domenica 8 aprile 2012

Il paradosso

E’ tutto dolore questo mondo a far l’angoscia dei più. Quello che ne fa lo sfondo buio, l’ambiente, quello che il peccato esalta o aggiunge nuovo. E il figlio tuo venne e novità d’amore portò ed egli stesso l’avrebbe primo vissuta. E’ così grande questo suo comando d’amore che invano se ne attenderebbe di più radicale e ombra non v’era nella sapienza ebraica nemmeno. Ecco, la sua natura divina era segreta, ignota alle coscienze dei più vicini perfino. Divenne palese nell’assurdo della croce, in cui la vittima pretese su sé, come soma, il dolore tutto del mondo, quello conseguenza del peccato e quello, duro destino, voluto per noi dal dio, ché far dovesse la libertà nostra, sì, fino al morire sapendo di doverlo, o scegliere la speranza che non sia per sempre. Io sono la resurrezione e la vita, poi il risorto detto avrebbe, chiunque in me creda anche se morto, vivrà! E la mente sua esondò dall’umano a questa determinazione di prender su sé la conseguenza del male primordiale e l’aggiunta fatta dal peccatore, e attinse al padre, mentre la volontà, il carattere tu, madre, dato gli avevi. Egli, il padre, destinato l’aveva vittima e tu gli fornisti una vigorosa personalità, irripetibile, e per essa la possibilità di vittoria nella sconfitta atroce, perfino. E come vinse? “Caro Christi, caro Mariae”, ma meglio e più si direbbe che “cor” suo è come il tuo. Sì, qualcosa di mai udito era uscito da quel cuore e giunto era il momento di dimostrarlo attuabile. Ed egli accomunò e riassunse in sé tutte le vicende umane, le passate, le presenti e la stessa sua subita e quelle che, sciagurate, nonostante l’evento suo, sarebbero sopravvenute. E la sua visione salvifica spaziò dai primordi, che videro la vita irrompere per volere divino, con dolore, sì, come immane fiumana dei viventi tutti, fino ai fatti angosciosi che compiranno il mondo e lo chiuderanno o per il nulla o per le braccia tue di madre. Ecco la madre, dice il morente! E allora questo è il dio manifesto e il suo comando nuovo dell’amore nonostante il disprezzo, che è per-donum, oltre e più del dono, quello che forse soltanto è l’amore comune, pur esso invero comandato, è andare oltre l’immaginabile umano, è più che metafora dell’amore divino, è lo specchio,”idolum”, della dedizione sua per l’uomo e le creature tutte, per infime che siano. E’ l’annullare del male, pur permesso, non col bene che però verrà, promessa di novella vita, ma con l’amore! E il dio strugge di quest’amore per il creato tutto! Sì, proprio nulla vi può essere di più grande di questo, la vita dare per gli amici, e tutti lo sono per il figlio tuo, i detrattori anche, i delatori pure, chi oggi ancora su novella croce lo pone, ché pecca contro l’uomo e il dio. E questo suo dono all’uomo fa ché la speranza di vita ne rimanga salda, la sola risposta dovuta a un tal dio, un dio d’amore, sceso fino ai noi, i più infimi, ché “nihil est in homine, nihil innoxium”! E quando disse nel congedo, amatevi come io vi ho amato, già pensava a un amore esondante la cerchia ristretta dei suoi, a comprendere l’umanità tutta e che i nemici del dio e dell’uomo includer doveva, sì, il reprobo pure. Ecco il “diligite inimicos vestros” che egli per primo provò a vivere. Lo sperimentò in sé, nella realtà di piccolo uomo inerme, succubo reso alla violenza. Ecco, questa l’erba nuova che egli ha seminato! Ecco il vero grano! Eccola, vederla puoi affacciarsi tenerella alla luce e tremula ad ogni fiato di vento. Ma or già cresciuta è, vedi comincia a spigare e già s’apre or proprio la gluma della spiga e ne cadono i semi a far pregna la terra. Ed erba novella ne nasce a nutrirsi dello stesso humus delle comuni, a viver stretta stretta con quelle... Prevarrà? Invaderà