sabato 27 giugno 2015

I due linguaggi degli evangeli


Ribadisco qui anche concetti già espressi, ma diverso l'approccio, e, non dimentico dei luttuosi fatti di oggi, includo, per speranza e convinzione, nella salvazione del cristo di cui ancora parlerò, tutti, le vittime dell'inumana ferocia e chi l'ha concepita e attuata. Ma molte lacrime dovranno esserci nell'immancabile perdono dei ravveduti,ché a tutti donata sarà la capacità di pentimento. E anche noi, gli scampati per ora, quelli che possono dire e anche con inutile enfasi discutere su questi accaduti da farne eco, le potremo rendere possibili e perfino anticipare se vero capaci d'accoramento sincero di fronte a fatti tanto amari e sconcertanti, cordoglio per le vittime e indelebile esempio di dolore partecipato, come essere dovrà per chi sarà reso capace di ravvedimento. Allora che dirò qui? Inizierò così, Spesso negli evangeli il linguaggio del cristo si fa duro, ché la possibilità di peccatori impenitenti è temuta, ché pure essi sono da lui amati. Che sia così non meravigli, ché l'amore non deve giustificarsi ed è esperienza umana che gli immeritevoli di dedizione possono averlo senza merito alcuno. Ma quando dalla croce infame griderà l'ingiustizia patita dagli uomini e l'apparente abbandono del padre suo, capirà di star soffrendo e morendo ché tutti si ravvedano, vivendo per sempre del suo amore, sì,muore per questo, ché tutti siano salvi. Assai diverso il linguaggio delle parabole. Così il padre sta sulla soglia speranzoso di imminente ritorno del figliuolo perduto. Questi si lascia irretire e sperpera il suo preteso anzitempo, ma l'estrema indigenza cui s'è condannato lo farà ravvedere. E non è così a ben vedere per tutti noi? Oh quanto abbiamo perduto per star dietro a falsi valori! Oh quanti luccichii ci hanno attratto e noi, prima che ci accorgessimo dell'inconsistenza loro, il meglio di noi vi abbiamo sprecato! Non abbiamo cosi sciupato un sogno, deluso chi da noi ben altro attendeva e così anche perduto un amore? Ma il padre, il dio da cui ci siamo allontanati, ci ha ripresi con sé, una nuova possibilità offerta e senza rimbrotti o accenni di punizione, ché per lui, che ha sofferto l'allontanamento, anche noi abbiamo abbastanza sofferto, sì, è ora daccapo tempo d'amore scambiato. Ma non sono questi i soli errori, mi si dirà, c'è per esempio la volontà di altrui nuocere e attuare criminosamente l'altrui rovina e tanto altro e c'è anche chi terrore semina e non amore, è anche d'oggi. Sì, rispondo, ma il cristo ha gridato dall'infamia subita, e il suo copre e anticipa ogni altro lamento, un grido che pur si ripete ad ogni gemito, tanti i suoi da allora da assordare il mondo. Ché grida, cosa pretende? Che il male che continua a subire per quelli che ora piangono, finisca! Egli non è affatto esentato, non sta in un luogo a parte, quello del solo amore, è con noi, è in noi, vive la nostra miseria, la nostra rabbia, il nostro piangere e gridare l'apparente abbandono di tutti e del dio, nella disgrazia, nella fame, nella malattia, nella fuga dalla persecuzione, anche dalla violenza di chi legge distorto un testo sacro. Sì, la vicenda sua rivive in ogni emarginato, scacciato, disgraziato, fuggiasco. Ma, mi chiedo, la pur giusta punizione del qui impenitente fin in fondo, infinita come la pena dell'oppresso, che continuerebbe a gemere nel ricordo del reprobo ebbro per sempre del suo misfatto, perché non deve esserci dopo il cristo? Mi rispondo, L'ha già presa su di sé proprio lui e se il sacrificio suo rinnovato fosse impotente nel sanare, avrebbe vinto il male. E diremmo, Nasciamo, viviamo, moriamo inutilmente, come inutile il venire e morire del cristo! Un male quindi che durerebbe quanto il bene agognato, e parlo di quello che fa eterno la sola speranza della fede! Assurda coesistenza anche per chi crede ostinatamente. In verità sarebbe destino di solitudine per il male invitto, il bene ridotto a sogno dei sofferenti di qui, svanente come le illusioni tutte fanno, cessati i battiti del cuore sognante. E ancora l'inferno minacciato del poi sarebbe incompleto, quasi farsa di quello orribile di qui, gli mancherebbe l'ingiustizia che qui tocca vivere, ché il male suo colpisce gli innocenti perfino o soprattutto. No, sta solo qui il male e non mi stancherò di ripeterlo, il cristo ha spezzato per sempre questo dualismo col bene, che c'è solo finché qui la vita. Sì, dopo il cristo c'è il male qui ancora, che spegnere vuole perfino barlumi di bene e lo fa spesso efficace, ma sta morendo, nonostante il palese rigoglio suo. Sì, si chiude, e per sempre, la dolorosa parentesi sua. Perché? Quel qualcuno, un orientale forse logorroico e iperbolico nel linguaggio suo fabuloso d'un mondo vagheggiato di solo amore, che ci attenderebbe appena dopo le tante brutture di qui, è stato così audace pazzo da mettergli dentro un baco, quello dell'amor suo per tutti e tutto, ed esso lo divorerà! Perciò io, che sono tra gli sprovveduti di qui, pur so che tutto scorre nella speranza, dal dolore, che tutto e tutti prende, alla gioia della riconciliazione immancabile. Sì, il cristo ci ha salvati tutti!

