impossibilità di riuscirci e così t’afferma, e non lo vorrebbe! Perché? Solo perché comunque è valore la sofferenza o c’è dell’altro ancora?  Sì, perché questa pretesa,  è  impossibilità anche teoretica, che si rafforza in pratica, perché egli è certo che poi vivere dell’eventuale provato non si potrebbe, e questo più lo tormenta, il che sarebbe contraddittorio. Egli sente di non poter ignorare chi è nella sofferenza, e questo riaffermarti nel gesto gli sfuggirebbe, perché tu continueresti a parlargli in chiunque nei cenci suoi s’addormenta e si sveglia. Io non sono  diversamente tormentato, ti imploro di esserci, qui proprio per me e più per chi soffre, vera, palpitante, concreta, da vedere, da toccare, al di là del mio stesso gesto e forse ignorar voglio che vero tu sei solo in e per quello. Un gesto che non nega soccorso a chi è nel bisogno, e si sforza di non distinguere, anzi di prediligere l’immeritevole e il nemico perfino, così toccando e facendo toccare la presenza tua! Ecco, ho ancora ripetuto che questo agire è per il credente una necessità, così è ossessione almeno il ripetermelo! Quante volte lo dirò? Quanto basta che mi sia chiavato in testa! Sì, abbiamo entrambi un pathos religioso, cioè un comportamento, un costume, un modo d’essere, agire, patire, che ci invade completamente, lui suo malgrado, al posto del dio, che egli vuole inesistente, me riempiendomi del tuo, ciò che sento di aver già, ma solo poveramente, o temo, nei momenti peggiori,  manchi del tutto. E come lo avremmo se non ancora nella attualità del gesto che sfugge a lui e a me fa obbligo? E questo che dentro abbiamo, ci arde e consuma, siamo mistici, lui senza il dio, io forse senza te, che sei il dio per noi, il dio qui, il dio a misura di noi, poveri uomini, e di cui sono assetato e più e più ti vorrei, se vero già tra le mie braccia sei un po’ solo, ché vuote più non sono! Ma allora l’ateo vero chi è? E’ proprio vero che nessuno lo è “de facto”? No, c’è! E chi? Ora, io mi chiedo, quanti sono quelli che nell’ossequio domenicale salvano solo la faccia? E no, non basta esser pii, o tentarlo, c’è uno scotto, un dazio da pagare, la coerenza! Altrimenti si è lì convenuti ad adorare solo un idolo, mute statue di tanti santi, e non si è mangiato che pane! E questo, loro prevalendo, sarebbe di fatto un mondo in cui si è scagliati senza scopo, dove un dio non c’è, ci sono solo molti suoi surrogati, tutto quello che la cupidigia brama e ottiene con la sofferenza di molti. Ed è costui che grida, anche tacendo la vergogna sua, la sua verità ed è sconsolante per noi che lo faccia spudoratamente,a noi che immersi siamo nella banalità di provar che il dio qui c’è, oppure al contrario che non è, né qui, né altrove. Io preferisco l’ateo teorico, “in verbis”, non questo “de facto” che rigetta il pasto suo, appena consumato, contraddicendo chi in lui vuol essere e vuole che di sé si appropri! Sbaglio, madre, se orrore ho dell’ipocrita, che con gli atti suoi sconsiderati è l’ateo vero, che prova che non c’è un principio fondamentale, che presiede al mistero delle cose, o, se c’è, non ha cura di noi, cioè non è qui? Allora non resterebbe che l’egoismo e sarebbe qui la porta vorace dell’inferno, non di quello della metafisica, che forse non c’è per sempre, perché sarebbe concreta questa possibilità, essendo impossibile l’unione intima con chi è qui vacante, e il male e il dolore che ne consegue sarebbero l’unica realtà! Non prova cioè questo egoismo sfrenato, che s’aggiunge al male di fondo, che il dio non solo non c’è, è assente, ma anche non è, è nessuno? Allora meglio sarebbe morire!

