venerdì 27 aprile 2012

Primavera nel cuore

Tempo è questo delle passeggiate, ché il tepore ha al fine prevalso. Allora via l’ombrellino riducibile a far da scorta per le improvvise bizze del tempo. Ecco, sebbene di recente abbia scoperto posti nuovi, percorsi forse più ameni, preferisco i luoghi consueti. Or proprio si son vestiti del nuovo di primavera, e or qualcosa sempre un po’ mi distrae più che in altre epoche, se or qui or lì lo sguardo lascio corra, ma più rassicuranti sono, lunga la mia frequentazione, e se vengo per la preghiera, qui posso, e per pensare anche, e lo stesso per studiare, ché sempre m’attrae saper il nuovo, e poi ansia non v’è, venir essa potrebbe solo in posti senza memoria. Qui volti nuovi incontrar posso solo in giorni di festa. Chiedono del percorso e del tempo per la loro meta e sono gentili e sorridenti. E’ il contagio del luogo che umanizza, serenità permette, sciogliendo i groppi, e rimanda al poi i problemi del quotidiano, almeno questo a me accade... E quando qui c’è gente nuova, si perde in solitudine, si guadagna sicuro in gaudio, così è per me lo stare un po’ tra gli altri e dire cortese alle domande, ché l’aria proprio aver devo di chi sa ben del luogo...Nei giorni comuni è tutto tranquillo, sto quasi sempre solo e note tante e diverse mi vengono dai cantori del bosco, e dei bombi il ronzio burbero odo, e dal folto talora uno squittio o cos’altro e dir non saprei da chi o da cosa. Sono le cento voci di qui. Tutto mi fa incanto e della primavera la veste nuova fa come malia e mi ritrovo tutto assorto a osservar piccole cose, ché già bruchi vi sono a cercar posto idoneo per far crisalide, e formiche vanno e vengono ai nidi loro, cercatrici di novelli semi, e lumachine che profittano della rugiada per le ultime escursioni tra i fili d’erba... E starei così ore, ché la vita ridestata, qual si lascia veder da occhi avidi, è bellezza e mistero. E mi chiede la compagna mia, perché si conserva la vita delle specie, dove va? Oh quanto vorrei saperle rispondere! Ecco qui proverò a farlo, ricordando l’accaduto di una di queste mattinate. Sarà metafora botanica e ne affiderò al cuor suo la comprensione, ché credo un destino comune per tutto quel che c’è sotto questo sole a far primavera, tutto va, s’affretta al dio!
Ben ha detto un saggio, c’è un punto omega e tutto corre a esso! Allora dirò proprio di un oggi in tempo di primavera. Ecco, proprio come vero sua malia la fata, che del luogo è custode, m’abbia fatto, sdoppiato mi ritrovo a osservarmi. Son qui sullo stradello bianco che sale e un po’ cerco ombra, ché il corpo pesante s’è fatto da avacciarmi il cuore e vuol qui sostare un po’, e mi dico, da qui hai buona vista per goder dei fiori della radura, e quelli di calarti nella latebra del cuore ti suggeriranno a breve, a pensar delle tue donne la grazia, ed io, tornato alla realtà, scriverò i tuoi ricordi, o mio sognatore, e ne dirò alla compagna dolce... Così, sarà per la suggestione del luogo o cos’altro, mi rivedo bambino a un carnevale festoso. E’ qui che vedo per la prima volta la maschera veneziana tutta nera per una gran cappa, bel viso posticcio bianco, parrucca con codino e cappello d’epoca dalla foggia strana. Completo, negli incubi miei, subito quella figura attribuendole occhi verdi fosforescenti di luce fatua, e diventa per me, bambino, l’immagine della morte. Quella che troppo presto m’ha visitato, rapendo il mio bel fratellino ricciuto, di cui ho dovuto scavalcare l’età. E poi da allora l’ho vista, oh quante volte! Atra tutta, bianco il viso da falsa bella donna e occhi verdi a prendersi gli affetti miei. E quante, simili alle mie, storie di lutto in questo nostro stare al mondo! Ma mi dicono che forza c’è da opporre a tanto strazio, è la fiducia in te, madre dei dolori, e nel figlio tuo, che quella nera femmina anche a te ha strappato dal cuore. Io penso questa fiducia tuo dono, e trattenersela nel cuore aiuta certo e, chissà, forse vero a voi conduce. Ma il male, tremenda eredità della miseria nostra è sempre qui! Alle lacrime nostre, le tue aggiungi, ché ecco, qualcuno ha novella croce ripiantato e vi si tormenta uno, è nero, è bianco, è il figlio tuo, e daccapo “doloris gladius pertransit cor tuum”! E ci dicono, i vostri dolori completano quelli del signore e della madre sua! E conforta che il più grande dei tuoi santi affermato l’abbia per sé e per tutti, ma mi chiedo, come più stupido fatto dal ricordo della sofferenza, quand’è che la misura sarà colma del dolore che trabocca dai cuori di noi uomini? Siamo ben stanchi di piangere in questo viaggio a te, tanto v’è dolore, ed è un bel dire che tutto è in travaglio di superamento, tutto è come lievito in fermento e che la morte è un’ansia che l’alba novella ucciderà con la luce sua! Quando, come, chi vedrà quest’alba? Seppure tutto è forse diverso nello spirito, tutto resta uguale nelle conseguenze, e se è trapasso di ombre di mondo decrepito, se è tramonto che sta per fiorire in novella aurora, com’è che questo crepuscolo mai ha fine e le tue stelle non v’appaiono come nostra meta, a dar conforto? Sì, tutto è forse diverso, ma tutto resta uguale per il misero, e io lo sono, sprovveduto da sempre, e dell’erba qual sono, fanno qui strame, e poi c’è per tutti da sempre diffusa l’ingiustizia e fame e guerra, e ricchi prepotenti a prevaricare, e che più? E io e quelli come me, soffrono che così proprio debba essere! E nel dolore tanto diffuso per tutti occhieggia la morte, verdi gli occhi, bianca, bella e orrenda la maschera sua e nera la cappa da lavoro, instancabile! E lacrime tante si versano e il sole divino non le fa perle, come fa con la rugiada questo sole di primavera, con quella che l’ombra dei cespugli ha fin’ora conservato e che tutta si dissolverà, gocciole effimere, alla carezza sul prato dei raggi suoi. E qui proprio la preghiera mia, al limitare del mio tempo, alle soglie del bosco, colloquio con te vorrebbe essere, sì qui lontano da frastuono delle ore che là dabbasso mi corrono veloci. Qui è diverso, rallenta il tempo, tutto invita all’assopimento, al sogno. E’ questa la tua risposta per me? Che la veda in sogno? Non so, ma permetto che immagini mi scorrano nella mente come quelle d’autoipnosi nell’addormentamento, ché proprio saper voglio che dirmi vuoi. Così, trasportato sono oltre le bassure, non solo le fisiche, ma quelle anche del rumoreggiare degli egoismi che nella frenesia loro di vivere opprimono gli altri miseri, per correre al nulla, come pur fanno le onde, che rabbiose ancora, s’accavallano per frangere dabbasso alle falesie...Sì, rapito da questo incanto là dove sosto, più capisco Francesco, che chiamava sorella la morte e pia nell’ufficio suo, quella che qui pure verrà anche per i fiori, precari sempre, giovani o appena nati o quelli che il capolino loro reclinano maturi, ma forse solo per trapiantarli nei tuoi giardini, lì tra le stelle. Ed è bella e dolce questa speranza e io or ti vedo qui al fine venuta a carezzare tutte le cose di primavera, per talune portarne con te. E tutto, allo sguardo tuo, attorno trascolora in verde, si fa verde d’erba novella mo mo nata, che infiorarsi tutta vuole. E or son fiore anch’io tra questi fiori novelli e viene la brezza dal mare e tutti ondeggia, e accorrono i bombi operosi e a suggere alle antere, bianche farfalle, che or qui or lì indugiano. Su me pure giovane bello rinato in questa nuova forma, ché s’è fatto corolla il mio viso e i miei capelli sono del giallo delle perle di prato e in stelo gli arti congiunti si sono. Sono rinato forse umile margherita, o qual’altro fiore di campo, perla al fine del tuo bel prato! E ora non so più se è quello di qui trasformato o quello d’arrivo, là tra le stelle! Presto verrai leggiadra a controllare questi nuovi arrivi e a ridere per noi, e noi ti risponderemo con afflati di profumo da inebriarti e trattenerti, e forse tra noi il tuo bel corpo etereo stenderai e beati quelli che ne sosteranno la leggiadria! Sì, or ora venuta sei vicino a me, “vestimentum tuum candidum quasi nix et facies tua sicut sol”, e sono il piccolo tuo fiore, aliti sulla mia corolla, ché per il gelo della notte un po’ rattrappiti ne ho i petali, e le labbra tue a dolce sorriso s’atteggiano... E ora lo so, è vero, qui dove sogno così di te, tutto vuole, come io ho or ora pensato di me, mutarsi, e la materia tutta s’agita e vuole tu la sublimi alle tue stelle, ché tutto si vesta di luce. Tutto ciò che fa primavera cerca la luce! E io, novello fiore nato dalla mia fantasia, mi ritrovo nei campi tuoi asfodeli e, tu giardiniera di questo campo sei... Tutto intorno mi guardo e ti chiedo, bella signora, in questo campo non avrai scordato di trapiantare il fiorellino femmina della mia vita? C’è, c’è, ammicca il tuo sorriso malioso, è tra quello che qui fa primavera! Ma la campana del santuario già avverte dell’ora dai tanti rintocchi, e mi ridesta, sì qui i sogni finiscono a mezzogiorno, via è volato il tempo e io devo pur andare, m’aspetta il bel fiorellino che piantato m’hai nel cuore. Ora lo so per certo andrà dove io andrò e proprio tutto ci accompagnerà! Sì, è questo che le dirò! Leggera è la metafora, ride qui il tuo sorriso, è primavera, non l’ha ella nel cuore?