mercoledì 24 giugno 2015

Chi attende questo cielo?


L'uomo d'oggi, pur sapendo che l'azione sua morale segue i dettami di ciò che dentro ha, semi che vi hanno gettato persone buone già nella primissima infanzia e che in terreno recettivo hanno attecchito e fatto rigoglio, sembra quasi sempre insofferente all'idea di un giudizio, postumo delle risposte ai fatti della vita sua, di una autorità soprannaturale. Non solo, ma l'idea stessa del peccato pesa e ingolfa il suo fare, ne vuole essere libero. Invece il credente chiede di continuo al cristo di sobbarcarsi i suoi falli dal momento che ne ha pungolo di dolore. È chiaro che antitetici sono i due atteggiamenti. L'uomo del primo crede di poter far da sé, perché è possibile e doveroso sbarazzarsi delle conseguenze dell'errore, anche se quasi mai solo personali, che se persistenti lo condurrebbero ad agire con impaccio e per vie forse tortuose. L'altro, che aiuto domanda e crede d'ottenerlo, chiede d'essere liberato per sempre da ciò che grava sul suo cuore. Insiste, lo pretende quasi, ché certo è dell'azione salvifica del cristo, dal momento, ed è la fede sua, ci sono sempre conseguenze soprannaturali in ogni atto di chi lo guarda e cerca di guidarlo. Egli ne domanda l'interessamento amorevole attento anche futuro con una promessa, mai più ricadrà in quell'errore di cui chiede e ottiene il perdono dal dolore che fa il suo pentimento. Chiaramente è apparentemente più forte il primo, che a sé sembra bastare al momento. Ma momenti bui ci saranno e di debolezza, quando tutto, quasi ossessivamente, verrà riesaminato e molto si ritroverà discordante dalla legge morale del suo sé, che pur c'è. Allora sarà il dolore, duro il giudizio suo sui fatti rivissuti con le ingiustificabili manchevolezze, le insensibilità ai fatti che gli altri angustiano, tutti nello stesso gregge di belanti per tanti bisogni, di cui ha voluto essere pastore disattento, porgendo orecchio senza vero ascolto, mai però trascurando se stesso. Io sto nello stesso gregge, ma lo so vero assistito, sì, non basto a me, sono un belante, ma qualcuno è vigile e presta ascolto. Ecco vado qui, là, m'allontano, ma so che qualcuno mi guarda scusando l'avventatezza mia, che la confidenza eccessiva sembra suggerire anche a chi pecora giovane più non è. E so che se rimbrotto o più ancora meriterò da parte del buon pastore che sorveglia i miei passi, sarà per la mia vita di qui ché ben scorra, e non verranno ricordati se perdono sincero delle mie intemperanze gli avrò chiesto. Allora nessuna punizione futura, ma accoglienza da quelli della vita che viene, che, oltre tutto questo problematico vissuto, m'aspetta. Ma le minacce del cristo quando camminava tra noi a chi erano? Son forse oggi rinnovate e rivolte ai presuntuosi, ai bastevoli a se stessi di qui? Sono state e solo allora del cristo che temeva di perdere chi pur amava. Quando? Prima che la testa avesse coronata di spine e comprendesse la soprannaturalità del suo sacrificio di croce. Quella atrocità non apre ad altre nel mondo futuro, il cristo avrà gridato abbastanza, attraverso quelli che qui gridano la loro pena. Chi qui non ha creduto, crederà postumo e la vita sua, con suo significato unico e irripetibile, sarà salva perché preziosa per il dio, che pur vedrà, non più a lungo cisposi i suoi occhi. Ma a me è cara un'immagine, che desidero illustrare. Sì, sono io che scarico oggi sulle spalle del cristo ciò che mi ingombra l'anima, e lo faccio da sprovveduto e bisognoso d'aiuto qual mi giudico, ma lo sto facendo anche su chi lo interpreterà palese dopo il suo pentimento e ravvedimento postumi nel mondo della vita novella. È questo peccatore, quale sia o quello particolare di cui ho detto, che qui, su questa scena, indossa la maschera dell'ipocrita egoista, che si sobbarca anche il mio fardello. Non lo vuole ma pur lo porta, è uno che soffre e risorge nella storia sua, ché recita ora inconsapevole, poi cosciente il cristo! Perché è possibile tutto questo? Egli non sa, ma ha già qui il cristo dentro, che via non va, non fugge da lui e non muore più, nemmeno del suo peccato! Vedi questo cielo, dico alla donna mia, quante vivide brillanze ha stanotte? Attendono tutti queste stelle!

