sabato 14 aprile 2012

Banalità e tristezza

Com’è triste la vita qui e noiosa anche
e come è banale l’atmosfera in cui tocca allo spirito il respiro. Tu, madre, veder puoi molti di questi uomini, che nulla vero sanno, armati delle opinioni d’altri e di luoghi comuni, che fanno i loro pregiudizi, difender goffi ad ogni costo la mediocrità loro, con atteggiamento intransigente d’attaccabrighe, ché il pressappochismo dei loro giudizi li autorizza a sentirsi onniscienti, in grado di tutto capire e livellare al livello loro infimo, che credono il più alto, che condiviso vogliono, e ne sostiene l’arroganza loro una massa di soggetti allo stesso modo ben pensanti e di simile comportamento. E li vedi autorizzati a parlar di tutto in tono categorico dalla cattedra loro, che è la strada. E che pensano di politica, di morale, di religione o cos’altro degli interessi e problemi della vita di qui? Pensano quel che si pensa in giro, e giudicano come si giudica qua e là, e dicono il si dice, e sentono come si sente tra la gente, entusiasta per il leader del momento o il campione dello sport popolare, o il divo, o il benpensante di turno, che, saccente, parla di tutto, arrogandosene il diritto. E non hanno essi una responsabilità precisa, come non hanno idee, ma opinioni, le correnti, prese pur a prestito, pronti a mutarle se diverso soffia il vento! Ed è soffocante questa presenza loro! Pure occorrerà soccorrerla, ché gradualmente trasformi l’esistenza sua banale, in responsabile. E chi dovrà farlo se non la persona buona, quella che non altro metro ha che la bontà sua, che la fa essere attiva, disponibile, soccorritrice, quella che mai ha tempo da perdere, che or qui or lì trova occasioni del suo intervento prudente, discreto sì, ma deciso a sanare, a raddrizzare, a proteggere? Questo soggetto non è da confondere, madre, con quello che mi sono ridotto a essere, persona buona forse, ma innocua, gentile, che piano va nella giornata sua, cercando sì di non offendere, ma di più di non subire danno, sapendosi debole e passiva! Insomma non è il timido rinunciatario,quello che oggi sono e talora in passato, ma chi sa che per il bene può rischiare del suo, fino al fraintendimento e al ridicolo da parte della banalità dilagante o all’ingratitudine. E mai lo vedrai lamentarsi degli insuccessi nella difficoltosa erta che deve con coraggio e forza percorrere, e definirsi a ridicola giustifica dei fallimenti, troppo idealista per un mondo ottusamente troppo cattivo! E’ un tuo eroe costui, farà un prudente uso delle sue forze e l’intelligenza lo guiderà alla discrezione, all’opportunità, ma non rinuncerà, tenterà almeno, e preghiera ti dirà anche se non con parole, ma con le concretezze della generosità sua. E io che mi sento? Son forse mai stato così? O piuttosto da sempre uno che langue accucciato, accasciato sull’arida sabbia del deserto che fa il suo mondo? Sono uno dallo spaventoso passato, di occasioni trascurate o rimandate, che vede scuro il presente e più ancora l’avvenire, come un silenzio di sventura posasse su lui e tutti quelli del mondo suo? Forse sì, ma sono anche uno che t’ama e prega spiri da te novella vita, per sé e quelli che ama, che sanno d’esserlo e quelli che lo non lo sanno e persino per quelli che non vogliono esserlo! Ecco, è vero, ora sono tra i più accasciati e fiatar a pari dei compagni miei meschini, quasi più non oso, e mi pesa pure la parola che mi muore già dentro o appena in gola. Ho subito del male il contagio immondo! Aspetta il mio cuore in tanta solitudine fosca, che tu gli accenni della primavera tua, il sorriso. E pur dentro sento come un’inquietudine, un’ansia febbrile, che spezzare vorrebbe il cerchio che intorno ho. Banalità, cattiveria, che ride di me, ridicolo innamorato, ridicolo amante, ridicolo tutto! Oh quanto vorrei evadere, sconfinare, cercare nuove vie per il bene, quello che forse mai ho attuato appieno, e nuove leggi che non siano le tanto carenti morali di questa società di lurchi e ingrati, dove viver mi tocca e pesa, sì nuove opportunità tra gente nuova, bisognosa sì, ma che così tanto non noccia in risposta al bene, pur agognato! Invano! Dove? Come? Quando, ormai? E mi prende la vertigine dell’abisso e forse presto sarò abbastanza folle, da porre da me fine a tutto questo stantio fetido, che qui respiro, cadendovi. Nulla mi trattiene... Proprio nulla? Non ho più memoria, solo so di aver traversato male e da meschino il mio pellegrinaggio d’esilio. E dov’è la patria che m’hai pur detto vicina, dove l’oasi in tanto deserto, in cui ritrovare il mio piccolo amore? Oh quanto rugoso e tetro mi son fatto, occhi che qui più non vedono, né vogliono, orecchie che qui non odono, eppure c’era una melodia che pareva cantasse il creato tutto a me bambino, e bello esso mi si mostrava nel reale e più nei sogni d’allora! Perché in quella notte di stelle, adagiato con lei sul prato del chinale, non ho lì fermato l’incanto, dopo la lena affannata d’amore, prima che le nostre vite perdessero primavera? L’avrei portata forse nel buio o nel nulla, chissà, o l’avrei smarrita, volata ella, innocente allodola, altrove verso la tua aurora! E che è ora, non è forse buio per noi? Un buio spesso, che soffoca, che ingoia! Ché triste è questa donna e io ne ho colpa con le bizzarrie del carattere mio e quelle aggiunte, tollerate fin troppo da lei, delle tardive attenzioni a perduto amore...E non la sto perdendo, vaga restare nell’irreale della tristezza sua? E allora tu, madre della mia speranza, ripassa tra noi, sciogli l’angoscia dei cuori nostri, permetti ci ritroviamo, ora fatti quasi estranei, eppur tanto vicini! Spiri da te sulle nostre rimorte forze la vita, lascia ritorniamo buoni attivi, quelli che osano il bene, risollevaci, dacci la tua gioia, bella signora! E fuga questa belva del male in cui imbattuti ci siamo, che ci ha fatto pavidi, e perfino desiderosi d’annientamento tra le fauci sue da iena. Le anime nostre invilite gemono, siano belle ancora, siano le pupille nostre le tue, il cuore nostro palpiti i tuoi palpiti, rida la bocca il tuo bel sorriso, quello che rivisto abbiamo nei sogni, e di cui, bambini, almeno la madre cara, avara non è stata. Sii ora tu quella madre! 

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