sabato 27 ottobre 2012

Una coppia di uccelli







Ecco forse una società di perfetti, è una comunità di formiche, che un nido abita dello stradello bianco che sale questo chinale. Tu puoi vederle esplorare ancora, andare ai semi caduti dopo la recente ventata, affaccendarsi, approfittando del novello sole, per procacciare ancora del cibo, incombenti le copiose piogge d’autunno. Io non so in che consista la felicità delle formiche, ma so stanno l’una per le altre tutte, e in ogni modo io stesso ho felicità dal tentare d’essere per ogni altro. E così so di appartenerti, felice un po’ nelle tregue! Sì, qui occorre credere in te e nel figlio tuo, nonostante il male. E si soffre e muore in questa umanità, è dramma rinnovato per il figlio tuo divino, ma per fortuna sono in molti a gridare le vostre ragioni,e devono tutti di più, farsi eroi e prestarvi la voce ancora della sofferenza loro, e il pianto, e mimarvi. E’ la più bella, questa ridetta ancora, delle favole raccontate? E ad essa che mi fermo, o piuttosto il significato, la morale ne cerco, sapendola nascosta in ogni favola? Sì, quella velata allora sotto bella veste e così tramandata, ma parlante oggi ancora a coloro che ascoltato hanno una vera storia di testimonianza tragica, ché tale è stata e lo è ancora, nuovi i protagonisti, in cui rivivete, e vi si sacrificano come voi allora, e lo faranno finché non morrà anche la superbia di questo tempo. Allora se storia tragica è questa che si rinnova, in cosa è la favola? Forse sta nel credere essa abbia struggente importanza e attualità di vita, il che richiede un po’ farsi bambini, ritornare candidi un po’ e ascoltarla con ingenuità e così aderire alle richieste sue, generosi e fiduciosi. Noi siamo destinati alla vita, essa dice, la vuole per noi e ne indica la strada, ecco forse sol favola è ma che favola, ha sconvolto il mondo! Tutti vi sono chiamati. Rimane però una nemica dell’uomo e del dio, la morte. Vivere è anelito supremo, ma ce ne ruba la gioia il sapere di morire. E’ la morte la vera nemica della felicità. Ma perché anche per il dio lo è, non ne ha egli permesso l’ingresso nella sua creazione, ché tutta libera vivesse, sposando però quella? Non può egli non sentir sua la tristezza nostra, l’angoscia, che raro ci lascia e questa verità diciamo ragione, perché, motivo del suo farsi uomo e rimanere in tal forma. Ecco, da allora saperlo è averne conforto, ma egli vuole liberarcene, il suo è un rioffrirsi per amore, ché il suo gesto rinnovi in ogni epoca l’efficacia sua. Chi divorerà la morte se non l’amore? E’ della morte il nemico e ne reca l’infallibile segno di superiorità, la croce, anche se oggi meschina la si vuol ridurre, ed essa vincerà. Ora è schiacciata dalla pesante esteriorità del mondo, blaterante le ragioni sue, humus al male e alla mala sua pianta, la morte. Ma l’amore v’ha messo un baco e averlo in sé la farà morire. Morire la stessa morte! E’ favola questa? Se non lo è nella sostanza, immaginifico restando il modo d’esprimere la verità sua, occorre svegliarci, alzarci, ché accosciati, inermi ci rende questa tristezza, che attosca , cancella ogni parvenza di felicità che ci baleni, e andare incontro al dio che torna. Eccoci viatori sulla vostra strada, c’è chi canta, c’è chi piange ancora, chi blatera le ragioni sue, ma non siamo più soli e nella selva da alcuna traccia segnata, dove pianto e grida eco alcuna avevano, camminiamo nel sole e ci siete voi con noi. E il male è sempre qui e infosca, assale la nostra piccolezza, ma nella meschinità il comune dolore affratella, ché se il destino pare ancora sospingerci tra le braccia della nera sorella, abbiamo una speranza, la vostra donata. E’ vero, ci preme miseria, affastelliamo le ragioni dell’egoismo, che ci illude di scampo, c’è incomprensione, diffidenza e un vociare spesso senza ragione. Ma avete detto, amate i vostri compagni, sostenetevi l’un l’altro, perdonatevi a vicenda e le parole amico, nemico diventeranno senza senso! E’ l’amore che tutto supera, ogni morte e la morte di croce sempre rinnovata. Qui or proprio stanno chiavando, con nuovi chiodi su novella croce, la vittima di odio novello, e tu rinnovi il pianto tuo disperato alla morte di quel figlio. Recita egli inconsapevole una parte, interpreta tuo figlio. Ecco madre, sto per ridire cose già dette. Non è forse un pericolo