martedì 24 aprile 2012

Dimmi il tuo nome

Ecco, i nostri nomi, quelli che dato abbiamo alle cose del nostro mondo, vanno sull’onda del tempo che corre, e ombre del nulla vogliono farsi, ché labile s’è fatta la mente, sì, vuole impigrirsi! E talvolta volti noti o cari richiamiamo alla memoria, ma muti si sono fatti, ché ci stanno nitidi davanti quegli occhi, ma senza nome... e le loro parole, echi fiochi di lontananze ormai insondabili si son fatte. Sì, labile s’è fatto il ricordo di molte cose, di molti fatti, di molti personaggi della vita nostra, e se per taluni è bene, ché tristi sono stati, per altri è perdita amara da disfarne il cuore, se esso consapevolezza avesse di quale dolcezza stia perdendo. Ma al tuo nome pronunciato, tutto si riordinerebbe, tutto il bene, tutto l’amore balzerebbe festoso daccapo dalle ombre del passato. Sì, daccapo proprio come già è stato, ma fresco ritornato! Miracolo? Diciamo intanto, nome il tuo di vittoria sull’oblio. Ma diremmo corto, c’è di più, ché i volti cari di chi ci ha amato, occhi per noi ancora avrebbero, dolce parlanti le antiche tenerezze, e i loro cuori non spenti, palpiterebbero nel ritmo di un amore vivificato, ribenedetto, comandato ancora, riconsacrato dalla volontà tua. Sì, tanto potrebbe il tuo nome, che certo amore significa, ché è solo d’amore che parla il tuo cuore qual siano le sue parole, quelle che il tuo bel nome certo compendia e traduce per la comprensione di tutte le cose, che d’esso vivono, anche senza saperlo. E così noi ne viviamo, noi umani, inconsapevoli quasi tutti!
Sì, sapendolo, pronuncerei quel nome piano e in umiltà, timoroso, come talora faccio con questa mia donna, che nome dolce ha, quasi temendo che malia me la strappi dal cuore e io più non la trovi accanto, consapevole che è per me vita, ragione per restare, motivo per riattendere fiducioso aurora novella, dopo giorno come sera, buio. E tu di più sei, tutto! E al tuo nome s’inchinano le cose tutte e ridono quelle di bella primavera, ora il tempo loro, e il mondo, anzi l’universo tutto ti palpita, innamorato di te sola, amore. E l’anima mia che rattrappirsi vuole ormai, disperando comprensione e amore, vedendoti risponderle lampeggiando amore dentro al cuore, tutt’una con te sentendosi, si slargherebbe a comprendere, per amarle, le cose tutte che sono. Sì, desiderosa del bene che pur recano, del degno per piccolo che sia, del buono che celano gelose, ma che più non velerebbero. Sì, cose tutte allora fiduciose che si lascerebbero leggere da cuore sincero, di tutto e tutti divenuto innamorato, come il tuo è! Tu sei quella che ami tutti, senza eccezioni, tutto! E non c’è tua definizione più bella! E se altro sei oltre l’amore, non so, ma ha importanza in un mondo che ne è tanto assetato? E pronunciare quel nome santo sarebbe per l’anima come se d’improvviso le ali sue, piccole e rattrappite divenute nel tempo, fatte come d’aquila, potessero spaziare nei cieli. Questi tuoi cieli non terminati quali sono, ché s’accresce di continuo l’immane immensità dello spazio delle tue stelle dall’amore tuo sollecitate e chiamate coi nomi da te sola saputi, ed essa pure avrebbe il dono di capirli e ripeterli! Oh capire le stelle, capire l’amore, chiamarle, chiamarlo, sì, quest’amore santo che muover le fa, ben dice il poeta, perché il cuore ne trabocchi! Ma il tuo nome qual’è? E’ certo l’ineffabile che compendia la bontà e la bellezza tutta. Sì, quelle che sono in quanto qui possono essere appena e quelle che qui essere non possono, il male soffocandole, ma che nel tuo cuore sono e ne traboccano. Ché tu sei “inter omnia speciosa”, sì, tu sei la “tota pulchra”! E il nome tuo dolcissimo, certo traduce la fiamma d’amore per tutto e tutti che t’arroventa il cuore! Lascia allora che queste labbra assetate d’amore, assetate di te, aride d’attesa diventate, lo balbettino, lo sussurrino al vento, lo ripetano all’orecchio avido di questa piccola donna che saprebbe gustarlo in tenerezza d’amore. Sì, lascia lo dicano ai fiori belli di questo chinale, che s’è rivestito di primavera per te, quelli che ora carezza la brezza e culla a illuderli di te e che io, innamorato, con le mani sfioro, e alle cose tutte, che piano tocco, per non offenderne il sogno di te, a sentirne i palpiti. Sì, lascia che di palpito in palpito queste cose, tutte belle divenute, lo diffondano, ché pace ne dia, riempiendoli, a umili cuori, come loro, come me, poveri d’amore, scemi di te. Ma qual’è? Saprebbe comprenderlo, la mente mia, il cuore mio umano? Ma tu fa come madre, che al fantolino ripete il nome con cui vuole la chiami. Sì, quale sia il tuo nome, mi sarà dolce apprenderlo come al bambino suona melliflua la parola che la bella dal dolce sorriso, che già ama, ripete, per sentirselo ridire, sì, il fonema più dolce, mamma!
Ma ha poi importanza saperlo quel nome arcano, se è già tanto bello al cuore chiamarti mamma? E io qui , mamma, mamma ti chiamo! E sembrano, or ora a tanto dolce suono, fiori appena in boccia aprirsi e profumo novello a profumo aggiungere da restarne inebriati. E come al piccolo suo accorre, intenerita, trepida madre a sorridergli ancora non appena ne senti il balbettio, così al mio, torna della madre mia cara il sorriso, quello dolcissimo agli occhi miei, bambino, e so che è così che al cuore mio ridere vuoi la tua risposta d’amore! E di più bello che avere si può?

Anima che è?

Ecco, tu mi chiedi, che è questo mondo? E io ti dico, ipocrisia, apparenza vacua, falsità, superficialità, egoismo, cattiveria da accrescerne il male diffuso, sono tutti suoi sinonimi e l’anima vi vive attoscata come da tutt’ombra avvolta, e questa spessa è, pute e tutto invischia, ma anche esso luogo è di incontri per anime gemelle, e le nostre così sono! E tu, ma l’anima che è? Ecco io vero non so e aiuto chiedo alla sola sua luce, ma non risponde... sebbene tu, piccola sua icona, continui a illudermene col tuo sorriso e gli occhi, e oltre il deserto...Io non conosco che il mio intimo e solo un po’, e del tuo solo quello che permetti vi legga, quando, occhi sognanti, resti tra le mie braccia un po’, e tu, volta ai nostri ricordi, mi chiedi, ti ricordi di...? E io, perché non se ne spezzi l’incanto, t’assecondo con piccola bugia, e confabulo... e tu alle mie aggiunte fantasiose, chissà, forse credi! Ma in fondo solo spero che si concretizzi per noi quello che ti dico già accaduto, quando? Nei giorni che qui ci restano e che veloci ci vengono incontro per poi correr via! E allora è della mia anima che ti dirò. E mi chiedo, è solo il luogo dei sogni da magnificare a questo piccolo amore, ché li condivida? Sì, ma ho dell’altro e non so che. E’ come avere ancora speranza quando tutto non l’ha, calore un po’ sempre, perfino nella perdita dell’amore o nel gelo che segue al suo abbandono, sì amore che spegnersi non vuole pur nel rifiuto e nello scherno, amore pur senza contraccambio, quello che non ha più soggetto che ne condivida i sogni, bontà residua perfino nella vigliaccheria della prevaricazione subita e che dice no alla rivalsa, bellezza che non cancellano volgarità e bruttura diffuse, desiderio di vita nella malattia, nell’estrema anche, desiderio della madre celeste perfino nel suo silenzio, sì desiderio che postula un luogo oltre i fangai del mondo in cui luce fanno solo le sue stelle, in cui vero vivere il nostro povero amore... Ecco ho dentro un che e fa sì che luogo io postuli dove le tue domande e le mie da lei risposta avranno. Sì, è proprio quel qualcosa dentro che me ne dà certezza, mentre solo povera fiducia mi darebbe l’averlo potuto sognare, cioè possederne la capacità, che qualcuno donato deve avermi. E voglio spingermi per chiarirmi questo qualcosa, fino al momento estremo, quando esso pur mi farà gridare alla vita e cercare gli occhi tuoi ché me ne illudano ancora, mentre il tutto intorno per me vorrà spegnersi. Ecco è un qualcosa che al buio incipiente di quel momento, oppone una piccola luce che spegnersi non vuole, che ancora sognare le faccia l’azzurrità d’un cielo terso, in cui possa ancora veleggiare il desiderio di vita insieme a te. E sono ora sorrisi, occhi di donna, capelli bruni, sono quelli della madre mia, della piccola dirimpettaia di un’estate, sono i tuoi! Sì, tutti di donne innamorate! E io ti rivedo candido vestita, sposa agognata, venirmi incontro, o forse è l’altra donna dei sogni miei, quella che voglio ci attenda là dove vivono le sue stelle, non so, non ho più tempo per deciderlo, ché si sta chiudendo questo spiraglio di luce, e sono già solo guizzi, balenii, stille... e tutto corre al nulla, ma io ho ancora qualcosa dentro, ecco, mi fa dire, vedo le sue stelle! Estrema illusione? E che più ti dirò ancora? C’è, anche nel cuore tuo, un luogo in cui sempre qualcuno canta o fa dolce musica e non sai che dice e non sai che suona, parole, sillabe, suoni di melodia, singole note, chissà chi, che, come, perché, non sai! Questa è la tua anima! Simile è la mia! E’ questo il mio dono per te, il mio tutto, forse solo il mio niente. Altro non ho. Spero ti piaccia, spero piaccia alla madre tua e mia, l’altra donna dei miei sogni! Io non ho di me definizione migliore che dirvi che son uno dall’infaticabile nostalgia di voi due!
Ecco se è umile il vero, io son ben umile, se è semplice la sincerità, ecco sono semplice, se è favilla l’amore ne ho da bruciarmi il cuore, se è freschezza verde la speranza, eccomi tenero giunco che seconda il torrido vento dal deserto che ho tutt’intorno, che attende da te, da lei, lacrime di pioggia aulente... Ecco io ho dentro la speranza che mi veda salire agli eterni campi asfodeli. Ecco, là una incontro mi viene, è bianco vestita, ha lunghi capelli neri, occhi che parlano, dicono amore, sorriso che vi aggiunge magnificandolo, è piccola, tutta bella! Chi è? Appena le sono vicino tutta s’invermiglia di casto pudore e mi dice soave soave in una lingua nuova, che comprendo perfettamente, di scusarsi del lungo silenzio mantenuto per la mia salute nella libertà, e mi suonano melliflue le sue parole e, quando tace, parlano ancora gli occhi suoi e chiedono di dirle qualcosa e dico, attenta alla mia richiesta tutta si fa. Sì, io sono nella gioia e oso chiederle che tu mi raggiunga, ché tu sola sei la dolce compagna e ti magnifico gemma di primavera e le dico che bianca rosa sei, hai la freschezza e la gentilezza e l’odore dei gigli di campo ed ella ride alle mie parole e io, oh meraviglia, in te proprio la vedo mutare! E tra le braccia la stringo, ti stringo, e le, ti balbetto amore! Ecco, io mi dico, con una piccola donna ho traversato la mia vita, ho camminato su rottami di passato amaro, che ella non ha permesso tornasse, e ne è stata piccola gioia e luce, ma ho solo camminato in tondo per incontrarla daccapo e già l’avevo! Oh madre mia dei cieli, o compagna, o sposa, o mio tutto, gioia delle mie aurore, allora è così, già t’ho?
Tu nulla dici, ma dalla gioia la verità. E dire che io sospiro col santo tuo, "gaudium de veritate"! E io già li ho! Mi vengono da quella piccola che sei, che mi vivi accanto, i tuoi capelli bianchi vogliono farsi e bruni e lunghi erano, il tempo nuove rughe aggiungerà al tuo bel viso, ma io so chi in te si nasconde! E’ vero da gioia, è gioia dal vero! Ma forse sto solo sognando, vivo una delle favole che mi racconto nell’addormentamento. Ché la madre cara mi diceva, bambino, se dormir vuoi, raccontati una favolina!
Sì, questo sono, uno che si racconta favole e le ripete alle donne sue, innamorate! Sì, ora dormo forse e vivo il dolce sogno che vi muta l’una nell’altra... Due donne, un unico sogno di vita, un solo amore! E se vero sogno è, ti prego non svegliarmi!