Madre, esci da questi cuori, atei solo “in verbis”, urla che ci sei a quelli “de facto”, non cantare soavemente, in solo registro mistico, in quelli che t’amano!


sabato 13 ottobre 2012

L'amore vero


Cor tuum immensa abyssus caritatis” per gli uomini tutti e basta prenderla, ma non per tenersela ben stretta, ma da condividere, conosciuta la sua chiave. Ma quando pur nota sia, talor quella intoppa e non s'apre quella porta. Perizia richieder sembra e certo delicatezza vuole, eppure falla! Accade infatti che il mio non sia il comportamento da te sperato, posso averti delusa, e tu ti neghi. E io sto fuori al freddo degli esclusi. Quando è stato? Forse or ora con questa donna, disattento alle parole sue, o posso aver deluso il mio prossimo, trascurandolo o non ho pregato per il mio nemico, più che con parole, col gesto. O forse è solo illusione credere a una via breve che al cuore tuo conduca. Allora metafora qui farò della mia difalta con quello con che reagisce questa donna accorta, che ti mima, ma che poi anche sembra dir le tue parole, se vero recita i tuoi gesti. Ed ella è sì generosa, ma anche gelosa, e allora tu devi esserlo. Ella teme l'affaccendarmi disinvolto con altre, scordando quanto tuttora con lei sia timido e pur abbiamo tanti anni di “una abitare”, tanto che par questo amore esercitarsi per l'eternità, presagendo la volontà tua di condurvelo, quella che anch'io sicuro ho, e di lei spero che questa stessa speranza abbia. Ma se ver'è che ella ti significa in tutto, tu che temi? Forse che smarrisca la chiave per il cuore tuo, troppo beandomi, poco sacrificandomi per gli altri o subito rinunciando. Ma so la vera chiave qual è? E se io gentil sono con altre è perché cortese son con tutti e con le donne avaro non son da sempre, anche se con scarsa fortuna, pur agendo, o sforzandomi di farlo, “suaviter in modo, fortiter in re”, ma sol una ha potuto dir con convinzione, vero uomo sei! Sì, almeno voi due non ho deluso completamente! E ora talora l'urbanità dei miei modi, oggi che c'è tanta carenza di gesti e parole prudenti, e chiare, e conte, ha un suo effetto e la misura ne vien premiata, ché quelle che incontro, rassicurate dalla vistosa vera e dai capelli bianchi, a dolci conversari si lasciano attrarre. E così son vecchio signore che il parco frequenta, dai modi contenuti e gentili di cui fidarsi. E subito di te parlar voglio e quelle un po' ascoltano pazienti, ma poi vogliono sì ancora parlare, ma d'altro. E se a taluna racconto della mia donna, per così di te parlare, quella, che anche assai giovane la vita può aver deluso, afferma trattarsi solo di bella storia d'amore, ché non c'è l'amore come valore assoluto, come incontro già qui, che cambia la vita e imparadisa. Ecco, così scarsi i proseliti miei sono. Forse per più fortuna dovrei dirmi alla sua ricerca ancora, testimoniandolo con la mia ostinazione, e non d'aver trovato un vero amore, icona tua come lo son tutte, ma di più, proprio perché vero, autentico specchio, “idolum tuum”. E se agli altri maschi confesso la preziosità che m'abita il cuore, quelli mi dicono sì fortunato, viste le loro esperienze tutte mediocri, ma piuttosto ricordano, confabulando certo, i cento favori da femmine vogliose e compiacenti, e scarsamente s'interessano al dover, per un maschio quale l'età sua, considerar della donna la complementarietà tutta del proprio sé, non solo fisica, ma psicologica, che preludio sia, a ben altra compiutezza, ed esaustività, la tua. E' uno, questo interlocutore, in fondo che cercato ha sì un cuore di donna qui, ma ne è restato spesso deluso. Ma l'amore vero è pur venuto, solo che cisposi gli occhi, abbagliati da più fascinosi brillii, non l'hanno riconosciuto. E io, innamorato di te e della mia, non so come introdurti a quei cuori aridi tanto o delusi. Ma ora mi chiedo: qual'è lo specifico dell'amor tuo e ce n'è in noi briciola? Dire che è amore che non investiga se soccorre, non giudica se si dona, non umilia se benefica, è senz'altro vero, ma definirlo da queste proprietà di completo disinteresse e gratuità, è subito farlo avulso da ogni psicologia umana e la donna, la più virtuosa di noi, non può subito portarcelo, è per lei stessa piuttosto un traguardo, un tendere verso, un voler adeguarsi, perfezionare il suo sentire, porgere, patire e gioire. E nella misura in cui sarà uno sforzo per amore, perciò anche una sofferenza per amore, completerà il suo povero solo umano e così degno simbolo diverrà del tuo. Insomma credo che la sua sia una umanità in fieri, divenga cioè, si acquisti, sia