sabato 30 aprile 2016

Il nuovo cristo

Ritenere che il nuovo messia dovesse essere come l'antico, ma non più un legislatore svelante la volontà divina, ritenuta già tutta espressa, piuttosto un vero liberatore dal nuovo giogo imposto dai romani, ritenuti solo vessatori, presupponeva o una gran fede o una grande ingenuità di tutto un popolo e dei suoi capi religiosi soprattutto. Ciò non è verosimile. L'unico, cui taluni attribuivamo un carisma, che era da pensare risultasse da un rapporto particolare di vero ascolto dal dio di tutti loro e di vera intesa con lui, dal momento che ne chiedeva l'ascolto con fiducia e sempre ne riceveva la risposta desiderata, era un predicatore, banditore di un regno, sì forse erompente, ma tutto o prevalente spirituale. Un liberatore sì , ma dal male personale, anche fisico, ma soprattutto dell' anima! Quando lo si accusò proditoriamente, ottenendone la condanna all'infamia della croce, quel rapporto privilegiato parve spezzarsi. Il dio pareva non ascoltarlo più! Sì, l'innocente parve del tutto abbandonato al suo destino di morte atroce. In realtà non fu così, ma il privilegiato d'un tempo non poteva saperlo, forse sperarlo nella fede sua mai spenta. Doveva percepirsi come divenuto infimo nell'abbandono, la sola evidenza! Perché? Gli veniva richiesta una fede più grande della fino allora manifestata con l'amore struggente che aveva per i suoi, perché col perdono domandato per tutti, i pagani pure, doveva credere in un padre che lo avrebbe assecondato perfino in quest'ultima richiesta, ridare la dignità perduta ai peccatori di ogni infamia e alle loro vittime sotto ogni cielo. Ma v'era più ancora, estendendo la richiesta agli ingiusti romani contro i giusti come lui, e il popolo tutto credulone quando non ingannato dai suoi capi, richiedeva che l'apparente indifferenza del dio per i detrattori tutti e le loro vittime si svelasse come amore, finalmente universale! Così il cristo a tutti diede la possibilità di affrancarsi dal male e al dio suo la libertà dalle pretese del popolo, che si riteneva il solo suo, con i suoi interpreti, i capi religiosi, agognanti un nuova liberazione dagli attuali oppressori. Questi certo erravano ritenendosi di essere i soli ad appartenergli col popolo di loro seguaci, ma soprattutto nel voler confinare l'amore, come ad essi solo dovuto! Ma costringerlo in limiti non sarà mai possibile, perché sempre saranno angusti, quando lo si tenti arginare e così fu allora con l'illusione di popolo eletto dal dio a possedere le chiavi del suo cuore. Mentre esso non può avere confini, ma deve pensarsi un fiume che esonda, ma che non distrugge, coinvolge in uno stesso destino di salvezza, quand'anche postuma! Così il cristo non solo restituì la dignità di figli a quelli, anche indegni, del popolo suo, ma la domandò perfino per i suoi persecutori e carnefici, i romani ingiusti verso lui giusto, solo innocuo visionario ritenuto, ma che, vili, lo condannarono per opportunità politica. Solo così però permettendo al dio di aprirli alla consapevolezza del suo amore ignorato, ma che era da sempre, certo di questa universalità il solo cristo, ma anche lui solo dalla croce! E allora torna il concetto di redenzione, perché tutti giacevano nell'ignoranza, brancolanti nel buio che le credenze loro facevano nelle loro vite, ignari sia del perdono possibile per tutti, sia dell'amore garantito a tutti, indifferenti alle miserie umane gli dei, falsi e bugiardi, tranne il vero dio! Ed io sempre chiederò, anche ammutolito da quello che qui accade, a questo solo dio, Mostrami fin dove l'amore tuo può nelle mie disgrazie!
Perché ormai forse pregherò senza parole con ogni mio gesto, sperando di essere degno di incontrare la piccola Fortuna, qui venuta novello cristo, vittima della abituale violenza di un infame e gettata nel vuoto per aver tentanto di resistergli! E nessuno degli omertosi, che sapevano di tanto orrore, mai chiedere al vero dio dovrà, Dov'è l'inferno? Essi lo hanno fatto qui e un piccolo cristo vi hanno fatto ancora morire, inarticolato il grido suo!
Surrexit dominus vere!