lunedì 22 giugno 2015

Cordialità



Credo che i rapporti interumani siano nell'uomo buono volti al bene reciproco, ché se è per chi egli avvicina, è senz'altro anche suo, se seguace del cristo egli sente di essere, che indirizza e guida. Perché? Il bene è appagante per chi lo concretizza, ma che gli fa ostacolo? Ecco cosa e come. Egli avverte in sé come una necessità quasi istintiva che va appagata, quella di dover stare per l’altro uomo, e questi, predisposto al nuovo e capace di apprezzarlo, dovrebbe avvertire, già nelle premesse di ciò che sostanzia un incontro, la cordialità offerta. Dirò a breve perché si tratta di cordialità, più di quel che detta la convivenza civile. Solo infatti se apprezzata l’offerta, vinte le diffidenze che fanno barriera, il destinatario la percepirà come disponibilità a capire e a porre rimedio a ciò che a lui fa disagio e che ha svelato forse timidamente nella fiducia subentrata, aprendo il suo cuore. Già l’aprirsi è guadagnare un po’ di bene anche senza concretezze immediate da parte dell’altro e per questi è consapevolezza appagante di star agendo secondo i dettami della parte migliore del suo sé, quella che lo vuole nella sequela del cristo. Quando però l’approccio si interrompe, deluso l’interlocutore nelle attese sue, quello dell’iniziativa finirà per attribuirsene la piena responsabilità e avvertirà il peso del fallimento. Non sarà stato secondo le attese del cristo dentro di sé e di quello che nel bisogno dell’altro ha atteso invano. Cristo di dentro dell’impulso ad agire, cristo deluso nell'altro, inappagate le sue richieste. Cioè avvertirà di aver peccato. Di essersi così alienato dalla vita sperata con la persona del mancato amore, nel mondo veniente. È rischio di ogni incontro pur nella cautela che abbia espresso l’amore, pungolo ad agire perché esso stesso diventi chiaro palese, amore che il cristo dice essere a tutti dovuto, perché a lui dovuto, presente in tutti. C’è però il rimedio. Riesaminare l’accaduto e pentirsi degli errori, che pur devono esserci stati, vista la risposta deludente all'agire pur cortese, anzi cordiale, cioè inteso a rinfrancare, riparare, mitigare un danno intuito… E quali? Forse avventatezza, impazienza, gesti e parole fraintesi… Il pentimento prelude al perdono che il cristo assicura sempre come dono al pentito. È ritorno alla cordialità, che ora è verso il sé contrito, che riconosce come e quanto ha sbagliato, e che proprio ora si è manifestata nel pentimento fruttuoso, ché la benevolenza del cristo gli ha riassicurato, ma che presto avrà nuove occasioni per riaffermare l’amore nella azione da lui comandata. Penso che la fede rinnovata nel cristo sia tutta qui, ritorno alla cordialità attiva, di nuovo sperata efficace, dopo il perdono, quello per sé e per gli altri, almeno responsabili di incomprensione e rifiuto. E come s’avverte d’essere stati da lui perdonati? Rinasce la quasi istintiva volontà d’agire perché il bene s’affermi, ché parla, grida la parola del cristo nel cuore buono rinfrancato! Sì, il regno viene a gran passi, occorre fargli luogo in se stessi e soprattutto negli altri tutti, saranno compagni nel mondo sopravveniente! Sì, il regno viene nonostante il male, anche quello che fuori viene tentando il bene nella cordialità dovuta, comandata, ché s’esprima l’amore!

martedì 16 giugno 2015

Ma quale è il vero dio?