cioè un processo di adeguamento e miglioramento del proprio sentire e porsi per l'altro che non può aver fine, se tu ne sei il modello e se è te che si vuol raggiungere, anche senza saperlo o pretenderlo, amando. E', per donna che ami te e l'uomo suo, un perenne germogliare e tendere a te, che così la chiami ad altezze supreme dove tu la vuoi tua e per il figlio tuo. Insomma amare è umanizzarsi, è un farsi vera domina. Io, maschio sprovveduto, posso solo provare a immaginare inadeguatamente quello che passa nel cuore sempre misterioso di una donna. Ecco così, quest'amore mio è partito da premesse assai comuni di innamoramento: ecco uno comunque simpatico, che mi loda, che, così come sembra, serve per sentirmi più sicura, ché forte, virile pare, mi adula e mi trova bella, e prevedo buon padre per i figli che verranno, è un buon inizio, posso fidarmi! Ma io donna, vero innamorata, mi fermerò, non chiederò di amare più e più e di sconfinare dai limiti del ragionevole, man mano che l'umanità dell'altro mi si svela, accamperò scuse di prudenza, falsi pudori, arzigogoli d'egoismo, o mi darò tutta, corpo ed anima, generosa? Ecco quest'umanità che mi sta di fronte io ho creduto virile, se vero lo è, e sarà il tempo a dirmelo, è pur sempre da educare, elevare, far crescere con me. Potrà anche alla fin fine rivelarsi un'apparenza fragile, bisognosa, sarà allora un cuore da avvicinare con tenerezza, prudenza, servendolo con pazienza senza umiliarlo, senza giudicarlo e sarà anche a prezzo di sacrificio. Mi chiederò: sono pronta a questo, sento d'essere nata per questo compito? Se sì, avrò un criterio per dirmi che non corro invano, l'altro diviene più sicuro, aperto, meno titubante, e ricambia sempre più amore con amore, tutto quello che può, generoso, attento, pronto e conferma la prima impressione, avventata e frettolosa un po', avuta nei primi approcci, speranzosi prologhi d'amore, di questo, sublime divenuto, co-artefice lui con me. Insomma io ho scommesso su questa umanità e ho vinto! Ché lui s'è fatto mite e umile di cuore, tutto, ogni cosa, per quest'amore! E io, in me tornato, dico: la sua può sentirsi vera domina solo allora ed egli la desidera compagna, vera amica, non solo amante, e lei dovrà essere quella che ha sempre sospirata, anche senza saperlo, una che avvolge l'altro dell'umanità sua, la completa, che anche di sospiri è capace, che anche di rosa di pudore sa tingersi, non solo di belletti, e proprio agli approcci suoi, tanto delicata è rimasta di cuore, come ragazza era. Ecco una donna così, che desidera, così divenuta, compagno, amico l'altro, è capace di implorarlo, senza dirlo o forse saperlo, suo benefattore, perché le suggerisce, le suscita un amore che il tuo lambisce! Un amore così forte, oso dire, che ne trema l'aria e ne sbianca il cielo, ché è mistero di infinito, di te! E noi poveri maschi siamo. Si capovolgono i valori, quella che sembrava la più debole, la bisognosa di sicurezza e d'amore anche tenero, di cui ci pensavamo in qualche modo benefattori, pensandoci più forti, ricchi di qualità, intelligenti, è invece lei la più sicura e forte, la migliore, ché se ne è fatta capace per amore, e ora benefica, vero umanizzando entrambi. Sì, ti somiglia in fine, prevede, provvede amorevole e mai c'è enfasi, sussiego, c'è umiltà, saper donarsi e, come tu fai, generosa, con mani d'oro donando tutto di te, se la chiave del cuore tuo si conosce, e conoscerla è forse alla fin fine saper anche soffrire per l'altro, non rinunciarvi, dimentichi della sua rozzezza, della sua ingratitudine, senza investigare sui meriti spesso inesistenti, senza giudicarne le azioni spesso avventate, senza umiliare nel dono, che spesso deve divenire perdono. Ecco la propria umanizzazione, cui l'altro risponderà dapprima timidamente, poi più e più, appieno in fine, migliorandosi, facendosi degno di tanta dedizione, umanizzandosi appunto. E io mi chino a baciare i grigi capelli di questa mia piccola donna, ché so che tra noi così è accaduto, non una piccola femmina, una leonessa ho preso,vera domina del mio destino, e gli occhi mi si riempiono di lacrime e finalmente si aprono alla luce tua e il cuore mi s'avvaccia e il respiro. Sì,è lei la vera chiave al tuo cuore! Ecco, ora lo so, temi la perda avventato! Ché è te che vero così ho, un po' almeno, e diventa tutt'ali la speranza di raggiungerti, ma lo voglio con lei, palpitando i cuori nostri giovinezza nuova, con questa che schermo mi faccia al cuore da troppa gioia! Dimmi se vedo giusto, è così l'amor vero umano, vero tuo a un tempo?