domenica 22 aprile 2012

Dimmi il tuo nome



Ecco, i nostri nomi, quelli che conveniamo per indicare cose e concetti, e i particolari peculiari, solo nostri, che dato abbiamo alle cose del nostro mondo, vanno sull’onda del tempo che corre, e ombre del nulla vogliono farsi, ché labile s’è fatta la mente, sì, vuole impigrirsi! E talvolta volti noti o cari richiamiamo alla memoria, ma muti si sono fatti, ché ci stanno nitidi davanti quegli occhi, ma senza nome... e le loro parole, echi fiochi di lontananze ormai insondabili si son fatte. Sì, labile s’è fatto il ricordo di molte cose, di molti fatti, di molti personaggi della vita nostra, e se per taluni è bene, ché tristi sono stati, per altri è perdita amara da disfarne il cuore, se esso consapevolezza avesse di quale dolcezza stia perdendo. Ma al tuo nome pronunciato, tutto si riordinerebbe, tutto il bene, tutto l’amore balzerebbe festoso daccapo dalle ombre del passato. Sì, daccapo proprio come già è stato, ma fresco ritornato! Miracolo? Dico intanto nome, il tuo, di vittoria sull’oblio. Ma direi corto, c’è di più, ché i volti cari di chi ci ha amato, occhi per noi ancora avrebbero, dolce parlanti le antiche tenerezze, e i loro cuori non spenti, palpiterebbero nel ritmo di un amore vivificato, ribenedetto, comandato ancora, riconsacrato dalla volontà tua. Sì, tanto potrebbe il tuo nome, che certo amore significa, ché è solo d’amore che parla il tuo cuore qual siano le sue parole, quelle che il tuo bel nome certo compendia e traduce per la comprensione di tutte le cose, che d’esso vivono, anche senza saperlo. E così noi ne viviamo, noi umani, inconsapevoli quasi tutti!
Sì, sapendolo, pronuncerei quel nome piano e in umiltà, timoroso, come talora faccio con questa mia donna, che nome dolce ha, quasi temendo che malia me la strappi dal cuore e io più non la ritrovi accanto, consapevole che è per me vita, ragione per restare, motivo per riattendere fiducioso aurora novella, dopo giorno come sera, buio. E tu di più sei, tutto! E al tuo nome s’inchinano le cose tutte e ridono quelle di bella primavera, ora il tempo loro, e il mondo, anzi l’universo tutto ti palpita, innamorato di te sola, amore. E l’anima mia che rattrappirsi vuole ormai, disperando comprensione e amore, vedendoti risponderle lampeggiando amore dentro al cuore, tutt’una con te sentendosi, si slargherebbe a comprendere, per amarle, le cose tutte che sono. Sì, desiderosa del bene che pur recano, del degno per piccolo che sia, del buono che celano gelose, ma che più non velerebbero. Sì, cose tutte allora fiduciose che si lascerebbero leggere da cuore sincero, di tutto e tutti divenuto innamorato, come il tuo è! Tu sei quella che ami tutti, senza eccezioni, tutto! E non c’è tua definizione più bella! E se altro sei oltre l’amore, non so, ma ha importanza in un mondo che ne è tanto assetato? E pronunciare quel nome santo sarebbe per l’anima come se d’improvviso le ali sue, piccole e rattrappite divenute nel tempo, fatte come d’aquila, potessero spaziare nei cieli. Questi tuoi cieli non terminati quali sono, ché s’accresce di continuo l’immane immensità dello spazio delle tue stelle dall’amore tuo sollecitate e chiamate coi nomi da te sola saputi, ed essa pure avrebbe il dono di capirli e ripeterli! Oh capire le stelle, capire l’amore, chiamarle, chiamarlo, sì, quest’amore santo che muover le fa, ben dice il poeta, perché il cuore ne trabocchi! Ma il tuo nome qual’è? E’ certo l’ineffabile che compendia la bontà e la bellezza tutta. Sì, quelle che sono, in quanto qui possono essere appena, e quelle che qui essere non possono, il male soffocandole, ma che nel tuo cuore sono e ne traboccano. Ché tu sei “inter omnia speciosa”, sì, tu sei la “tota pulchra”! E il nome tuo dolcissimo, certo traduce la fiamma d’amore per tutto e tutti che t’arroventa il cuore! Lascia allora che queste labbra assetate d’amore, assetate di te, aride d’attesa diventate, lo balbettino, lo sussurrino al vento, lo ripetano all’orecchio avido di questa piccola donna che saprebbe gustarlo in tenerezza d’amore. Sì, lascia lo dicano ai fiori belli di questo chinale, che s’è rivestito di primavera per te, quelli che ora carezza la brezza e culla a illuderli di te e che io, innamorato, con le mani sfioro, e alle cose tutte, che piano tocco, per non offenderne il sogno di te, a sentirne i palpiti. Sì, lascia che di palpito in palpito queste cose, tutte belle divenute, lo diffondano, ché pace dia, riempiendoli, a umili cuori, come loro, come me, poveri d’amore, scemi di te. Ma qual’è? Saprebbe comprenderlo, la mente mia, il cuore mio umano? Ma tu fa come madre, che al fantolino ripete il nome con cui vuole la chiami. Sì, quale sia il tuo nome, mi sarà dolce apprenderlo come al bambino suona melliflua la parola che la bella dal dolce sorriso, che già ama, ripete, per sentirselo ridire, sì, il fonema più dolce, mamma!
Ma ha poi importanza saperlo quel nome arcano, se è già tanto bello al cuore chiamarti mamma? E io qui , mamma, mamma ti chiamo! E sembrano, or ora a tanto dolce suono, fiori appena in boccia aprirsi e profumo novello a profumo aggiungere da restarne inebriati. E come al piccolo suo accorre, intenerita, trepida madre a sorridergli ancora, non appena ne senta il balbettio, così al mio, torna della madre mia cara il sorriso, quello dolcissimo agli occhi miei, bambino, e so che è così che al cuore mio ridere vuoi la tua risposta d’amore! E di più bello che avere si può?

venerdì 20 aprile 2012

Tu, primavera

Tutte le cose di questo chinale ti invocano primavera,ché altro di te non sanno se non che ti seguono fiori ed erbe novelle. Ma tu passata già sei e io vista non t’ho, distratto dai tanti pensieri che m’affollano la mente e che nulla aggiungono a quello che io so di te, ma li accetti forse preghiera spontanea, da cuor innamorato uscita. E già ne sono seguiti asfodeli e ginestre odorose, e le mille creature del bosco venute son fuori dal lungo sonno invernale speso a sognar quest’incanto. E c’è ora melodia di cento e cento cantori innamorati che erra di macchia in macchia a far delizia di questo peregrino d’amore, che soave soave vorrebbe di simile sapersi esprimere all’orecchio avido delle due belle sue.
E se tu or proprio udir facessi, dalla mitezza del cuore tuo uscito, d’amore richiamo io l’udirei e forse l’altra amata mia lontana. Sarebbe, da cuore a cuore, un echeggiare fino alle nuvole, invito alle tue stelle, e tacerebbero, udendolo, rapiti questi cantori, che cento e cento note spargono per l’aere aulente alle femmine loro insazie. E ora è tutto un ondeggiare d’erbe e un fremere di cespugli alle carezze della brezza dal mare. E or ora danzano bianche farfalle e compagna cercano per gli approcci loro, e tu le vedi inseguirsi un po’ e poi apparentemente desistere, per tornar poi a carezzare l’altra con l’ali loro, e dei fiori invitanti trascurano così le provvide visite. Ma non i bombi brontoloni che agli asfodeli di preferenza vanno ad esplorarne ogni fiore, che corolla disteso abbia. Ma è anche il tempo di nere vespe a nugoli attratte dalle infiorescenze d’olearia. Le vedi accoppiarsi in volo e poi tante cadute dopo l’amore, maschi credo, e certo esseri complementari nel folto si cercano, ché è tempo d’amore questo.
E quando il sole, declinando, ombre lunghe, addormentandosi a occaso, stenderà sul prato, questo accoglierà pure innamorati umani, che le stelle aspetteranno per le effusioni loro. E dopo il brunire del crepuscolo, che l’ultimo rosseggiare della luce avrà addormentato, ecco le stelle. Miriadi.
Meglio visibili da qui, verso orto, il lato delle falesie che scendono a mare, non schermate da questo lato, tutto buio, ché non offeso è dalle luci della cittadina, che ai piedi s’estende del promontorio, ma dall’altra parte. E questo cielo è ora come un immenso spartito d’una melodia di mille e mille note, ma leggervi occhio umano non sa, né ode il canto di lode a te delle festose tue stelle. E sono forse occhi d’angeli queste e forse una invisibile fata per cenni indugia sull’una o l’altra nota, e quella sollecitata, col brillio suo risponde, e quelle più lontane fioche appena fan bordone con le lor note di basso continuo, velato, accennato appena. Che sia melodia non di suoni, ma di luce? E certo l’anima s’imparadisa a tanto incanto e vero crede di star laddove luce e suoni confonder potrà. E allora inutili diventano le parole! E’ posto cui portare la compagna dolce, e aspettando delle stelle il concerto misterioso, al pari di altri giovani innamorati, ché giovane è questo nostro amore, le direi delle erbe e dei fiori e degli alberi rivestiti di verde novello per noi soli! Sì, le direi molte cose, ma anche che tutto qui s’abbella per noi e s’incolora di gialli e di bianchi e che tenera e tiepida è quest’aria odorosa... E ora in questo mio sogno, vero vedo noi due qui star abbracciati ad aspettar le stelle! E così supini sull’erba molle,  addormentarci, apparenti dimentichi dell’amor fisico pur tanto atteso, che forse sogneremo, ma qualcuno forse ci vedrà sorrider dello stesso sogno e ci rapirà alle stelle, pietoso ché al risveglio questa realtà, pur ora fascinosa, non deluda tanta gioia promessa! E  sapremo che così ci è accaduto, perché la loro arcana melodia udiremo e vedremo allo stesso tempo, cullati tra le braccia tue in un sogno che fine aver non vorrà. E al mattino ci cercheranno e penseranno forse che dalle falesie il volo alle stelle avremmo spiccato, poveri fiori così recisi, che il tempo aveva troppo stropicciato! No, non saprebbero che evaporati siamo alle stelle, ché fiori sì dai petali stropicciati eravamo, ma rinati così, belli come fiori di cisto dal bocciolo appena usciti, che teneri petali spiegazzati al sole distendono. No, finiti non saremmo nella tenebra, può questa mutarsi in luce? E tu luce sei! Sì, prendici stanotte, insieme staremo sognando amore, come fossimo sul prato, dove io ci ho visti sognare or ora in un mio sogno a occhi aperti! Sì, evaporaci alle stelle!