Parte prima


E il dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza. È affermazione accolta per fede. Ma il credente può sperimentare nella sua vita religiosa che ciascuno finisce con l’avere un’immagine del dio assai simile al proprio sé, anzi al vissuto di questo suo sé. Cioè saprà che credere significa anche accettare che qui il tempo della vita possa rovesciare la affermazione biblica, perché è la creatura a concepire il suo dio. Qui dirò quello che la vita m’ha suggerito e la storia del cristo, che tenta di parlare a tutti e si ripete in molti. Ecco, c’è un’immagine banale del dio, è onnipotente fa e disfà della vita del suo devoto per ragioni sue, oscure. È una concezione molto diffusa e vi si aderisce almeno fin quando non si è presi, invischiati dalle cento e più insidie di questa vita. Ma anche nella disgrazia quest’immagine può tenacemente resistere e allora si chiede, si implora, ma nulla muta, si resta disgraziati! Allora vacilla la fede, è lume fioco che spegnersi vuole, e si resterà al buio senza farsene ragione, o forse, rimanendo una briciola di fede, pensando a una colpa o di non aver ossequiato abbastanza colui che può, almeno come molti fanno nei mattini domenicali, in cui sì, vi può essere vero incontro col divino, ma più spesso formalismo vuoto e sterile preghiera. Ma perché allora non pensare piuttosto quest’uomo, toccato dal male, come uno che conserva la fede, o meglio ha la vera fede, proprio perché mantiene, nonostante il vissuto, la speranza del bene che pur c’è ad attenderlo, qui o nella vita futura, sebbene sconfitto, soffocato al momento? Ha questi molto sofferto, la sua vita può essere stata un tormento per sé e quelli che l’hanno condivisa, tutta o in parte. Ma nel suo cuore finisce con lo scoprire un dio, che è sofferente almeno quanto lui, e che è uno incapace come lui di venir fuori da ciò che da ogni parte stringe e limita, sì, dal male, sì proprio come al cristo accadde e perciò riaccade. Non ha questo dio affatto conservato l’onnipotenza sua, ma per rimanergli accanto nella disgrazia o nella sfortuna che perdura, ha fatto di sé uno che accetta di condividere la sofferenza per amore, sì, soffre allo stesso modo o più ancora, sentendosi incapace di giovare all'amato.


Parte seconda





Ma potrà accadere che chi ospita il dio, nei suoi momenti meno bui si guardi attorno e scopra, ecco il miracolo, che non solo lui è nel cuore divino, quel cuore che egli sente dentro al suo, ma che questo suo cuore con la sua pena, ma anche con la preziosità che reca, sta anche in quelli di quanti sinceramente l’amano, proprio nella disgrazia, proprio nella malattia. Per il dio, che così guadagna altri cuori, non è tanto spartire la sua pena, ma di più. È come se dal dolore di quanti amano lo sfortunato, venga fuori la natura sua vera, non appena si abbia coscienza d’averlo nei propri cuori. Sì, ecco di nuovo il miracolo, è lui proprio col suo amore sofferente, avvilito, quasi o fin troppo umano, sì, è proprio il cristo, ma capace di significare e garantire che la vera ragione di tanta sofferenza condivisa sia appunto il bene futuro, da attendere nella pazienza da parte di tutti, e subito l’amore palese. Questo prima forse era sopito o confinato in una latebra del cuore partecipe di tanto dolore, ma ora non è più nascosto, ma finalmente capace di esprimersi anche con rabbia contro la mala sorte, perfino di ribellarsi contro un dio dimentico, quello dei benpensanti, esonerati al momento dal male. Colui che ama scorge sempre nel cuore dell’amato valori e positività e così fa il dio, anzi di più, novello cristo viene e abita quel cuore tormentato e quelli che sono intorno ne vedono barlumi in momenti rari, quasi d’estasi, ché loro stessi con l’amor loro gli danno rifugio e conforto. Sono i loro, sentori di un dio che s’è fatto veramente tanto prossimo da identificarsi col sofferente, è la storia del cristo che si ripete, e che pur abita nei cuori di coloro che il dolore condividono, perché solo gli sciocchi vedono in chi è in angustie solo negatività, disperazione, abbandono da parte del dio falso in cui sperano. Possano essere tanto fortunati da non essere toccati dal male, così da pensar nella vita tutta il loro come l’unico dio di tutti! L’altro, il vero ha bisogno del dolore per venir fuori! Ecco, tenera e quasi invitante è l’erbetta che la donna mia coltiva nell'orticello suo, ma è destinata a un buon uso di cucina e solo pestata manderà gradevole l’odore suo…