giovedì 11 ottobre 2012

Agnelli tremuli


So ben io qual'è lo specifico di appartenerti? Forse no, e mi chiedo: quand’è che la mia vita dirò ben spesa, giudicando raggiunto l’acme delle possibilità sue? Credo che la mia gioia di stare, amare, vivere, debba essere da me avvertita palpitare nel cuore degli altri. Così certo dovrà esserlo la pace, da condividere. E' questo, credo, il criterio! E quand’è che questo cuore sarà vero in pace? Credo quando, abbassando la ricchezza, anche se poca, che esso sa d’avere, come la stessa ricchezza materiale di cui però non gode, da bene prezioso gelosamente custodito, a mezzo, strumento di cui servirsi per il bene condiviso, si sentirà così proprio nella sospiratissima gioia del dono e più ancora del per-dono,da essa tutto inondato. E allora perché io non ho pace ancora? Forse perché so che è ancora moltissimo quello che far dovrei, ma, credo, non tutto il compito comunque esaurirei. Ho già tante volte parlato del mondo in cui ci siamo svegliati e l'ho fatto, credo, lamentandomene fino alla noia. Ma ho detto proprio tutto, quello che ciascuno veder può se non s'occupa delle sole bagattelle sue, e poi non è forse il male inesauribile? Sì, c’è dell'altro ancora e ancora! E io faccio metafora di quello che qui è, e lottarlo diventa compito precipuo, pensando al lupo che divora l’agnello dal timido belare, alla serpe gonfia del pasto suo che s’addormenta sulla vittima, al coccodrillo ingordo che par piangere del misfatto suo, e so che non è abbastanza per immaginare ed esaurire così l’umana ferinità che sempre vi aggiunge del nuovo dalla fantasia sua perversa. E c’è l’invidia solo umana, megera torva, c’è pure la maldicenza velenosa, c’è ancora l’ilarità dello spudorato ricco gaudente, che sogghigna di tutto quello da cui è esentato, anche della difficoltà, della disgrazia, della fame dell’altro, e c’è anche la cupidigia dell’egoismo, che fa più tetra angoscia all'altro, e c’è la violenza disgraziata, e c’è la stupidità di chi si crede dalla parte del dio eppur si sdegna del prossimo o addirittura gli fa violenza. Perfino su donne e piccoli! Ecco c'è questo e dell’altro ancora e fanno il nemico! E con spudoratezza pomposa il fortunato e il forte reclamano il diritto di defraudare più e più i già poveri, calpestano quelli che la nascita o il bisogno ha reso inferiori, sopprimere vogliono il malato, il vecchio, il deforme, il debole, l’indifeso feto. Ecco questi sono i satana qui, e tocca perdonarli e non basta , occorre anche amarli! Sì,sono i malvagi, gli assassini e tocca lottarli, ma poi perdonarli e in fine amarli! Eppoi quelli che accessibili rendono i paradisi di morte e vi lucrano, strozzando i giovani fra artigli infernali. E quelli dalla potenza spaventosa, i parolai, dalla fantasia scatenata all'accaparramento, che corrompono, si appropriano del bene comune, delle risorse comuni, come certi politici oggi, e quelli che con i soprusi loro, non solo nel nostro meridione, tentano di far deserto dei non omertosi, di dar ad essi la pace del deserto o del cimitero. Eppoi, eppoi ci