mercoledì 18 aprile 2012

Mammona

E’ più facile che un cammello passi per la cruna d’ago...Ma poi che è questa cruna dell’impossibilità? Una porta stretta, difficile da varcare per un cammello con la sua soma, o il breve pertugio a misura d’anima nuda, che il tuo santo Antonio dice menare al regno dei cieli? Comunque non varca quella soglia il ricco, o meglio quel che ne resterà, quando la morte di tutto lo avrà privato e lo consegnerà, scialba figura d’uomo, mai al servizio della carità, per la scacciata dalla patria forse pur anelata, ma che forse s’illudeva potesse venirgli al pari delle altre cose, raggiunte facili in questa vita. Non definitivo, credo, l’allontanamento, ma lungo quanto il mondo lontanerà dopo quella morte, che eredità d’affetto certo non lascerà. Egli fatto non s’è veri amici per mezzo del Mammona, pur col lui generoso, ché, anchilosato, mai ha reso il suo disponibile alla carità, rischiandolo! E v’è un bel dire dai saccenti di cose vostre, che il figlio tuo non ha inteso stroncare la ricchezza alle radici sue tenaci e putride a un tempo, nell’animo dell’uomo decaduto, che, dopo la mitica disubbidienza, piombato è nella schiavitù reale del peccato, adducendo che la varietà della vita, che vede ricchi e poveri coesistere, è stata da lui voluta. E’ un errore grossolano, ché il dio non ha fatto così il mondo, ha solo permesso, forse per indurne la libertà, che così degradasse, fino al male completo! E noi chiamiamo peccato la propensione dell’uomo da sempre a questo male diffuso, quello che c’è ovunque e quello aumentato, amplificato dalla sua presenza. Sì, il figlio tuo permise il male, il regno di Mammona, questo regno, questo mondo, questa vita. Ecco qui noi, i più poveri, quelli vero diseredati di ogni fortuna terrena e quelli, tra cui sono, morsi appena, ma dolorosamente morsi, che se non mancano di un tetto, di veste, di pane, al fine pur si vergognano del poco, che pur hanno, e fino alla sofferenza e allo strazio di chi sa d’esser pur fortunato tra troppi bisognosi e tanto squallore, eppure egli, del poco che pur serra, non sa privarsene, troppa la paura della privazione di tutto, e diciamo tuoi eroi i pochi, che, come Francesco, l’hanno osato! Ed è bene per l’anima scoprirsi misera così, è l’inizio della guarigione, come affetta da una malattia cronica, al pari di quella dei lurchi, che tutto per sé soli rinserrano, nella cupidigia loro mai sazia. Sì, noi lo capiamo che abbondanza e fame più non possono coesistere insieme, ma nemmeno l’appena bastevole ha più diritto d’essere, se non diviene mezzo, piccolo che sia, della carità. Ecco, c’è un dio concreto a questo mondo, s’attorce nell’usura e nello sfruttamento, si gonfia nell’egoismo, s’ammanta di splendori, luccichii vanesi, e intanto succhia le gocce del sangue di quelli che ha irretiti, soggiogati, sedotti, e ne illude di riscatto la vita pur gabbata, mentre più e più misera la fa, se non la materiale, che talora benefica, a caro prezzo però, la spirituale, ché ne serra le pupille affinché non guardino il cielo, perduto, da sospirare. Ecco le icone tue, immerse in una mondanità vacua, attardarsi tra ridicoli vecchi danarosi che pruderie sol hanno e motteggiano la loro insipienza della carità alle lor mense crapulose, nelle spiritosaggini delle loro feste esclusive, che spassosissime quelle devono pur fingere, ché i vantaggi promessi, non tardino. Ripugnante vigliaccheria di concedersi non per amore, ma per far la voglia del ricco, per il piacere suo, da vecchio impotente, illuso di fermare la morte, stando tra bei giovani e tra le effimere cianfrusaglie delle sue dimore, che parlano, suonano, luccicano attraenti, ma che il ladro insidierà e il tarlo del tempo corroderà comunque e che nemmeno lui, il fortunato delle grazie di questo dio esoso, avvantaggeranno alla morte, che comunque sempre troppo presto sarà per il gaudente! Ma lo fanno nella disperazione. Sono quelle, che piacenti sanno d’essere, ma hanno avuto la sfortuna d’essere in basso nate, e non se ne rassegnano.
So di giudicare severamente, ma ogni donna reca di te e, se questo fa, ne abbrutisce così il riflesso. Sì, donna dovrebbe gelosa serrare la legge d’amore che le hai messo dentro, ché frutto ne dia, frutto d’amore, quando il corteggio del vero amore, pur povero, le busserà al cuore, e sarà, pur nell’indigenza, un accompagnarla generoso di tenerezze e soavità, che sentire la farà primavera, pur seguita da soli fiori di campo, i più belli se vederli si sa! Ecco io così sempre ho sognato la donna, e così è te che ho sognato... E oggi, che tra le braccia ho sicuro di te, ne trasalisco di speranza arcana, sì, che questa piccola donna sia tramite a te. Oh quanto sarebbe altrimenti stato trascurato, deriso, negletto l’amor mio, se tu non lo avessi raccolto e non me ne avessi dato concretezza tra le braccia di vera donna, questa che per me solo, dice e ridice d’essere! E tu da sempre bussato hai al mio cuore, ché lo aprissi non a leziose, che nulla sanno d’amore, quello dal cuore, se non il misero appagante le smanie loro, ma a donna vera, che dona l’amor suo solo a chi in lei crede. E senza te perduto sarei! Io non sono stato forse un forte, cresciuto nella mediocrità, me ne sono al fine contentato, pur avendo inizialmente lottato per liberarmene, ho pensato al mio poco, dimentico dei richiami della carità troppo spesso! Ecco è proprio vero, senza amore, il tuo, per questa donna, sarei perduto! Allora oso dire: “per te, virgo, sim defensus in die judicii”! Sì, lo grido e griderò ogni notte, e, ché non svegli chi accanto mi dorme, afono nel cuore insonne, almeno! E io mi dico, è passato il signore, ormai non torna per tutta questa mia breve vita! E’ deserto s’è fatto questo mio mondo, brancola la mia esistenza attediata e più lo farebbe, se sola e ancora pellegrina d’amore fosse, sì, questo mio, invero già posseduto, ma sognato da sempre che appagato potesse essere anche da altra donna, ma da quella ancora deriso, rifiutato, oltraggiato. Ed era il tuo stesso amore, che non chiedeva ricambio di concretezze, ma possibilità d’esserci, come proprio questa mia donna anche fa e mi dice, e io ripetuto a quella l’avrei, non temere, hai me! Ma brucia fin la morte quest’amore vero per questa piccola donna venuto da te, questa non fuggita, ma rimasta nonostante, esso fa luce in tanta oscurità e rumore di ilari stupidi. Esso risana ogni ferita e io condotto ne sono fino al per-dono, all’amore più ancora che ai detrattori è dovuto, ed esso non chiede ormai che approdare, così magnificato, alle tue stelle, che pur ci sono di là da questo cielo greve! Esso solo, “qui mihi dicit esse”, è garanzia che tu vero mia sei, e difenderai questo piccolo tuo sogno che io tuo sia, ché tu già lotti per non perdermi e per questo guida di donna m’hai dato, ché senza, sarei come smarrito in questa via tanto buia, sotto cielo tanto avaro di stelle sempre! Oh quanto lo dirò e lo ridirò così questo regno di Mammona! Fin a stancartene? Allora, cuor mio, mio altro e vero tu, bussa, bussa, insistente a questo forse sclerotico diventato cuore a par dei vecchi organi tutti, forse il metaforico anche di smemorata viltà, e fa ch’io sia, almeno in quest’ultima parte di vita, per la carità senza riserve, senza remore, ma generoso, pronto, opportuno! E mi guidi, tenendomi per mano, quest’amore!

lunedì 16 aprile 2012

La speranza

Com’era bello il tempo nostro primo, piccole cose, piccoli fatti, grandi sogni! Il vero tempo della contentezza!
E non ci pareva di urtare l’impossibile con le piccole pretese, né di conciliare l’inconciliabile con i piccoli compromessi, tutto era nuovo, bello e prezioso, e non sapevamo che avremmo avuto solo per allora occhi capaci di veder così questa realtà... E sfuggente era il nostro mondo incantato, ché tutto era effimero e come bolle iridescenti saponose anche la gioia nella spensieratezza di quei giochi, grida dietro a una palla, occhi in su verso un aquilone e lì il cuore... Sì, fuggiva quel tempo anche di prime pungenti amarezze da celare nella latebra del cuore per rimandarne la comprensione a epoche lontane, e siamo rimasti affamati e assetati di felicità! E ora punge la nostalgia di ritorni. E dove e come? Ecco, l’epoca adulta ci ha imprigionati, eppoi presto la lunga sera, che ci ha anchilosati. Malati siamo e più di sogni finiti in una fanghiglia gelida, che ne tarpa le ali. Ecco finiti siamo nel tempo dei dominatori superbi della natura, sempre ribelle però, e dei divoratori dello spazio, insondabile rimasto, e alla civiltà meccanica s’è sostituita l’elettronica, eppure fame e morte sono quelli, e più forse, di sempre. E dipende la vita dai fattori aleatori del mercato globalizzato. Ecco, non ha leggi prevedibili e adoperabili a mitigarne gli eccessi, somiglia a vento capriccioso, segue il si dice e il si teme, e va dove sentore ha di non sudati guadagni. Abbiamo fatto naufragio, arenati in bassure grigie e nella melma buia del prosaico e siamo miseri più di ieri, foglie al vento iroso, freddo in un inverno dello spirito che fine non vuole avere. E come uccelli nascondiamo la testa sotto l’ala per non vedere a cosa ci ha condotto la fiducia mal riposta in superficiali, fatui giocolieri della politica, quelli del frasario presuntuoso, buon curatori sol degli interessi propri. Ma c’è in questa vita tanto mutevole, precaria e misera, in cui l’esistenza va da sempre effimera per incerta via, qualcosa che duri più dei luccichii delle illusioni, della fragilità degli equilibrismi, che non sia il rifugiarsi nel sapere, che freddo s’è fatto nell’orgoglio suo sterile, degni i suoi libri più e più dei cento chiodi del noto film, o nei sogni tutti caduchi o tra le parole degli sciorinati valori spirituali, cui nemmeno quelli che ossessivi, dogmatici le dicono, sembrano più credere, almeno non nella coerenza del comportamento? Ecco, tra tutto ciò che si logora, è la sola speranza che può rimanerci, essa offre vero rifugio e asilo a cuore deluso, immeschinito, e mente stanca. E in che? Non certo in chi! Ecco, la speranza è che tutto ciò che fa la nostra pena del vivere qui, abbia un senso. Che ci sia un perché ultimo, che giustifichi, il dolore, la paura, la morte. Qui l’avidità e la sicumera del potere opprimono e siamo sempre più assillati dai bisogni che appena ieri parevano sopiti, soddisfatti un po’, e siamo di nuovo tormentati da quelli più semplici e vitali e daccapo è lotta per il poco e l’insufficiente. Sì, dacci il nostro pane quotidiano, è preghiera di pregnante attualità! Avremmo bisogno d’aria pura, lontana dai miasmi, dai contagi che corrompono vita e anima. Nulla può lenirci l’angoscia, usciamo all’aperto, verso i campi assolati della prima giovinezza! Ma dove ne sono rimasti? Il nostro par proprio un pellegrinaggio tra grovigli di smarrimenti, incertezze e le paure di sempre che ci divori la fame, la malattia e l’abbandono. E tutto quanto si dice è opinabile, è un mondo di affermazioni tutte dubbiose, che non reggono alla critica e alle smentite. Ed è scura la via, scuro s’è fatto il mareggiare del tempo. Ma se conserviamo la speranza d’una stella, ecco forse scorgere la potremo e ci indicherà una via, una rotta a un porto. Ecco, madre divina, tu sei la mia speranza! M’hai solo illuso di gioiosa dolcezza d’amore? Ma da dove venuta sei? Morta è la lettera e mute le dipinte, e distratte le icone tue viventi. Eppure una invitato m’ha. Mi ha invitato a sgranchirmi, camminare, salire. E come e dove e verso quale vetta? Verso il suo cuore, vicino, lontano, inafferrabile! Ecco gli occhi suoi sono i tuoi, la stella! Possibile che tutto si risolva in un tu? Nella fortuna di trovarlo? Resta il carattere arcano dell’universo, restano freddo e incertezza, i problemi non sono risolti, ma la speranza s’è fatta consistente! Abbiamo nostalgia d’una realtà di bene e rinasce irrefrenabile, sì, abbiamo daccapo, come bambini, la vocazione alla gioia! Ma dove, quanto lontana? Quanto la profondità di questi occhi che mi guardano ancora incantati. Ed è bello questo viso, pur con qualche ruga, pur coronato da capelli che bianchi vogliono essere e che lunghi, come quelli fascinosi da ragazza, più non vuole portare. Sì, quella ragazza cui non sapevo come parlare, m’attraeva e mi respingeva con la sua giovinezza acerba e ignara, forse dalla mia non vero troppo lontana, ma che  sentivo d’aver perduto dietro a lucciole deludenti, vecchio diventato improvviso per l’amarezza d’aver corso dietro a vaghe farfalle e luccichii. Ecco è lei sola che mi da’ certezza che tu sei per me, ché palpita il suo cuore dei palpiti tuoi e le sue parole or dolci poi amare, compresi gli immancabili rimbrotti, sono da te che vengono! Ed è fresco e luminoso questo mattino che mi sveglia con lei assopita ancora e rannicchiata tutta, lo è nell’anima mia e tutta l’indora, e posso innalzarti lo sguardo, o dio sconosciuto! Sì, grazie di questo tu, della sua fortuna! Ora so, tu sei la verità e la vita e non ho altra via che questi occhi di povera umanità, di fragile dubbiosa donna, quelli che mi interrogano e mi rispondono a un tempo, e non sanno di esser di tanto capaci! E se dietro le vado so che è te che seguo e posso ben dirti “trahe nos virgo immaculata post te curremus in odorem unguentorum tuorum”!