il mondo tutto? Quando questo avverrà lontanato esso forse molto si sarà nell’immane spazio e nel tempo, ma il male, di cui esso nido fa, che tutto decrepito è da sempre, e il peccato putrido ormai, che con esso s’annida come serpe nel groviglio lurido della malerba, pur dell’avvertita acrimonia di quell’erba novella, sentiranno il tosco e volger al nulla la loro misera esistenza dovranno. E l’ultima a morirne sarà la morte stessa! Il male è per il nulla e l’inferno dei mal morti, provvisorio, lo seguirà, ne dice Origène. Ché il fascino del bene irraggerà ovunque irresistibile e ogni cosa farà nuova e buona e bella. Ma ora è il tempo in cui male e dolore conseguente perdurano... e quello delle creature buone, ingenue e incaute tra troppe agguerrite, a far la tua tenerezza e tu ne tremi per la sorte...Sono, continuando la metafora botanica, pianticelle, che pestate che siano mandano buon odore gradevole, e mano impietosa che personifichi il male, le può divellere, le può sciupare e può disfiorare e farle soffrire e farti soffrire. Sì, noi uomini piantati qui siamo e la vita nostra è tragica e complessa nella diversità delle situazioni e dei destini, ma semplice nella conseguenza dello star qui, il dolore tutti prima o poi attanaglia, fosse anche che, per pochi, solo con la morte arrivi. E intanto scorrono albe dorate e rosseggiano tramonti e notti di stelle pur ci sono, o turbini d’oscurità avvolgono le nostre illusioni, il nostro affannarci in questo involucro di carne caduca e meschina. E io sto qui così, meschino proprio, pur amato da te, in un arruffo d’ombre, niente discerno, poco capisco. E ti chiedo se dirmi puoi quando questo mio dolore, che umile m’ha fatto già provato cuore, e piccolo ne partecipa e un po’ completa quello del figlio tuo, resa m’avrà nitida la pupilla da vederci chiaro. Aspetto. Ma le tante ombre non dispaiono, eppure c’è il sole, venuto a far le strida d’effimera gioia dei più fortunati. Spero, spero. Prego, oh quanto prego! E più m’attacco a questa donna, a quest’amore, ché la speranza di te baleni luce in quest’orizzonte velato di nubi e lontano, chissà quanto! Oh quanto devo averla offesa, quanto devo averti offeso! Che amore, che amore, e io l’ho appena avvilito! E’ stato per un amore mal riposto, clandestino in questo viaggio alle stelle, forse peccaminoso, chissà, ma bello si presentava, e mistiche emozioni prometteva... Ma sai come è l’uomo per sé, del bene suo strame fa, se lo abbandoni al proprio temperamento. In cosa decade, in oggetto di capriccio ed arbitrio, perfino, si muta. E questo m’è accaduto da femmina fattasi improvviso nemica. E sterpare, svellere ho visto l’amor mio, fiore da pianta di forse troppo tarda fioritura. E meschino residuare e quanto bello mi pareva e puro! Ma che farne dovrò? Sembra, se ben capito ho il comando nuovo del figlio tuo, io dovrò accrescerlo! Oh santo indicibile paradosso! Appena ora era riprovevole e peccaminoso e or ora è da sperare mi pervada tutto e ne trabocchi! Sento di doverlo tentare e mi sostenga l’amore in questo amore dovuto, quello paziente della mia piccola donna che mai è scemato, e il tuo sublime, “qui laetificat iuventutem meam” oserei dire, ché quello dà conforto a chi, indegno se ne sente, questo gli dà vita e quel foco in lei ravviva. E che sarei se vero fossi dall’amore abbandonato? Arbitrio del mondo, capriccio di donna, e strame questo cuor mio, senza più valore, molle, fiacco, nemmeno buona palla da gioco per fantolini come forse già destino ne ha appena fatto! E allora ti dico senza scorno. Madre, “fons amoris”, matura è questa spiga, s’indora ai tuoi caldi raggi. Sarà grano o loglio? Non so. Spero sia buona per almeno l’ultimo dei tuoi granai celesti!

Nessun commento:

Posta un commento