sono tra i vip, quelli che s’aggirano, e paiono felici, nei labirinti del mondo, come abbaglianti visioni di falso bene per i più deboli, prima nemici a se stessi, già malati i corpi abusati, e i cuori immeschiniti, e sembrano non pretendere imitazione alcuna, eppure, sanno il fascino malefico che esercitano sui giovani e fanno gregge intorno di emulatori, e godono di richiamarne tanti, ma li candidano a perdersi nel paradiso delle polverine negli sballi loro assordanti. Ecco proprio tutti questi sono da combattere, ma nell'ambivalenza, in un'azione che va dalla lotta non solo fino al perdono, ma di più ancora fino all’amore! Chi vi riuscirà? Odiare il male, cercar di vincerlo e poi, ravveduti i suoi, anche amarli, ché vittime prime ne sono stati! Ecco lo specifico esser dalla parte tua, credo! E vi sto io? Tua invece la pura ambivalenza se vero è che vivi in un eterno presente, e se tu fossi solo umana, il poeta latino, parlando del tormento di scoprirla nell'animo suo, senza potervisi opporre, a causa del suo sfortunato amore, ti metterebbe in bocca le sue parole: “odi et amo”! A noi invece il sentire questi due momenti separati, successivi e nello sconcerto che così debba essere per volontà divina, e poi il compito di camminare e camminare “corde magno et animo volenti” verso l’avvenire con la speranza che, dopo tutto questo travaglio, vero esso ti porti. Allora tu col figlio verrai come nuovo sole nel mondo, ma i figli dei figli nostri ti andranno incontro, benedicendo la luce che sei, o stolti, da questo gregge peccaminoso venendo, la malediranno, scavando con mani sanguinose nuovi putridi abissi della notte,sì ancora un regno di chiaviche astute e mai sazie, come son stati i padri loro? Non è già accaduto alla vostra prima venuta e non è in fondo il mondo lo stesso, se non peggiore? Uccisero il figlio tuo temendo conseguenze nefaste sul popolo, che divenisse imbelle, già sottomesso ai romani feroci, obbedendo al suo comando: “diligite inimicos vestros”. E tu potrai al nuovo insolente rifiuto perdonarci fino ad amarci? E sono queste mie pupille, che tanto orrori hanno già veduto e tanti ne prefigurano, fatte veramente per la gioia dei cieli, ché degno me ne son fatto col lo sforzo sincero di agire in coerenza della fede mia, o vi sono destinato in quanto perdente, troppo stupido e debole per far qui l’eroe? Madre, qualunque sia il mio posto nel tuo amore, fosse pure tra gli ultimi della lunga teoria dei tuoi, non scordarti la promessa tua, ma me e questo mio piccolo amore prendi. Siamo forse solo agnelli tremuli! Ecco queste le mie parole per te. Frasi, propositi, considerazioni, che forse qualcuno condividerà, ma poi, considerata la mia pochezza, si son fatti preghiera accorata, l'accoglierai?
Noli verba mea despicere, sed audi propitia et exaudi!
Domina, propitia esto mihi peccatori!”
Sono queste mie invocazioni latine simili a quelle di san Bernardo e di re Manfredi, e me ne approprio perché non so meglio dirti quel vuoto, quel tremore che mi fa al cuore, pensando te vicina!
Proprio agnello sono per amore!