sabato 14 aprile 2012

Banalità e tristezza

Com’è triste la vita qui e noiosa anche
e come è banale l’atmosfera in cui tocca allo spirito il respiro. Tu, madre, veder puoi molti di questi uomini, che nulla vero sanno, armati delle opinioni d’altri e di luoghi comuni, che fanno i loro pregiudizi, difender goffi ad ogni costo la mediocrità loro, con atteggiamento intransigente d’attaccabrighe, ché il pressappochismo dei loro giudizi li autorizza a sentirsi onniscienti, in grado di tutto capire e livellare al livello loro infimo, che credono il più alto, che condiviso vogliono, e ne sostiene l’arroganza loro una massa di soggetti allo stesso modo ben pensanti e di simile comportamento. E li vedi autorizzati a parlar di tutto in tono categorico dalla cattedra loro, che è la strada. E che pensano di politica, di morale, di religione o cos’altro degli interessi e problemi della vita di qui? Pensano quel che si pensa in giro, e giudicano come si giudica qua e là, e dicono il si dice, e sentono come si sente tra la gente, entusiasta per il leader del momento o il campione dello sport popolare, o il divo, o il benpensante di turno, che, saccente, parla di tutto, arrogandosene il diritto. E non hanno essi una responsabilità precisa, come non hanno idee, ma opinioni, le correnti, prese pur a prestito, pronti a mutarle se diverso soffia il vento! Ed è soffocante questa presenza loro! Pure occorrerà soccorrerla, ché gradualmente trasformi l’esistenza sua banale, in responsabile. E chi dovrà farlo se non la persona buona, quella che non altro metro ha che la bontà sua, che la fa essere attiva, disponibile, soccorritrice, quella che mai ha tempo da perdere, che or qui or lì trova occasioni del suo intervento prudente, discreto sì, ma deciso a sanare, a raddrizzare, a proteggere? Questo soggetto non è da confondere, madre, con quello che mi sono ridotto a essere, persona buona forse, ma innocua, gentile, che piano va nella giornata sua, cercando sì di non offendere, ma di più di non subire danno, sapendosi debole e passiva! Insomma non è il timido rinunciatario,quello che oggi sono e talora in passato, ma chi sa che per il bene può rischiare del suo, fino al fraintendimento e al ridicolo da parte della banalità dilagante o all’ingratitudine. E mai lo vedrai lamentarsi degli insuccessi nella difficoltosa erta che deve con coraggio e forza percorrere, e definirsi a ridicola giustifica dei fallimenti, troppo idealista per un mondo ottusamente troppo cattivo! E’ un tuo eroe costui, farà un prudente uso delle sue forze e l’intelligenza lo guiderà alla discrezione, all’opportunità, ma non rinuncerà, tenterà almeno, e preghiera ti dirà anche se non con parole, ma con le concretezze della generosità sua. E io che mi sento? Son forse mai stato così? O piuttosto da sempre uno che langue accucciato, accasciato sull’arida sabbia del deserto che fa il suo mondo? Sono uno dallo spaventoso passato, di occasioni trascurate o rimandate, che vede scuro il presente e più ancora l’avvenire, come un silenzio di sventura posasse su lui e tutti quelli del mondo suo? Forse sì, ma sono anche uno che t’ama e prega spiri da te novella vita, per sé e quelli che ama, che sanno d’esserlo e quelli che lo non lo sanno e persino per quelli che non vogliono esserlo! Ecco, è vero, ora sono tra i più accasciati e fiatar a pari dei compagni miei meschini, quasi più non oso, e mi pesa pure la parola che mi muore già dentro o appena in gola. Ho subito del male il contagio immondo! Aspetta il mio cuore in tanta solitudine fosca, che tu gli accenni della primavera tua, il sorriso. E pur dentro sento come un’inquietudine, un’ansia febbrile, che spezzare vorrebbe il cerchio che intorno ho. Banalità, cattiveria, che ride di me, ridicolo innamorato, ridicolo amante, ridicolo tutto! Oh quanto vorrei evadere, sconfinare, cercare nuove vie per il bene, quello che forse mai ho attuato appieno, e nuove leggi che non siano le tanto carenti morali di questa società di lurchi e ingrati, dove viver mi tocca e pesa, sì nuove opportunità tra gente nuova, bisognosa sì, ma che così tanto non noccia in risposta al bene, pur agognato! Invano! Dove? Come? Quando, ormai? E mi prende la vertigine dell’abisso e forse presto sarò abbastanza folle, da porre da me fine a tutto questo stantio fetido, che qui respiro, cadendovi. Nulla mi trattiene... Proprio nulla? Non ho più memoria, solo so di aver traversato male e da meschino il mio pellegrinaggio d’esilio. E dov’è la patria che m’hai pur detto vicina, dove l’oasi in tanto deserto, in cui ritrovare il mio piccolo amore? Oh quanto rugoso e tetro mi son fatto, occhi che qui più non vedono, né vogliono, orecchie che qui non odono, eppure c’era una melodia che pareva cantasse il creato tutto a me bambino, e bello esso mi si mostrava nel reale e più nei sogni d’allora! Perché in quella notte di stelle, adagiato con lei sul prato del chinale, non ho lì fermato l’incanto, dopo la lena affannata d’amore, prima che le nostre vite perdessero primavera? L’avrei portata forse nel buio o nel nulla, chissà, o l’avrei smarrita, volata ella, innocente allodola, altrove verso la tua aurora! E che è ora, non è forse buio per noi? Un buio spesso, che soffoca, che ingoia! Ché triste è questa donna e io ne ho colpa con le bizzarrie del carattere mio e quelle aggiunte, tollerate fin troppo da lei, delle tardive attenzioni a perduto amore...E non la sto perdendo, vaga restare nell’irreale della tristezza sua? E allora tu, madre della mia speranza, ripassa tra noi, sciogli l’angoscia dei cuori nostri, permetti ci ritroviamo, ora fatti quasi estranei, eppur tanto vicini! Spiri da te sulle nostre rimorte forze la vita, lascia ritorniamo buoni attivi, quelli che osano il bene, risollevaci, dacci la tua gioia, bella signora! E fuga questa belva del male in cui imbattuti ci siamo, che ci ha fatto pavidi, e perfino desiderosi d’annientamento tra le fauci sue da iena. Le anime nostre invilite gemono, siano belle ancora, siano le pupille nostre le tue, il cuore nostro palpiti i tuoi palpiti, rida la bocca il tuo bel sorriso, quello che rivisto abbiamo nei sogni, e di cui, bambini, almeno la madre cara, avara non è stata. Sii ora tu quella madre! 