giovedì 11 giugno 2015

L’infelicità del dio



Ecco due che dicono d’amarsi. Io e questa piccola donna. Ma che fa la nostra felicità? Io sono felice nella misura in cui la mia donna lo è, non di più. L’esserlo meno sarebbe ingratitudine, irriconoscenza per quanto questo piccolo amore mi crea intorno, un’atmosfera di pace. Ma c’è più ancora, è ciò che la presenza dell’altra nella mia vita sostiene, così il peso della banalità delle cose comuni che invischiano e trattengono in basso, il peso dell’indifferenza di chi incontro con cui cerco un rapporto, il peso dei piccoli fastidi che mi vengono continuamente risparmiati dello stare e dover decidere e fare. Sì, il rapporto a due crea un’atmosfera tranquilla in cui, e sono attimi privilegiati, si resta incantati dalla bellezza, perché bella è la persona che si ha accanto, e quella delle sue parole e dei suoi gesti la completa e compendia. Sì, vedo così questa donna, è bella e vuole me solo. Ma più ancora questa donna significa per me. Possibilità che il velo, che limita la mia vista e l’appanna, si laceri e io veda oltre, fino all’intuizione della bellezza del dio. Ecco che se ho fede tiepida e scialba io posso farla crescere nel calore che ella mi dà, fino alla sicurezza di essere amato da questa donna perché lui mi manifesti l’amor suo. E allora mi chiedo, è felice questo mio amante divino? Dal momento che è il dio di tutti devo rispondermi che è infelice, quanto o più di chi egli ama e siamo noi tutti. Noi, gli amati da altri di qui, lo siamo nella misura della felicità d’amore che assicuriamo a chi ci ama, sì, si dà amore per amore, una risposta a una offerta. Così gli occhi che ho davanti e che da molto mi osservano innamorati ora ridono di gioia, rispondono così al mio amore. Io l’ho voluta questa risposta, io ne ho creato le premesse, io ora ne godo, sentendomi felice. Ho donato, ho avuto. E il dio non fa di simile e meglio e più ancora? Eppure non gli rispondiamo come dovremmo, molti, troppi di noi, sono infelici, perciò lui è così. E molti lo sono pur godendo di numerosi temporanei esoneri in un mondo in cui spadroneggia il male. E così io posso essere un uomo indifferente alla bellezza che mi circonda, preso in altre cure. Sì, un infelice anche solo per noia, che, ingiusto, rende infelice il dio che lo ama attraverso tutto ciò che è buono e bello, il dio che fa solo della felicità dell’altro, ingrato, la propria. La mia è allora insensibilità a una preziosità offerta, l’amore divino. Ma il male può avermi preso e allora la gioia con la consapevolezza dell’irrimediabile s’è spenta. Io dialogo e lotto con l’apparente indifferenza del mio dio e la mia vita non ha più scopo se nulla più mi parla di lui, belle non son più le cose, belle appena prima e a primavera ho indifferenza per quanto di bello mi corre incontro. Ma anche allora in questa situazione di estremo disagio, se quel qualcuno che cento e più volte ha detto d’amarmi, m’è rimasto accanto io posso vivere assicurandole se non più la felicità, la serenità almeno e ne avrò contraccambio e ancora sarà d’amore. Vivo perché questi occhi che ora più teneri mi guardano, non si velino di tristezza eccessiva. E così farà il dio che nella sua impotenza nulla ha potuto di più per noi, tratterrà le lacrime sue!