lunedì 8 ottobre 2012

Il miracolo più sublime



Talvolta rimane più semplice, nei rapporti con gli altri, limitarsi alle frequentazioni solite, i pochi considerati buoni amici, il che è come aggirarsi nel piccolo “hortus conclusus” del proprio ben noto. Ma se è vero che il se stessi è il più difficile da conoscere, e spesso ci si scopre lontani da come la speranza e l'illusione ci dipingono, si trova il sé nel rapporto il più aperto, gli altri tutti coinvolgendo in questa ricerca. E conoscersi è conoscerti. Ma se il rapporto con gli altri è il più esteso, questo è spesso sì gratificante, ma altra volta perfino oltraggioso e traumatico, ma se così, sempre permette di meritare quell'abito nuziale metaforico con cui si riveste l'uomo nuovo, quello della carità, cioè dell'amore nonostante la scortesia e l'ingratitudine con cui qui l'arrogante, sprezzante fino al dileggio vile, insolentisce senza accogliere e capire l'altro che gli offre il suo prezioso sé. E' storia comune di ogni tempo e luogo, ma permette d'obbedirti nel comando nuovo, che il figlio tuo ha radicalmente testimoniato noi amando perfino in chi recalcitra al tuo invito, cessa di essere uccello dell'azzurro solare per rintanarsi nell'egoismo suo, che ha la scurità dei recessi tenebrosi e putridi. E noi dobbiamo imitarlo! Sì noi, che vorremmo essere quelli dei raduni amichevoli, dei banchetti cordiali, dei lieti conversari, sperimentiamo così quanto può essere amara la castità dell'amore offerto a tutti, cioè la propria disponibilità, la propria benevolenza, la propria amicizia. Ma come in travaglio profondo, dalla terra nera sale la tenera piantina a dar fiore, che s'apre giocondo a profumare la via, questa che or ora percorro concreta, e che tanto somiglia all'erta metaforica della mia vita spirituale, così la delusione in questa, il dolore che spesso l'accompagna, fanno bella l'anima mia palpitante ed essa gemma, ché da essa fresca, inebriante s'espande la tua letizia, che incentiva, rafforza, in chi la sa recepire, la speranza e la fede. E dall'erta sassosa e spesso solitaria che si percorre fidenti, ci si sgroviglia dalla miseria del nostro tempo per farsi aquile delle vette della luce. E c'è letizia, e tu lo sei, e c'è conforto, e tu lo sei, e c'è amore, e tu lo sei, e di tutto questo vive lo spirito che qui ha versato spesso lacrime amare, tentando la via tortuosa dell'amore. Ma nessuna paura: non ha forse pianto il figlio tuo? E saperlo non addolcisce le lacrime nostre? Ecco, io continuo così, e dico e dico, come da pulpito parlassi, come chi dice e spesso non fa, ma in vero io lo dico dalle strettoie della sofferenza della età mia tarda, dall'asprezza della mia stessa lotta per la dignità d'uomo che vorrei conservata, da questa prospettiva che angusta s'è fatta e teme il dolore e l'abbandono, e che mai vede giorno nuovo veramente sereno. Io non sono un parolaio dell'amore, io ne vivo la chiamata aspra e dura qui tra la superficialità e la maldicenza viperina del vano e dello sciocco! E t'ho cercata, oh quanto t'ho cercata! Senza limitazioni, senza riposo, in chi nei cenci implora, chi ha fame, ha sete, chi geme comunque nel dolore, ma anche nell'ingrato, nell'egoista, disgraziato senza saperlo, in quello della ripulsa, dell'amore e dell'amicizia negati, non che lì tu sia, in quelle deficienze, ma in me disposto a non trascurarle, ad accoglierle, nascosta, ché ne venga fuori dopo il turbamento immancabile dell'anima al contatto loro, gelido. Ecco, è fiamma quest'amore? Se sì, deve salire fino a fondersi e palpitare della tua eterna luce,o se gemma, è fatta per la bella primavera tua divina. E di che intanto mi conforti? Non conosco che gli occhi di questa piccola donna. Non sono poco! Ha la virtù della mitezza, della dolcezza, sono qui tutte le virtù della femmina buona, che trasformano in lembo di cielo sereno d'azzurro quest'aiola nera, feroce di vita. Non puoi non essere in lei! Ella t'attrae, ti trascina e tu rimani! E' il mio restarle accanto, il mio ascoltarla, il mio tentare di tacere, il mio ripetere quel suo linguaggio misurato e dolce, il mio invitarla all'amore con la stessa pudicizia sua... Ecco, nella misura in cui io sono te per lei, lei mi riverbera il tuo stesso amore. Sì in questa c'è diversa risposta, nella misura in cui tento l'amore, ora mi si dona. Ché ridono le pupille sue e imparadisano. C'è miracolo più sublime della donna, non parla di te sempre anche tacendo? E sa tacere questa donna mia, antitesi mia perfetta!