mercoledì 11 aprile 2012

La pazienza

Ecco, qui la realtà, là la speranza. Quanto divario da colmare con la pazienza! Poco o nulla viene donato, tutto nella vita va conquistato nella fatica del quotidiano con l’esercizio della pazienza e nello scorrere lento del tempo... Solo l’occhiuto male, vede a caso, ma rapido raggiunge, il ben nato, buono o bello. E qui guasta, lì toglie. Ed è il dolore! E l’amore anche, così prezioso, dolce, tenero, è gioia sì, ma di più ansia, dolore. Ecco una madre straziata per il fiorellino suo reciso ormai da infame rapina. Ché tale è da sempre il male! Non ha conforto, né lo vuole se non piangere tutte le lacrime possibili e continuarle nel cuore quando secchi le si faranno occhi insonni in quelle occhiaie ormai infossate. E tu, madre cara, specchi in lei lo stesso tuo dolore, ché, proprio quello che lei fa, tu stai facendo nell’animo tuo tormentato. Io lo so! Quanto devi averlo amato quel fiorellino in primavera troppo breve! Già tuo era nel sogno di quella madre e ora ti resta lo strazio di un cuore e lo schianto di un’anima. Carezzava l’idea della sua, piccola restata nel cuor suo,  quella madre fin dal gioco di bambina, in cui la piccola sua di plastica accudiva, imitando e volgendo alla sua bambola, le stesse attenzioni che la propria madre aveva per lei, e le parlava e canzonetta le sussurrava, seria un po’ nel compito suo e felice. E poi, incontrato l’amore, il sentirsela crescer dentro e la gioia che seguì al travaglio, quella di vedersela ancora tutta verniciata degli umori del parto, adagiata con testina un po’ tumefatta nel seno suo tra le mammelle gonfie, che latte per lei prorompere già volevano e quella già cercarne i capezzoli turgidi a occhi chiusi, ancora nel primo pianto di vita... E poi il vedersela crescere, dapprima con passi incerti, poi sicura e parlare, parlare prima nel babillage infantile, poi dire parole e frasi vere e sentirsi chiamare da lei con vocina melliflua, e venir su carina, e adolescente star pensierosa e sospirosa ai primi approcci d’amore dei coetanei suoi, e poi la malattia, e poi il nulla! Oh madre cara, ecco, questo stesso strazio ti costa l’amore per noi tutti a te strappati! Tu proprio non te ne stai avviluppata in te stessa, non abiti un cielo lontano o una bicocca, compiaciuta della tua lontananza da questo mondo fecale. Piangi, urli con noi e di simile fa il figlio tuo che da ogni nuova croce piantata, pende disperato! E’ questo il solo senso della vostra venuta qui nella realtà, essere con, essere per, essere in ciascuno che soffra... E quanto soffriamo! Eccoci come asinelli, trottiamo sotto la soma, apparente come lui mogi andare e rassegnati, pazienti, senza ribellione. Ma l’impazienza è messa a troppo dura prova ed è inutile questa prova. Aggiunge solo gocce al mare del dolore già stato...Quando sarà che, oltre a urlare con noi, a pianger le lacrime nostre, salutare per noi sarà che perdiate questa pazienza da asinelli succubi, che troppo da noi frementi e scalpitanti vi distingue, e tu la testa alla vile serpe schiacci tra l’erba mala ascosa e il male si rattrappisca nel nulla, ché vero l’inghiotta con questo inferno che qui tocca viver e l’altro metafisico dei vili suoi, già amplificatori del dolore qui dabbasso? Basta con la virtù della pazienza fiduciosa, basta con l’ingenuità in un mondo che elude e delude la speranza! Ecco in un mondo così, vero e falso, giusto e ingiusto, ragione e follia non si equivalgono forse nella loro impotenza? Favole ci hanno sempre detto loschi furbi o idioti perfetti... Ha senso questa vita? No, non ha senso alcuno, ché è iattanza vacua, vera invece è la separazione, lontananza da voi perché troppo velati, nascosti, la vita nostra ci vivete, sì accanto e dentro, e altro per voi non volete, non certo la gioia da separati beati dei cieli, ma è inapparente la vita vostra qui, “deus absconditus” siete rimasti! Sì, noi non lo sappiamo che per racconto di mistici, che ci piacciono nel dire delle esperienze loro confabulanti, ma nel dolore più e più rabbia farebbero nello sciorinare candore e non sacrosanto livore di ribellione. E io ti vedo affannarti per la cura e qui o lì correre, ma troppo spesso tardivo e inutile è il soccorso! Ma non è con invettive al vento che oggi placherò l’amarezza che fa gli occhi gonfi, giacché sento di interpretare il tuo stesso dolore, ne sono io stesso specchio. Allora gridi il suo novello grido il figlio tuo, urli daccapo e non le rocce si spacchino questa volta, ma il mondo tutto, e cadano le stelle tutte come fichi di ficaia al vento impetuoso, e all’urlo suo s’apra in cielo e da lì il nuovo venga giù e ci porti terra nuova, e la Gerusalemme novella scenda dal trono del dio! Ma io intanto ti imploro, madre carissima, di non lasciar che il cuor tuo troppo umano restato, vinto sia da troppo affannata lena, non imitare il cuore mio, lento diventato! Ma quel cuore di madre “ad adiuvandum festina”! Altro non chiedo se non che venga la pace, la tua, supplici i cuori tutti! Sì, “respice verba mea, audi propitia ed exaudi”!

lunedì 9 aprile 2012

Pentimento

In vecchie chiese di qualche pregio, non curate per secoli, ti sarà capitato notare come in affreschi, che belle tue storie o di santi tuoi raccontano, un bell’effetto d’insieme quelle hanno se guardate di lontano, quando la mano sapiente dell’uomo v’abbia saputo rimediare. Ma da vicino l’arte paziente del restauro è evidente, non ha invaso l’originale con quello che ha rifatto, aggiunto completamente il mancante, dovuto intuire talvolta o talaltra testimoniato da antichi schizzi o riproduzioni, o anche solo ritoccato il troppo logoro. C’è infatti una voluta discromia che distingue il vecchio originale dal nuovo posticcio. Non pensi che questa immagine possa essere metafora del pentimento che in pie coscienze tenta di rinnovare il rapporto con te e il figlio tuo, fattosi logoro per loro colpa? Non tutti però sono capaci di vero pentimento, ché tutti tentati siamo di indulgere sul nostro passato. Ma quando c’è una personalità autentica e il pentimento sincero non tace, essa ne sarà ricostruita, rinnovata come anima nuova. Chi è invece incapace di pentirsi mancherà di vera libertà, resterà condizionato da quel passato, non trascorso, di manchevolezze, errori, omissioni e quant’altro fa una vita peccaminosa, da cui solo apparentemente il tempo l’avrà distaccato, ma che riemergerà, ricordato talora per analogia, talaltra riaffiorante nel simbolismo di sogni pregnanti, che pensanti, perplessi lasciano al risveglio, persino talora trasformati in incubi, succuba allora la mente restandone. Ecco, chi non si pente del fatto poco o del non fatto del tutto o del fatto male, manca di libertà vera perché rimasto fermo, vincolato al suo ieri, non superato del tutto, non trascorso appunto, sebbene passato. Vi coincide staticamente negli atti suoi che si illude nuovi, nel dinamismo del suo divenire che invece non c’è, se non illusorio. Ché la sua non è storia morale, ma storia profana di fatti ambivalenti, come lo sono, a ben vedere, gli avvenimenti tutti, in cui si sia optato per la versione più conveniente alla pochezza dell’animo che li abbia come suoi registrati, che consenta di non essere troppo severo con se stesso, mentre gli altri attori in quelle vicende, son fatti carchi ingiustamente di maggior responsabilità. Ma alla lunga si capirà che il tempo non ha guarito comunque dal male, nemmeno pensato, analizzato, diagnosticato, come invece talora accade delle malattie fisiche mute o che, dolorosamente manifeste, lasciarci non vogliano, di cui esso è invero grande medico. Ma la malattia morale se non punge, se non parla col linguaggio del dolore, non va via e la presenza sua, anche sopita, misconosciuta, non ci fa sereni nell’oggi e nemmeno fiduciosi guardare al domani, li annebbia, li sciupa nella speranza. E’ come aver lasciato l’affresco della nostra storia com’era, brutto di lontano osservato, peggiore se da vicino ci si soffermi. Invece il pentito sincero ha il paradossale potere di poter mutare ciò che, appunto perché stato, coi testimoni suoi che il tempo avrà reso al pari delle cose muti, ma pur presenti e parlanti alla coscienza, sarebbe immutabile. Ma avviene per esso un cambiamento di senso, paradosso che di miracolo sa. Quegli avvenimenti non più opprimono, non più esondano, invano compressi nella latebra del cuore o costretti a popolarci l’inconscio che serra naturalmente solo fatti sgradevoli molto lontani, ma che pronto è, nel nevrotico che, io nascosto, tutti un po’ siamo, a risucchiare anche cose recenti. Essi diventano incapaci di nuocerci ulteriormente , visto che offendendo chi avremmo dovuto amare, che reca comunque di te e del figlio tuo, è a noi stessi che hanno nociuto di più. E basterà, anche se dolorosamente lo sarà, riconoscere quel comportamento fattosi riprovevole alla coscienza, errore, abbaglio, falsa interpretazione. Ecco allora che il pentimento avrà rinnovato la persona nostra, l’avrà perfino migliorata. E’ un nuovo affresco la sua storia, perché rifatto nelle carenze sue, forse non bello, ma accettabile con serenità dal giudice severo che dentro ci abita, messo da te o dalla morale che fa norma, costume nella società nostra, anche se a nessuna cultura appartener può non tanto il “fate ciò che volete vi sia fatto”, ma il vostro “diligite inimicos vestros”, norma dettata, non umana scoperta, non radicalità di preesistenti precetti, ma divina. Ecco la libertà che la consapevolezza del peccato, nel suo doloroso itinerario di salvezza, ha fatto rinascere. E si diventa daccapo l’uomo nuovo degno d’ascolto e di rinchiuderti, innamorata, nel cuore, catturata nei lacci d’amore cui docile t’arrendi e da cui il passato t’aveva sciolto con le sue azioni brutte, che solo il pentimento ha fatto vero trascorrere, quando con coraggio ne abbiamo assunto la responsabilità piena, non ad altri trasferita, ché meno opprimente ne risultasse la soma. E raccontarlo al sacerdote che vicaria voi, è bene, ma come completamento, ché quello sta per perdono concedere, non ha altri maggiori compiti, ma ben accadrà solo una volta che ci siamo potuti perdonare, nel pentimento. E allora ripristinati sicuri saremo nel vostro amore! E io, che peccatore sono stato e forse sono, almeno potenziale, non più mi ingiurio, non più mi calunnio, guardo distante il mio affresco e vi ritrovo bella l’immagine tua, m’avvicino e le correzioni che ho dovute apportare, tenui sfumano, quasi inapparenti. Ecco, non meno bella è l’icona tua di fuori, quella tua forse più ancora bistrattata, è qui ancora accanto, non è scemata nella caligine della notte della mente mia. Posso riguardarla nella libertà ed è bella questa donna mia, è la mia poesia di gioia in questa vita, tu me l’hai restituita, ti significa, ti specchia. Eccomi daccapo libero, senza più il “ morsus coscientiae” a farmi amara la vita e renderla così e deludente a chi vicino mi vive, e son di nuovo un piccolo ascetico, sempre fragile, un po’ infermo nel corpo, un po’ casto, molto di più innamorato, ché non in solitudine sto, ho lei, quindi te! Due donne nei sogni miei!

