mercoledì 11 aprile 2012

La pazienza

Ecco, qui la realtà, là la speranza. Quanto divario da colmare con la pazienza! Poco o nulla viene donato, tutto nella vita va conquistato nella fatica del quotidiano con l’esercizio della pazienza e nello scorrere lento del tempo... Solo l’occhiuto male, vede a caso, ma rapido raggiunge, il ben nato, buono o bello. E qui guasta, lì toglie. Ed è il dolore! E l’amore anche, così prezioso, dolce, tenero, è gioia sì, ma di più ansia, dolore. Ecco una madre straziata per il fiorellino suo reciso ormai da infame rapina. Ché tale è da sempre il male! Non ha conforto, né lo vuole se non piangere tutte le lacrime possibili e continuarle nel cuore quando secchi le si faranno occhi insonni in quelle occhiaie ormai infossate. E tu, madre cara, specchi in lei lo stesso tuo dolore, ché, proprio quello che lei fa, tu stai facendo nell’animo tuo tormentato. Io lo so! Quanto devi averlo amato quel fiorellino in primavera troppo breve! Già tuo era nel sogno di quella madre e ora ti resta lo strazio di un cuore e lo schianto di un’anima. Carezzava l’idea della sua, piccola restata nel cuor suo,  quella madre fin dal gioco di bambina, in cui la piccola sua di plastica accudiva, imitando e volgendo alla sua bambola, le stesse attenzioni che la propria madre aveva per lei, e le parlava e canzonetta le sussurrava, seria un po’ nel compito suo e felice. E poi, incontrato l’amore, il sentirsela crescer dentro e la gioia che seguì al travaglio, quella di vedersela ancora tutta verniciata degli umori del parto, adagiata con testina un po’ tumefatta nel seno suo tra le mammelle gonfie, che latte per lei prorompere già volevano e quella già cercarne i capezzoli turgidi a occhi chiusi, ancora nel primo pianto di vita... E poi il vedersela crescere, dapprima con passi incerti, poi sicura e parlare, parlare prima nel babillage infantile, poi dire parole e frasi vere e sentirsi chiamare da lei con vocina melliflua, e venir su carina, e adolescente star pensierosa e sospirosa ai primi approcci d’amore dei coetanei suoi, e poi la malattia, e poi il nulla! Oh madre cara, ecco, questo stesso strazio ti costa l’amore per noi tutti a te strappati! Tu proprio non te ne stai avviluppata in te stessa, non abiti un cielo lontano o una bicocca, compiaciuta della tua lontananza da questo mondo fecale. Piangi, urli con noi e di simile fa il figlio tuo che da ogni nuova croce piantata, pende disperato! E’ questo il solo senso della vostra venuta qui nella realtà, essere con, essere per, essere in ciascuno che soffra... E quanto soffriamo! Eccoci come asinelli, trottiamo sotto la soma, apparente come lui mogi andare e rassegnati, pazienti, senza ribellione. Ma l’impazienza è messa a troppo dura prova ed è inutile questa prova. Aggiunge solo gocce al mare del dolore già stato...Quando sarà che, oltre a urlare con noi, a pianger le lacrime nostre, salutare per noi sarà che perdiate questa pazienza da asinelli succubi, che troppo da noi frementi e scalpitanti vi distingue, e tu la testa alla vile serpe schiacci tra l’erba mala ascosa e il male si rattrappisca nel nulla, ché vero l’inghiotta con questo inferno che qui tocca viver e l’altro metafisico dei vili suoi, già amplificatori del dolore qui dabbasso? Basta con la virtù della pazienza fiduciosa, basta con l’ingenuità in un mondo che elude e delude la speranza! Ecco in un mondo così, vero e falso, giusto e ingiusto, ragione e follia non si equivalgono forse nella loro impotenza? Favole ci hanno sempre detto loschi furbi o idioti perfetti... Ha senso questa vita? No, non ha senso alcuno, ché è iattanza vacua, vera invece è la separazione, lontananza da voi perché troppo velati, nascosti, la vita nostra ci vivete, sì accanto e dentro, e altro per voi non volete, non certo la gioia da separati beati dei cieli, ma è inapparente la vita vostra qui, “deus absconditus” siete rimasti! Sì, noi non lo sappiamo che per racconto di mistici, che ci piacciono nel dire delle esperienze loro confabulanti, ma nel dolore più e più rabbia farebbero nello sciorinare candore e non sacrosanto livore di ribellione. E io ti vedo affannarti per la cura e qui o lì correre, ma troppo spesso tardivo e inutile è il soccorso! Ma non è con invettive al vento che oggi placherò l’amarezza che fa gli occhi gonfi, giacché sento di interpretare il tuo stesso dolore, ne sono io stesso specchio. Allora gridi il suo novello grido il figlio tuo, urli daccapo e non le rocce si spacchino questa volta, ma il mondo tutto, e cadano le stelle tutte come fichi di ficaia al vento impetuoso, e all’urlo suo s’apra in cielo e da lì il nuovo venga giù e ci porti terra nuova, e la Gerusalemme novella scenda dal trono del dio! Ma io intanto ti imploro, madre carissima, di non lasciar che il cuor tuo troppo umano restato, vinto sia da troppo affannata lena, non imitare il cuore mio, lento diventato! Ma quel cuore di madre “ad adiuvandum festina”! Altro non chiedo se non che venga la pace, la tua, supplici i cuori tutti! Sì, “respice verba mea, audi propitia ed exaudi”!

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