domenica 7 ottobre 2012

Il banchetto celeste


E' questo un nuovo mattino con te qui nel bosco e tra nuove presenze, i funghi, assai numerosi dopo la calura e rare ma abbondanti piogge. E io m'occupo di riconoscerne le varietà, accorto alle particolarità botaniche, pure non smetto di pensarti in questa distrazione piacevole, anzi ti dico cose mai dette ad altre prima, la madre cara, la piccola Or, primo sogno, le altre tutte, poche, ma occasione di tanti pensamenti, come poche le specie qui diverse e tanti per ciascuna i particolari da discernere, fino a questa donna graziosa che mia s'ostina a dirsi. Fa bene, merito la dedizione sua? Sì, mi fa dire il desiderio mio, no l'umiltà mia onesta. Ma ora io so che dirle è come dirti e son tante le parole per lei, tante dei miei più reconditi pensieri, ed è così che mi conosco, svelando il mio intimo, ma anche so che le cose che rimangono non dette, sono le più e forse non vivrò così tanto che la mente me le possa tradurre in parole. Ma so che tu le anticipi, il non ancora espresso leggendo, e sebbene questo mi tranquillizzi, resta il gravoso compito di conoscermi per conoscerti. All'entrata del santuario, oracolo d'Apollo in Delfi , c'era la scritta: ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ, che invitava l'uomo a conoscersi, ché in sé sta in nuce l'universo tutto e l'oltre. Ma benché mi sforzi di far mio questo consiglio della saggezza greca, questa mia vita resta dubbio e problema, e più so di me, degli altri e del mondo e più modesto mi faccio e mi scavo umiltà, ché le idee meno chiare mi si fanno, e anche so che mi si accresce la distanza dall'ideale che esser vorrei per poter venir degno al tuo incontro, prossimo ormai. E questo assillo di riscatto da una condizione povera di tutto, anche morale, ho avuto fin da ragazzo, se non prima. Sì, ho cercato di sentirmi uomo diverso da come ancor oggi forse sono e forse tanti scrupoli m'han fatto mancar molti traguardi, ché tendendo all'alto, ho vissuto nel più pericoloso dei modi, col rischio di venir meno a me stesso e ai propositi miei più degni e ritrovarmi meschino e moralmente fallito. E misero sono, ma fallito, se vero qui sei ora con me, non mi sento affatto. E a me il mito suggerisce l'incontro prossimo nella realtà tua, dove ora tu non mi vedi come io te non vedo qui nella mia, nell'occasione di un convito nuziale. Tutti vi sono invitati nel suo eterno presente che lì si dispiega dal momento desiderato, mentre qui corre in una direzione sola il tempo e solo sfugge, e lì i più virtuosi, e tu mi voglia tra essi, fanno a gara per esser servitori della tua mensa. E io mi vedo nel compito di radunare la folla degli invitati, facendo lor dolce violenza per sospingerli a quella reggia in cui nozze si celebrano tra la creazione tutta, che l'assemblea dei credenti include, la sposa, e il figlio tuo. Io mi vedo accompagnarli lieto agitando un fresco maio, ramo tutto fiorito per l'innamorata mia, dei fiori più belli tutto adornato, ché imbandita è la mensa e tutti noi aspetta. Sono i poveri di qui i privilegiati tuoi, e io povero sono e ben mi ritrovo personaggio di questa metafora, ché qui intristisco di inedia spirituale nella lunga attesa. E l'anima mi vedo tutta rivestita di carità da far onore alla gentilezza vostra, ospiti qui e là anfitrioni squisiti. Perché? Io anche so che lo stare dove sei sarà anche vedersi come si è realmente, e in ben altra metafora mi fingo. Io sto come di fronte a uno strano specchio, che non rimanda la mia immagine, lì evidente carente quale qui non appare, ma è un'immagine che si giova per esprimersi di tutto quello che qui mi fa falta, carenza, mancanza di tanto. Perciò lì è te che vedo riflessa, ché di tutto mi completi con l'amor tuo. E certo mi vestirai della carità tua a coprirmi la vergogna dell'anima di penitente ravveduto, non bastando la bianca veste dell'innocenza ritrovata...
E sarà riverbero di fiamma viva, qual'è l'amore, sul candore di quella veste, come sole, che qui al tramonto di giorni sereni sopravvenuti a gelidi tempestosi, fa rosse le nevi con gli ultimi raggi suoi sulle nostre vette. E io vado con la donna mia, di simil rosso adorna, al banchetto nuziale come fosse il nostro, qui non potuto avere, e per essa mi fan riconoscimento e mi fan entrare, lei forse privilegiando. Così con questa metafora, che spero da te piaciuta, faccio “contaminatio” della prima. Sì salgo, con la donna mia, bella quanto tu solo sei, a quel nostro banchetto celeste obliando di qui tutto, immerso nell'amore che sei. E a questo sogno, tutto qui di più bello s'incolora, raffina in altra forma e in nuova epoca, e son qui e pure altrove e sono qui vivo e già non più, e vertigine ne ho e spavento, e φευ, φευ! Antico il greco, di ora la supplica di più pietoso amore!