domenica 8 aprile 2012

Il paradosso

E’ tutto dolore questo mondo a far l’angoscia dei più. Quello che ne fa lo sfondo buio, l’ambiente, quello che il peccato esalta o aggiunge nuovo. E il figlio tuo venne e novità d’amore portò ed egli stesso l’avrebbe primo vissuta. E’ così grande questo suo comando d’amore che invano se ne attenderebbe di più radicale e ombra non v’era nella sapienza ebraica nemmeno. Ecco, la sua natura divina era segreta, ignota alle coscienze dei più vicini perfino. Divenne palese nell’assurdo della croce, in cui la vittima pretese su sé, come soma, il dolore tutto del mondo, quello conseguenza del peccato e quello, duro destino, voluto per noi dal dio, ché far dovesse la libertà nostra, sì, fino al morire sapendo di doverlo, o scegliere la speranza che non sia per sempre. Io sono la resurrezione e la vita, poi il risorto detto avrebbe, chiunque in me creda anche se morto, vivrà! E la mente sua esondò dall’umano a questa determinazione di prender su sé la conseguenza del male primordiale e l’aggiunta fatta dal peccatore, e attinse al padre, mentre la volontà, il carattere tu, madre, dato gli avevi. Egli, il padre, destinato l’aveva vittima e tu gli fornisti una vigorosa personalità, irripetibile, e per essa la possibilità di vittoria nella sconfitta atroce, perfino. E come vinse? “Caro Christi, caro Mariae”, ma meglio e più si direbbe che “cor” suo è come il tuo. Sì, qualcosa di mai udito era uscito da quel cuore e giunto era il momento di dimostrarlo attuabile. Ed egli accomunò e riassunse in sé tutte le vicende umane, le passate, le presenti e la stessa sua subita e quelle che, sciagurate, nonostante l’evento suo, sarebbero sopravvenute. E la sua visione salvifica spaziò dai primordi, che videro la vita irrompere per volere divino, con dolore, sì, come immane fiumana dei viventi tutti, fino ai fatti angosciosi che compiranno il mondo e lo chiuderanno o per il nulla o per le braccia tue di madre. Ecco la madre, dice il morente! E allora questo è il dio manifesto e il suo comando nuovo dell’amore nonostante il disprezzo, che è per-donum, oltre e più del dono, quello che forse soltanto è l’amore comune, pur esso invero comandato, è andare oltre l’immaginabile umano, è più che metafora dell’amore divino, è lo specchio,”idolum”, della dedizione sua per l’uomo e le creature tutte, per infime che siano. E’ l’annullare del male, pur permesso, non col bene che però verrà, promessa di novella vita, ma con l’amore! E il dio strugge di quest’amore per il creato tutto! Sì, proprio nulla vi può essere di più grande di questo, la vita dare per gli amici, e tutti lo sono per il figlio tuo, i detrattori anche, i delatori pure, chi oggi ancora su novella croce lo pone, ché pecca contro l’uomo e il dio. E questo suo dono all’uomo fa ché la speranza di vita ne rimanga salda, la sola risposta dovuta a un tal dio, un dio d’amore, sceso fino ai noi, i più infimi, ché “nihil est in homine, nihil innoxium”! E quando disse nel congedo, amatevi come io vi ho amato, già pensava a un amore esondante la cerchia ristretta dei suoi, a comprendere l’umanità tutta e che i nemici del dio e dell’uomo includer doveva, sì, il reprobo pure. Ecco il “diligite inimicos vestros” che egli per primo provò a vivere. Lo sperimentò in sé, nella realtà di piccolo uomo inerme, succubo reso alla violenza. Ecco, questa l’erba nuova che egli ha seminato! Ecco il vero grano! Eccola, vederla puoi affacciarsi tenerella alla luce e tremula ad ogni fiato di vento. Ma or già cresciuta è, vedi comincia a spigare e già s’apre or proprio la gluma della spiga e ne cadono i semi a far pregna la terra. Ed erba novella ne nasce a nutrirsi dello stesso humus delle comuni, a viver stretta stretta con quelle... Prevarrà? Invaderà il mondo tutto? Quando questo avverrà lontanato esso forse molto si sarà nell’immane spazio e nel tempo, ma il male, di cui esso nido fa, che tutto decrepito è da sempre, e il peccato putrido ormai, che con esso s’annida come serpe nel groviglio lurido della malerba, pur dell’avvertita acrimonia di quell’erba novella, sentiranno il tosco e volger al nulla la loro misera esistenza dovranno. E l’ultima a morirne sarà la morte stessa! Il male è per il nulla e l’inferno dei mal morti, provvisorio, lo seguirà, ne dice Origène. Ché il fascino del bene irraggerà ovunque irresistibile e ogni cosa farà nuova e buona e bella. Ma ora è il tempo in cui male e dolore conseguente perdurano... e quello delle creature buone, ingenue e incaute tra troppe agguerrite, a far la tua tenerezza e tu ne tremi per la sorte...Sono, continuando la metafora botanica, pianticelle, che pestate che siano mandano buon odore gradevole, e mano impietosa che personifichi il male, le può divellere, le può sciupare e può disfiorare e farle soffrire e farti soffrire. Sì, noi uomini piantati qui siamo e la vita nostra è tragica e complessa nella diversità delle situazioni e dei destini, ma semplice nella conseguenza dello star qui, il dolore tutti prima o poi attanaglia, fosse anche che, per pochi, solo con la morte arrivi. E intanto scorrono albe dorate e rosseggiano tramonti e notti di stelle pur ci sono, o turbini d’oscurità avvolgono le nostre illusioni, il nostro affannarci in questo involucro di carne caduca e meschina. E io sto qui così, meschino proprio, pur amato da te, in un arruffo d’ombre, niente discerno, poco capisco. E ti chiedo se dirmi puoi quando questo mio dolore, che umile m’ha fatto già provato cuore, e piccolo ne partecipa e un po’ completa quello del figlio tuo, resa m’avrà nitida la pupilla da vederci chiaro. Aspetto. Ma le tante ombre non dispaiono, eppure c’è il sole, venuto a far le strida d’effimera gioia dei più fortunati. Spero, spero. Prego, oh quanto prego! E più m’attacco a questa donna, a quest’amore, ché la speranza di te baleni luce in quest’orizzonte velato di nubi e lontano, chissà quanto! Oh quanto devo averla offesa, quanto devo averti offeso! Che amore, che amore, e io l’ho appena avvilito! E’ stato per un amore mal riposto, clandestino in questo viaggio alle stelle, forse peccaminoso, chissà, ma bello si presentava, e mistiche emozioni prometteva... Ma sai come è l’uomo per sé, del bene suo strame fa, se lo abbandoni al proprio temperamento. In cosa decade, in oggetto di capriccio ed arbitrio, perfino, si muta. E questo m’è accaduto da femmina fattasi improvviso nemica. E sterpare, svellere ho visto l’amor mio, fiore da pianta di forse troppo tarda fioritura. E meschino residuare e quanto bello mi pareva e puro! Ma che farne dovrò? Sembra, se ben capito ho il comando nuovo del figlio tuo, io dovrò accrescerlo! Oh santo indicibile paradosso! Appena ora era riprovevole e peccaminoso e or ora è da sperare mi pervada tutto e ne trabocchi! Sento di doverlo tentare e mi sostenga l’amore in questo amore dovuto, quello paziente della mia piccola donna che mai è scemato, e il tuo sublime, “qui laetificat iuventutem meam” oserei dire, ché quello dà conforto a chi, indegno se ne sente, questo gli dà vita e quel foco in lei ravviva. E che sarei se vero fossi dall’amore abbandonato? Arbitrio del mondo, capriccio di donna, e strame questo cuor mio, senza più valore, molle, fiacco, nemmeno buona palla da gioco per fantolini come forse già destino ne ha appena fatto! E allora ti dico senza scorno. Madre, “fons amoris”, matura è questa spiga, s’indora ai tuoi caldi raggi. Sarà grano o loglio? Non so. Spero sia buona per almeno l’ultimo dei tuoi granai celesti!

venerdì 6 aprile 2012

Domande di donna

Ecco questa donna, che chiede? Vuole l’ami, orgoglioso di lei, dei suoi ricordi e delle sue speranze, e che sia innamorato del suo volto fisico e che lo trovi bello almeno come quello spirituale che mi ha dischiuso. E amarla senza rimbrottarla, né avvilirla mai, e di più col volerla ogni giorno più bella, moltiplicandone la gioia d’avermi accanto. Chiede troppo?
No, io l’amo così e di più, e più l’amerò! E le dico, vedi noi siamo sospiri di madre! E allora fuggire vorrei con te nel vento tra le nuvole e da lì alle sue stelle. Ma ella più non si contenta delle mie favole, mi pone domande come, perché un mondo tanto carente? Perché il male? E io che solo sono uno che dice belle storie a donne innamorate, risponder non so, né so d’altri che ne sappia più che congetture o non parli per miti. Rispondo come se in un’insonne fatica di anni avessi trascurato, distratto da altro più struggente compito, o troppo meditato il tema, quindi come confessando di non saperne nulla, e dico che un mondo tanto contraddittorio costringe l’uomo a una scelta dolorosa e irrevocabile nelle conseguenze sue a ogni passo, ed è questa la sola spiegazione sensata che ho in mente e meglio mi spiegherò. Lo dico ricordando come bambino tutto mi frastornasse e impaurisse, vedendo una realtà brutta, dura, che mi premeva da ogni parte, come volesse restringermi a uno stare appena, timoroso dei passi miei in un presente doloroso e verso un futuro buio e incerto. E il mondo degli adulti non vedevo più sicuro e meno aleatorio, e avrei voluto restar bambino con la madre cara a occuparsi di me. Ma il freddo, il freddo degli inverni d’allora da cui fuggire, mi obbligava a crescere mio malgrado, vedendo gli adulti meglio difendersi coi loro pantaloni lunghi... E mi ritrovai a correre immerso in un dove e in un quando in cui il bello e il buono sono rari, il brutto e il cattivo frequenti, il vero è precario e da aggiornare di continuo con fatica, il falso, l’illusione, l’errore sono ad ogni passo e con la necessità che ogni azione meritoria o colpevole debba essere, nel giudizio morale severo d’altri e inclemente addirittura, se personale. E scegliere tra fatti e cose opposte dovevo senza che altri per me lo potesse, o consigliarmene sicuro. Sì, libero divenni, ma come costretto alla libertà. Ecco allora che me ne sono convinto, il dio permette il male per costringere l’uomo alla libertà. Egli deve agire con la propria forza, e volontà e intelligenza e la bontà che dentro ha, a contrasto dell’irrompere delle onde di questa realtà ottusa nel mare tranquillo dei sogni suoi. E anche capire d’essere un turacciolo di sughero nel mare assai diverso, immane, scuro, agitato sempre, avaro di stelle che è il mondo in cui ritrovato s’è e in cui niente v’è di vero buono e bello se non l’amore. Allora dico a questa donna, ecco un po’ di luce in questa scurità disperata in cui l’odio desola la terra e la fa amara tutta. E’ l’amore, il nostro e quello della madre, il solo sicuro. Ella tende le sue mani premurose, addolcisce il dolore, asciuga le lacrime, ci aspetta e sospira per noi di nostalgia, ché vive un eterno presente e prestati ci ha a questo suo brutto sogno! Sì, siamo il sogno del dio! Altro non v’è, ché la barbarie foscheggia ogni ora e dove, e l’odio occhiuto e la rapina insazia dei potenti, pure. Allora ti dico, rimani la mia piccola dolce donna, parlami della bella signora delle stelle o lascia te ne parli io . Non meravigliarti se novellando vado come in sogno, e ti dico quello che a lei direi, soave soave, in vista del suo cielo. Altro non so fare, né voglio! Non mi senti cantare nostalgia d’amore nel bel dialetto napoletano e tentare con lazzi e frizzi da mane a sera di farti sorridere?