martedì 9 giugno 2015

Un unico sogno



Se amica avessi la madre delle stelle certo le chiederei, per te, che da anni cerco solo negli occhi della mia piccola donna, e lo farei con parole dette o taciute, restate nel cuore, un miracolo. Sì, t’ho cercata, piccola stella smarrita, negli occhi suoi e nei suoi gesti. Occhi grandi in questo buio, che rideranno domani alla luce novella, occhi che sempre dicono più delle parole pronunciate e quanto siano sincere e, se taciute, quanto giustificate. Occhi per me! E poi gesti di partecipazione, mai di indifferenza, nella gioia e nel dolore, oppure solo cenni, sussurri, o silenzi. Gesti per me! Ma trovata non t’ho, ragazza amata nei miei anni lontani, se non sentori, barlumi di te che mi bastano, solo quando rara pace ho in questo cuore tormentato. Io non posso guarirti, io non posso guarire dal ricordo di te. E allora quale miracolo chiedo? Che io ti possa rivedere in sogno. Un sogno non solo mio ma anche tuo, ecco l’intervento divino, un sogno simultaneo in due cuori. Niente, nemmeno il dio ridare potrà l’uno all’altra, solo il sogno. In cui continuare potremo il nostro discorso d‘amore interrotto. E quale realtà sarà più vera allora? Sarà il miracolo con cui il dio rimedia alla perdita di onnipotenza, entrato per amore nel tempo, un miracolo per cui esseri, che si sono cercati e, trovati, si sono perduti, sì cuori smarriti nella nebbia di questa vita, si ritrovino, fuori del tempo, seppure nella vaghezza, seppure nel solo sogno. Vincerà comunque l’amore! Proprio questo mio povero amore, di per sé del tutto impotente perché solo umano, per la mia piccola donna, unica fortuna mia, amore per te, piccola fragile stella!

giovedì 4 giugno 2015

Lettera nuova alla compagna



Se le parole sante della preghiera sapessi, certo per te al grande medico, ché per me ti prevenga il male o ti guarisca se esso t’avesse già preso, le direi vero efficaci. Ma non ho da dirgli che non solo scusi la mia ignoranza, ma anche d’esser cosciente di non meritare, dalla mia pochezza spirituale, che nemmeno una sillaba la madre sua mi suggerisca. Ma così mi accorgo che è proprio l’avere questo fondato rammarico, come ammettere che c’è procedura, a me ignota, nel chiedere per ottenere, nella necessità pressante, da chi può. È come aderire alla religione delle parole speciali, dei riti e degli officianti, che sempre vogliono interporre la propria insipienza tra noi, che chiediamo nella disgrazia o nella necessità, e il dio. Ma se davvero così, avrebbe vinto il male, e ammettere dovrei di aver cercato inutilmente il dio, in me e negli altri lontani o assai prossimi come anche tu sei, nei malati e nei sani, nei savi e nei pazzi, nei virtuosi e nei reprobi e di non averlo trovato. Sì, se non nella speranza che arrendersi non vuole e proietta il mio incontro agognato al di là di ogni apparenza, verità o falsità, di cui è pregna, da distrarre dal vero compito che è cercare il dio, l’esistenza. Sì è così, essa me lo farà trovare nella morte, che, proprio perché incontro con lui, è anche tempo nuovo e luogo delle persone care ritrovate. Gonfio intanto ho cuore e mente della presenza tua sentita precaria e allo stesso tempo irrinunciabile, ma anche vi affollano, ad aumentarne l’ambivalenza nel volere che tu rimanga e l’arrendersi all’ineluttabile, vividi ricordi di te da sempre presente nei miei sogni di innamorato. Un tesoro che temo scemi e tento di trattenere, tanto insicura la vita, nascosto il dio! Allora arreso, sfiduciato o per aver un po’ di sollievo lascio che dagli occhi velati lacrima scenda piano sulle mie guance. E tu accorri e t’allarmi. Ma io ti rassicuro, è sì un po’che io tema per il nostro destino, ma anche nostalgia del passato, così dei tuoi vent’anni e dell’ingenuità tua, conservata fino a quei primissimi tempi d’amore! Sto forse sfacciatamente mentendo, dal momento che i miei dubbi sul vivere qui senza risposte, con te non condivido in tutta la durezza loro per non farti angoscia? Forse no, se parla il cuore e non la mente degli inganni. Ma tu chissà perché ora temi che, nostalgico, anche ad altra io pensi, smarrita e me ne accori. Allora dal cuore che ti dico? Che tu sei così particolare in quel che dici e pensi e nella fisicità tua, che stella già sei, non come, ma più ancora dei mille splendori di queste notti d’incanto, tanto che se altra lontana mi ricordi vaga, ella è sì ormai come stella, se cara mi fu, ma che più distinguer non posso dalle tante altre simili, brillanze senza significato per il cuore, ma solo per questi occhi assetati di bellezza, come invece con te non accade, tra le altre belle distinta. Ma ora mi torna la paura di perderti e non di sapere che fare, nemmeno pregare, e di nuovo e più ancora ne ho sconforto, ma rimane dentro… Ma nascondo il volto, ché tu così triste non lo veda.