giovedì 4 ottobre 2012

Il nido del tempo


Sembra che chi avanza negli anni tentato sia d'avere in uggia le novità tutte, perché si diventa rigidi, l'elasticità perdendo della mente in un corpo che anchilosato tutto vuol farsi. Allora ci si rifugia in vecchi schemi e disarmati per questo si è per problemi nuovi, incapaci di ben comprenderli, e a risolverli, inutili le passate risposte. Quelli sono a stento compresi nella drammaticità loro e passano ai filoneisti, entusiasti delle novità tutte, tra cui c'è chi sa capirli e cercare soluzioni adeguate,nuove appunto, non tentate prima. Ma è la realtà stessa a richiedere interpretazioni nuove dei fatti suoi, meglio rispondenti, e se è assioma l'immutabilità del mondo nelle sue leggi arcane, l'esteriorità ne è in continuo mutamento, e vela quelle e si è in sforzo continuo di comprensione, di adeguamento delle soluzioni. Così s'evolve salendo una “κλιμαξ”, una scala, la scienza dell'uomo, che postula la sua comprensione del mondo in un processo di avvicinamento continuo agli “arcana rerum” riproposti come problema, e le risposte adeguate oggi, saranno forse riviste ingenue domani, ché esso sta lì di fronte nei suoi aspetti cangianti, e quello che si vede e si tocca è pur sempre di difficile discernimento. Occorre un animo verace, mai impegolato in interessi contingenti, ma votato alla ricerca di ciò che per definizione è riposto, e lo farà in paziente attesa di una lenta e mai vero terminata conquista. E di te, che oltre e dentro stai qui a un tempo, dietro queste apparenze, che dire? Tu sei la sola verità assoluta, cioè staccata, non legata ad interpretazioni relative al momento, più o meno sempre arbitrarie, e non schiava del dogmatismo che la tradizione interpretativa imporrebbe. E per essa più ancora è richiesto un animo verace, e se talvolta il votato alla scienza lo fa anche a spese della personalità sua, col rischio che i sentimenti suoi e gli affetti ne restino compromessi, qui più ancora, e rischio c'è che l'amore per la vita stessa si rattrappisca, sì è un eroe quest'uomo e talvolta martire è della fede sua, che però non s'applica alla speculazione, ti ricerca nell'analogia del comportamento, imitando il figlio tuo. In “imitatio Christi” c'è una eroicità estrema, spinta, come per lui fu, fino al sacrificio di sé per amore dell'unico vero, il dio. Ecco tu e il figlio passati siete di qui, ed è questo il solo specifico della fede nostra, che abbiate visitato la vostra umanità. Vi ci siete soffermati per un tempo breve, qualcuno vi ha notato, qualcuno ha capito e vi è corso dietro, ma voi tornati siete alla vostra realtà inaccessibile. Cercava forse lo specifico da voi comunicato, quello da far conoscere, l'aver voi testimoniato fino al sacrifico della croce che il dio vuole l'amore radicale fino al peggior nemico delle bagattelle nostre. Sì, voi siete passati, una traccia avete lasciato, un odore tenuissimo ormai, ma presente, e vi andiamo dietro e imploriamo: “trahe nos...
post te curremus...” e tu non rispondi, ma forse lo fanno i santi tuoi, Francesco, amoroso drudo tuo sicuro, che t'amò certo nella dolce Chiara! Ecco, è il tramonto, ombre lunghe si estendono frettolose a ricoprire ogni cosa e sarà presto la mia notte. E grave è l'onta d'aver speso la vita in piccinerie che misero m'hanno pur fatto per carenze morali e fisiche, infelice, schiacciato anche dal peso dell'incomprensione delle ragioni tue, tanto d'aver invidia dello stolto, esentato, per il quale hai tenerezza scontata! Io invece ho poco capito, poco radicata la pianticella mia nell'humus della fede, presto tutta disfiorata dal male a soffrire dell'incapacità di far frutto e gettar semi di nuovo, bello e buono nel futuro. Ecco è questo che m'ha fatto più patire il male, impedirmi l'oltre, andare con qualcosa di mio verso il futuro. Ché il tempo sta ripiegando, non s'estende più e più, ma dopo quella morte di croce si sta rattrappendo, e tutto s'affretta veloce alla conclusione, il ritorno vostro. Sta portando te all'umanità tua, assetata d'amore, sta concludendo, sta esaurendo della vita lo scopo. Sta chiudendosi a nido, un nido d'amore per te e gli amori tuoi. Ché vero mi balena questa speranza esistendo noi tutti, e io pure, per l'incontro dell'umanità tutta col figlio tuo, sì tutta, non solo i sopravvissuti di quell'epoca, ché quelli che a lui avranno creduto, vivranno! Ecco sono tra la fitta folla degli amori tuoi e sono ansioso d'amore, di toccarti e stringerti come m'hai anticipato in tanti sogni. E qui che faccio se non di nuovo e ancora sognare? Sì, sogno, faccio ancelle della verità, intuizioni, desideri, auspici dell'anima mia assetata di te. E' questo mio, un tentativo di balestrarmi, di proiettarmi oltre, certo di caderti tra le braccia avide di questo cuore, un modo di oppormi al male, a questo che so ottuso e a quello che si prepara per donarmi a te. Sono le mie tutte novità per questo cuore, sì, vi aggiungo sempre qualcosa di bello, di buono, di tuo. Allora non sono misoneista, non sono sclerotizzato, amo il nuovo che mi avvicina alla comprensione tua e questo cuore mai ne è pieno. E tu fai lieta questa giovinezza rinnovata! Sai, questa compagna non è mai sazia d'amore, ma lo vuole nella sola versione che io so offrirle, uno scenario forse povero, scialbo, ma per lei tutto. Significa così te, bella del cielo? Tanto, come lei innamorata, da accogliere di me tutto, le cose dette o fatte come siano nuovi giochi d'amore? E io della verità che sei percepisco così, essendo amato, stille di luce e ritengo che tutto ciò che ti prefiguri, partecipi di quella verità che tu sola sei. Allora ciò che cerco non è illusione, qui ci sono veri occhi frementi d'amore, ed essi ne significano altri, perché li raccontano pure, e così io li so, e convinto resto che anticipino proprio i tuoi, poiché essi dicono anche qualcos'altro, briciole d'un altro più grande amore, lasciate cadere sulla scala che a te porta! Non è proprio tutto buio qui, c'è già un nido con momenti di vero affascinante amore e ne trascolora di gioia questa mia povera vita. Non è il modo tuo di far dolcezza a questo vecchio cuore?