mercoledì 4 aprile 2012

Vita grama

Quasi pasqua è ormai, che ti dirò?
Mai, madre, come oggi s’è fatta problematica la vita, né alcuno v’è che tolga l’uomo dal rischio, dall’incertezza, mani troppo labili e incerte reggo dei più la sorte, o volpine di politici troppo avvezzi al sé “diligere”. Allora qui malattia e salute, fame e misura nel cibarsi, indigenza e possedere appena, infelicità e appena poter sorridere, non occupazione e lavoro precario e mal pagato, sono tutti da sempre gli esiti grami della fortuna, aleatori essendo i fattori economici, da cui quelli dipendono, a questo mondo ora globalizzato, brutto per molti, scomodo per i più, prosaico per tutti. A parte parlare dovrei di chi, a danno di tutti, accaparra, avido vivendo una vita per sé tutta, istintiva, distorta, passionale perfino, delirante nella megalomania, nella smania pericolosa d’aver di più, quello che per lui fa presto a divenire superfluo, ma che ad altri molti è sottratto e sarebbe, ripartito che fosse, per ognuno lo stare appena, vitale quindi, ma che pure si vede negato, per la cupidigia di quello. Pensa madre, è di questi giorni che statistiche hanno mostrato il troppo avere di una decina di grassi lurchi, tanto come milioni (sic!) dei più derelitti! Ma pur vivere ci tocca qui in basso con questo spettacolo contraddittorio del comportamento umano, quello dei pochi, che solo cura di sé hanno, e nelle loro mani sudice e rapinose le sorti di molti, succubi mantenuti, e quello dei pochi che s’affannano, ché una migliore e più diffusa giustizia vi sia. Spesso essa colpevoli ci vede, sì noi proprio, che tra i più siamo, se ci arrendiamo, le cose lasciando come stanno da sempre, come se le sorti dei troppi disperati non ci riguardassero, paghi del nostro poco, ma, sbagliando, sicuro creduto. Ecco il compiacimento dell’imbelle mediocre che vive da peggior parassita, percorrendo una vita ignava, pavida anche, ché i potenti non infastidisca. E di simile c’è in tutti i giudizi morali, lasciar le cose nell’indeterminatezza, senza pronunciarsi su il giusto e l’ingiusto,il vero e il falso, su il bello e il brutto, su il santo e lo spregevole, come gretti, egoistici oggetti diventando a rischio di perdere il poco pensato bastevole, ma precario in troppe labili e fragili mani tenuto stretto, e, peggio, di perder la propria umanità. Sì, questo essere senza dignità, e non piuttosto soggetti virtuosi, a migliorar questo mondo infame volenterosi protesi, divenuti capaci di comprendere ciò che fa carenti troppi e che tutti concerne non gli indigenti solo, or che le ideologie tutte misere tramontate sono. Ma quelli che solo per se stessi stanno, maggior scorno hanno agli occhi tuoi, perfino di chi, nato anchilosato o divenuto ottuso, la vita sua ben protetta spende, senza lo sforzo di dover cercare quello che altri affanna, come se di un capriccio o perfino di un eterno erotico gioco si trattasse e gli altri, attori lor malgrado, del divertimento suo burattini siano. Egli sta nell’opulenza e sicurezza dell’aver molto e gli altri in soggezione, pur rabbiosi d’indigenza, che ha anche quello responsabile, spesso a omaggiarne la predilezione rara della sorte, che il dio denaro sembra offrirgli, e a rendergli omaggio infame, perfino! Ed io qui certezze non ho, povero sono di mezzi e molti scopi nobili non ho ormai, ma a denti stretti ho tentato, madre, d'essere e restare dalla parte giusta! Ma tu ora che più vecchio e stanco mi vedi, fa che mai mi ponga giudice dell'altro, nell'atteggiamento di chi sa ciò che altri non sanno, vede, illuminato, i tuoi “arcana” in un mondo di ciechi, come se savio fossi più degli altri tutti e avessi certezze invece dei dubbi, che, come tutti, sconfitto non ho. Che ho cercato di comunicare, di donare “ex indigentia”? Solo, ecco la madre, il dio, non solo è, ma c'è! Tu ci sei, qui proprio, accanto e dentro ciascuno! Ho detto, non cercatela nelle parole tante, troppe dei saccenti, non cercatela nei riti, ma nella preghiera recitata da soli, quindi nel cuore vostro. E se maschi siete, sappiate che ne è icona ogni donna della vostra vita, e quella sopratutto che ha deciso di vivervi accanto, ne è l'idolo, lo specchio, che parla di lei e ve la fa vedere per quanto qui è possibile, ché tutto confuso per enigmi vediamo! Se femmine, siate orgogliose del tesoro che avete in voi a significare di lei, e sappiate che da responsabili occorre agire, dire, decidere, ché se voi fate, intender il maschio vostro deve che la madre quello fa! Allora non immeschinitela con comportamento indegno! E altro non so! E mi inquieta vivere qui ancora, non per l'ignoranza tanta che mi circonda, ma per la piccineria, l'insensibilità di una umanità veramente povera, più che di cose, perché incapace, manca d'amore, e nell’amore che le scema come acqua che palmo tenga, o che incompreso abbia, includo il mio or ora disprezzato e irriso. Perché di questo dir ancora? Forse debolezza è questa mia, che me ne fa parlare, o ché, nel dirne e ridirne a te, confortato ancora ne resterò? Gioverà ch’altri ne sappia? Non so, ma l’empatia, penso, vero umanizzi! Comunque un po’ solo dirò, ché ad altri non dispiaccia e noia rechi, di quello che bambino mi nacque nel cuore e io, illuso che mi fosse dolcezza in momenti bui, ho conservato, proteggendolo fin ad oggi, per vedermelo immeschinito e deriso da persone forse solo grossolane e volgari, ma d’apparenza altro ancora. E dire che la piccola donna che m'hai donato, mi diceva d'esser cauto nel farlo finalmente conoscere a chi, forse tardi era ché ne sapesse, e che mistico amore potessi pur averne, ne comprendeva la necessità, ché esso nato lontano era, e, sopravvissuto, non poteva guarirmene, ma guai a toccare quella, il suo amore perso avrei! Sì, una leonessa m’hai dato, più che gatta sorniona! Ed ella anche aveva aggiunto che timore aveva, conosciutala appena, che l'altra degna non fosse di tanta predilezione e fedeltà e forse le motivazioni mie non avrebbe capito. E le avevo giurato di far così, discreto agire, visto che imperioso sentivo di doverlo. L'ho fatto? Ma oggi che particolari divulgatori dell'ultimo accaduto tra noi, la rottura, ho dolorosamente appreso scaduti nel pettegolezzo, solo posso a te promettere che mai ne dirò male, vile ne resterei, ma scuserò la sua debolezza del pur dover dire di noi a qualcuno, e che pregherò per non altre sue amarezze di vita, ché, ravveduta, anche questa sua così le parrà. E continuerò a volerle bene, nel segreto, anche se nemica s'è fatta. Ben conosco del figlio tuo il comando! Ci riuscirò? 

domenica 1 aprile 2012

Fascino di donna

Talora tu curiosa sembri della mia reazione a domande strane, pensi che imbarazzo ne segua, per sorriderne insieme. E io in verità è questo che voglio, renderti piacevole la mia presenza anche se mi toccherà l’ironia tua. Ora mi chiedi di dirti in che consista delle donne il fascino arcano, ché alla luce anche di fatti recenti, a tuo dire ne sembro esperto, ecco l’ironia! Io dirti dovrei onesto che molto non vi conosco. Te sola ormai so e un po’ solo, e sicuro solo te ho amato nella completezza e ora dirò che intendo. Sì, colpito nel mio orgoglio di maschio, non posso non dire qualcosa, spero che questo piaccia alla madre e a te, che per me suo specchio sei. Ché temo che capito vi abbia solo in modo riduttivo, da maschio ottuso, e questo vi deluda. Rispondo allora che voi donne una peculiarità avete, quella di somatizzare ogni moto del cuore e ogni atto dell’intelligenza, quali che siano, se desiderio abbiate di comunicarli. Cioè per farlo fate sì che essi acquistino forma corporea ed espressione somatica. E questo mi sorprende e affascina, ché col corpo dite, anticipando quello che le parole ancor non osano, ma che a tempo opportuno ribadiranno le stesse cose così anticipate. Cioè non è solo l’avere un corpo, più o meno bello, ma essere capaci di farlo parlare in modo leggiadro e misurato, mai volgare, per dire le ragioni riposte nelle regioni sempre impalpabili e per lo più inaccessibili dello spirito e dell’intelligenza, che fa la donna. Sì, ella fa che esso testimoni, col linguaggio suo arcano, il bello di dentro, che svelar vuole a chi disposto sia alla suggestione, alla fascinazione appunto. Insomma la bellezza fisica ha il suo ruolo irrinunciabile, non solo perché attrae l’altro, il tu desiderato, ma perché si vuole comunichi una ricchezza interiore, che si vorrebbe apprezzata, tenuta nella giusta considerazione e da quel tu proprio, sebbene non dispiaccia che altri la intendano. Infatti se l’irradiazione di fascino sembra inizialmente rivolta ai maschi tutti, che giudicano piacevole, adorabile quella presenza che sta tra loro, che li ha resi garbati e galanti, a suo agio e disinvolta muovendosi, in realtà quella coagulare vuole il suo messaggio, avendo un interesse particolare per chi scelto abbia tra tutti i soggetti sensibili. E’ l’eterno piacevole gioco dell’eros, in cui c’è una specie di azione magica che addormenta, ipnotizza l’affascinato, ma non lo si vuole catturato semplicemente nelle spire dell’erotico e irretito nel mero estetismo, ma anche partecipe di quei valori della mente e dello spirito di cui quel bel corpo parla nelle movenze sue fascinose. E ho per metafora l’immagine dell’incantatore di serpenti che suona a chi è sordo, stregato invece dalle movenze sue. Sì, ella ha tradotto, quasi in un linguaggio immediato, visivo, accessibile perciò, tutto il suo sé e lo ha fatto a misura di una intelligenza e di una sensibilità che, se non carenti, spesso orientate alle sole concretezze sono, in cui troppo spesso ravvisato è dai più, il solo scopo dell’esistenza qui. Sembrerebbe quasi che la donna consideri le qualità somatiche, che cerca di esaltare al massimo con accorgimenti vari, come un mezzo per farsi conoscere e apprezzare completamente, anima e corpo. Ecco la peculiarità che fa la femmina nostra unica, speciale tra quelle delle specie tutte e le dà quasi un’aria numinosa che solo la grossolanità di certi maschi può negare e sulla quale misogini di tutte le epoche lanciano i loro frizzi. Ma è innegabile che è proprio questa peculiarità che fa una sorta di genialità della donna, che vuole sì esercitare fascino nel gioco erotico, prologo d’amore, ma lo vuole completo, ché da ciò che dentro ha, l’ha inteso irradiato, mentre il corpo solo ha reso sensibile, tangibile quasi, ciò che, per definizione , non può esserlo. Ecco la genialità connaturata di ogni donna! E mai sarà disposta ad ammettere che potrebbe essere illusione che in quel bel gioco ne rimangano sempre comprese intelligenza e qualità della anima sua, quelle rese di facile lettura, ché dal suo corpo le ha fatte tradurre, ma che comunque, forse a maggior garanzia di successo, paleserà con le tante parole con cui accompagnerà la conoscenza più intima dell’altro, di quel tu tutto speciale per lei sola. Ecco è questo solo che capito ho del mistero che siete, volete vi si ami sì per la bellezza, ma sopratutto per la ricchezza che dentro siete certe d’avere, e questo fa la mia meraviglia. E io penso d’amarti così. E so che la bella, di cui specchio sei, e quindi ciò che fai ella sta facendo per lasciarsi conoscere nella completezza e quindi tutta amare, t’ha dato una interiorità bellissima che magnifica l’amor nostro, briciola della sua stessa, credo. E tu avrai certo la bellezza degli angeli, ma ella che t’ama di più, la sua sublime ti donerà a completare del cuore tuo il candore, quando tra le sue stelle per amarci di più, ci chiamerà. Allora io, che spero tutto questo, ti prego di non dirmi più che t’ammazzeresti se malattia mi strappasse a te. Tu me lo hai detto convinta stamattina con le lacrime agli occhi, quindi anche e sopratutto col linguaggio del corpo, e io turbato ne sono restato e ne ho pianto, appena solo. Non sai che tanti t’amano e t’ama gelosa la bella signora? Sei icona o meglio idolum, specchio, suo speciale, ché per te sola ella mi parla, col linguaggio fascinoso del corpo tuo, prima delle stesse parole esplicative dette e ridette a uno un po’ duro, che poco capisce anche se non scarso gli si dice!