lunedì 16 aprile 2012

La speranza

Com’era bello il tempo nostro primo, piccole cose, piccoli fatti, grandi sogni! Il vero tempo della contentezza!
E non ci pareva di urtare l’impossibile con le piccole pretese, né di conciliare l’inconciliabile con i piccoli compromessi, tutto era nuovo, bello e prezioso, e non sapevamo che avremmo avuto solo per allora occhi capaci di veder così questa realtà... E sfuggente era il nostro mondo incantato, ché tutto era effimero e come bolle iridescenti saponose anche la gioia nella spensieratezza di quei giochi, grida dietro a una palla, occhi in su verso un aquilone e lì il cuore... Sì, fuggiva quel tempo anche di prime pungenti amarezze da celare nella latebra del cuore per rimandarne la comprensione a epoche lontane, e siamo rimasti affamati e assetati di felicità! E ora punge la nostalgia di ritorni. E dove e come? Ecco, l’epoca adulta ci ha imprigionati, eppoi presto la lunga sera, che ci ha anchilosati. Malati siamo e più di sogni finiti in una fanghiglia gelida, che ne tarpa le ali. Ecco finiti siamo nel tempo dei dominatori superbi della natura, sempre ribelle però, e dei divoratori dello spazio, insondabile rimasto, e alla civiltà meccanica s’è sostituita l’elettronica, eppure fame e morte sono quelli, e più forse, di sempre. E dipende la vita dai fattori aleatori del mercato globalizzato. Ecco, non ha leggi prevedibili e adoperabili a mitigarne gli eccessi, somiglia a vento capriccioso, segue il si dice e il si teme, e va dove sentore ha di non sudati guadagni. Abbiamo fatto naufragio, arenati in bassure grigie e nella melma buia del prosaico e siamo miseri più di ieri, foglie al vento iroso, freddo in un inverno dello spirito che fine non vuole avere. E come uccelli nascondiamo la testa sotto l’ala per non vedere a cosa ci ha condotto la fiducia mal riposta in superficiali, fatui giocolieri della politica, quelli del frasario presuntuoso, buon curatori sol degli interessi propri. Ma c’è in questa vita tanto mutevole, precaria e misera, in cui l’esistenza va da sempre effimera per incerta via, qualcosa che duri più dei luccichii delle illusioni, della fragilità degli equilibrismi, che non sia il rifugiarsi nel sapere, che freddo s’è fatto nell’orgoglio suo sterile, degni i suoi libri più e più dei cento chiodi del noto film, o nei sogni tutti caduchi o tra le parole degli sciorinati valori spirituali, cui nemmeno quelli che ossessivi, dogmatici le dicono, sembrano più credere, almeno non nella coerenza del comportamento? Ecco, tra tutto ciò che si logora, è la sola speranza che può rimanerci, essa offre vero rifugio e asilo a cuore deluso, immeschinito, e mente stanca. E in che? Non certo in chi! Ecco, la speranza è che tutto ciò che fa la nostra pena del vivere qui, abbia un senso. Che ci sia un perché ultimo, che giustifichi, il dolore, la paura, la morte. Qui l’avidità e la sicumera del potere opprimono e siamo sempre più assillati dai bisogni che appena ieri parevano sopiti, soddisfatti un po’, e siamo di nuovo tormentati da quelli più semplici e vitali e daccapo è lotta per il poco e l’insufficiente. Sì, dacci il nostro pane quotidiano, è preghiera di pregnante attualità! Avremmo bisogno d’aria pura, lontana dai miasmi, dai contagi che corrompono vita e anima. Nulla può lenirci l’angoscia, usciamo all’aperto, verso i campi assolati della prima giovinezza! Ma dove ne sono rimasti? Il nostro par proprio un pellegrinaggio tra grovigli di smarrimenti, incertezze e le paure di sempre che ci divori la fame, la malattia e l’abbandono. E tutto quanto si dice è opinabile, è un mondo di affermazioni tutte dubbiose, che non reggono alla critica e alle smentite. Ed è scura la via, scuro s’è fatto il mareggiare del tempo. Ma se conserviamo la speranza d’una stella, ecco forse scorgere la potremo e ci indicherà una via, una rotta a un porto. Ecco, madre divina, tu sei la mia speranza! M’hai solo illuso di gioiosa dolcezza d’amore? Ma da dove venuta sei? Morta è la lettera e mute le dipinte, e distratte le icone tue viventi. Eppure una invitato m’ha. Mi ha invitato a sgranchirmi, camminare, salire. E come e dove e verso quale vetta? Verso il suo cuore, vicino, lontano, inafferrabile! Ecco gli occhi suoi sono i tuoi, la stella! Possibile che tutto si risolva in un tu? Nella fortuna di trovarlo? Resta il carattere arcano dell’universo, restano freddo e incertezza, i problemi non sono risolti, ma la speranza s’è fatta consistente! Abbiamo nostalgia d’una realtà di bene e rinasce irrefrenabile, sì, abbiamo daccapo, come bambini, la vocazione alla gioia! Ma dove, quanto lontana? Quanto la profondità di questi occhi che mi guardano ancora incantati. Ed è bello questo viso, pur con qualche ruga, pur coronato da capelli che bianchi vogliono essere e che lunghi, come quelli fascinosi da ragazza, più non vuole portare. Sì, quella ragazza cui non sapevo come parlare, m’attraeva e mi respingeva con la sua giovinezza acerba e ignara, forse dalla mia non vero troppo lontana, ma che  sentivo d’aver perduto dietro a lucciole deludenti, vecchio diventato improvviso per l’amarezza d’aver corso dietro a vaghe farfalle e luccichii. Ecco è lei sola che mi da’ certezza che tu sei per me, ché palpita il suo cuore dei palpiti tuoi e le sue parole or dolci poi amare, compresi gli immancabili rimbrotti, sono da te che vengono! Ed è fresco e luminoso questo mattino che mi sveglia con lei assopita ancora e rannicchiata tutta, lo è nell’anima mia e tutta l’indora, e posso innalzarti lo sguardo, o dio sconosciuto! Sì, grazie di questo tu, della sua fortuna! Ora so, tu sei la verità e la vita e non ho altra via che questi occhi di povera umanità, di fragile dubbiosa donna, quelli che mi interrogano e mi rispondono a un tempo, e non sanno di esser di tanto capaci! E se dietro le vado so che è te che seguo e posso ben dirti “trahe nos virgo immaculata post te curremus in odorem unguentorum tuorum”!

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