ripetersi, non si rischia di innamorarsi delle proprie parole e perfino del loro suono? E soprattutto di non fare quello che si afferma con enfasi? Ma è così dolce dirmi e ridirmi nella speranza, che è come mi dicessi nella felicità d’amore e forse vero l’ho! Ecco che dirò ora. Il figlio tuo, morendo ancora oggi di croce, rinnova il comando suo nuovo, quello dell’amore a tutti e più ai nemici. Così l’altro, chiunque, non è appunto più altro da noi, il diverso, ma noi siamo in esso, ma noi siamo lui. E non importa se così spesso non ci si migliora, anzi riguardo al non più guardato come nemico, se ne prende l’indegnità perfino, si acquisisce la minaccia o la conseguenza dell’azione sua colpevole, per immiserirsene, colpevolizzarsi, ma è anche occasione meravigliosa di riaffermare la ricchezza, la bellezza della bontà, che ci fa crescere dentro la presenza tua. Sì, quello è stato strumento di male e ne abbiamo sofferto e pianto anche, ma ora questo farci lui ci permette di appropriarci della colpa sua e vincerla, noi abbiamo un farmaco divino! Il nostro è l’agire stesso del figlio tuo, che, morendo, astante il pianto tuo, prese su sé la colpa degli aguzzini suoi e ogni altra. E ora lo rifà in chi subisce ed è capace di prendere su sé la responsabilità dell’accaduto. Il colpevole può aver ancora tutto il cuore suo occupato dall’odio, la vittima innocente lo ha sgombro, ampio, capace, ed egli, non permettendo vi nasca rancore e desiderio di rivalsa, fa molto di più in lui, spronandolo a prendersi la colpa, il frutto del male che alberga nell’altro, e così lo rende sterile di ulteriori danni,e se l’altro sa capire il gesto, lo avvia alla guarigione, spintovi da quella generosità che imbarazza e turba,e che, donatasi, domanda ora ricambio. Ecco cosa fa il farmaco dell’amore divino! E poiché tu stessa abiti quel cuore grande, fai tu, cooperando, che esso s’affranchi vincendo la colpa trasferita a sé,schiacciandola col peso dell’innocenza, abbagliandola di candore, di luce. Ma il cristo tuo ha preso su sé anche la morte, non solo la sua orrenda subendo, ma quella di ogni altro, in ogni epoca e solo egli può dire che chiunque gli crede vivrà! E credergli è fare di simile con l’amore, al nemico anche. Comportarsi così è da vero credente, ma è certo un non facile industriarsi per la coerenza e inoltre questa gli pone un ineludibile problema dove vive, qui. Qui chi falla incorre in una giustizia rozza, primitiva, perché punitiva. Così il già cittadino del tuo mondo non può essere buon cittadino di questo. Egli sempre vuole la legge del perdono anticipato, cui, ravveduto l’altro, segua l’amore palese per il già amato in segreto, perché crede la giustizia già soddisfatta dal prendere su sé la difalta dell’altro. Sì, così proprio il figlio tuo, intese soddisfare l’esigenza di giustizia del dio, lui stesso, tu stessa,il padre, prendendo su sé ogni colpa. Oh quant’è bello questo vostro amore di cui star alla sequela e non importa la fatica! Sì,non importa se confliggere si debba ad ogni ora con le norme di qui di coloro che scelgono di rimanere nella morte, da cui ci si affranca solo facendo la volontà del figlio tuo. Allora rimaniamo a voi vicini! Laddove ogni problema sparisse, anche questo conflittuale, saremmo già nel luogo del solo amore. Sono i problemi, le contraddizioni che fanno il vivere e soffrire, e nobile pur la più misera delle vite. E non è stato detto che se si disponesse di soluzioni per tutto, l’uomo e il suo dio stesso, problema l’uno all’altro e in più l’uomo a se stesso, più non sarebbero? Ecco qui pur dovranno tutti i contrasti sparire, appianarsi, e sarà davvero la fine, ma pure un principio. Ritorna la profezia del serpente: eritis sicut dei! E per chi ha creduto in voi da vivere l’assurdo, il paradosso di non essere per sé, ma soprattutto per l’altro,il farsi formica tra molti che non sanno neppure d’abitare un formicaio, ecco c’è una forma nuova, ché si rinasce sì uccelli, ma di paradiso. Allora madre vedrai un tandem di due venirti incontro, amore li sostiene e li porta leggeri, non sono già qui una coppia di uccelli? Vivono come su ramo, come pasturassero ancor i nidiacei loro, e il vecchio maschio canta languido, amore alle albe che da te manifesta, ancora li separano! Non vorrai tu che volino il tuo cielo?

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