giovedì 28 aprile 2016

La morte del cristo


Perché il cristo è dovuto morire sulla croce dell'infamia radicale, da innocente? Immaginiamo un uomo buono d'oggi, soggetto all'ingratitudine di persone irriconoscenti del bene ricevuto. È oggi tanto diversa la situazione di quella di quel lontano allora? C' è forse oggi un limite al fin dove spingersi possono i detrattori e la superficialità compiacente, o la malafede complice, quando non vigliaccheria succube, di chi presta ascolto alla calunnia? Chi ridarà a questa vittima della stessa generosità sua, che ha tentato e concretizzato il bene per chi era nella necessità, richiedente palese o muto, ma evidente bisognoso, la dignità perduta, che l'inattesa risposta ingrata ha tanto avvilita, calpestata, annientata, forse proditoriamente anche uccisa? E pensiamo a questi infami, pur aiutati a riguadagnare la dignità perduta nel bisogno, non solo incapaci di riconoscenza, ma detrattori del benefattore, senza barlume di pentimento, chi ridarà loro la dignità di uomini? Se non il perdono? E chi potrà chiederlo a chi potrà concederlo, se non lo stesso offeso che da sé lo anticipa nel cuore suo pur tanto provato? E non fece questo il cristo morente? Possono essere stati molti i delusi da lui allora, perché era atteso un messia politico, impegnato in una nuova azione del dio dei loro padri, affrancati dalla schiavitù d'Egitto dall'antico suo messo, che liberasse quel popolo dall'oppressione romana. Ma fu giustificata la ferocia con cui lo si trattò? Non era in fondo che un re solo da burla, perché di un regno assai poco credibile, di un mondo da venire, per un popolo legato alle concretezze di questa vita! Allora forse solo un sognatore, un benefattore però, un medico carismatico, ma soprattutto un innocuo predicatore di un risibile mondo di solo amore! Ma venne accusato dalla casta religiosa dominante di indurre proprio quel popolo a sentirsi libero, sebbene soggiogato, con pericolo di spegnere in esso ogni desiderio di rivalsa, nell'attesa fiduciosa di quel regno auspicato, ma improbabile, proprio a chi? Ai romani e alla loro pur vero oppressiva, ingiusta autorità! E questa quelle insistenze vessatorie e calunniose assecondò, sicuro temendo una sedizione, che forse già era paventata e opportuno si ritenne non anticiparla, provocandola con sentenza assolutoria, pur giusta! Allora pur sempre tanto ingiusta percepita dalla casta e dal suo seguito di delusi nelle aspettative loro o di beneficati ingrati, si fece giusta per solo quei mendaci accusatori e ne venne la condanna al supplizio della croce perché l'innocente fu giudicato agitatore pericoloso! E appeso a quella, morente, il cristo invocò anche per tutti loro il perdono! Per il suo popolo che si sentiva vessato e ricusato lo aveva, e quell'autorità resasi complice di un misfatto e per quelli tutti che essa rappresentava, i dominatori anche di quel mondo chiuso, come imprigionato nell'egoismo ottuso di razza privilegiata. Ecco che fece il cristo con la morte sua! Indusse il dio suo a sentirsi libero, aperto alla comprensione di tutti, diventato solo allora il dio, che a tutti dà e attende da tutti. Come? Con dover estendere a tutti, degni e indegni pure, l'amor suo, avendolo il cristo nell'abbandono a quella morte, proprio a tutti anticipato col perdono e invocato il dio suo, apparentemente indifferente a quella estrema sofferenza, di concretizzare il suo dono, affinché da allora molti di quei tutti ne sentissero l'afflato. Proprio di quell'amore non più costretto a rimanere limitato dai primi adepti, quei suoi, che avendolo avuto donato, ne godevano gelosi! Da allora nella massima sua estensione, proprio col dover perdonare tutti, gli ingrati stessi e gli altri sleali, restituendo a tutti la dignità perduta o dovuta perdere nel bisogno e nella negata riconoscenza, di uomini! Allora quel mondo tanto lontano era diviso in oppressori e oppressi, ma tutti inconsapevoli perché tali rimasti, di essere stati uniti in un solo amore, aperti a uno stesso destino, dopo quella morte! Ma è diverso oggi? È anche oggi così com'era questo mondo, diviso in gente che appena vi sta in ristrettezze e insicurezza, e quelli che anche della povertà loro vivono, ingiusti volutamente! Ecco, la storia si ripete, ma il cristo dalla sua croce ripiantata invoca ancora per tutti il perdono! E chi lo concede, ignorato, tutti affratella nell'amor suo! È perdono dal dio, ora di tutti! Quindi il cristo non morì per riscattarci dai nostri peccati, ma nonostante i nostri peccati ci ridonò e ci ridona la dignità che sempre smarriamo!

E così fa chi sa imitarlo, e chi veramente? Chi lo fa dalla sincerità del suo cuore tanto vessato, come sia fiducioso di ritrovarsi, buon ladrone, nel luogo del dio, proprio con chi l'uccide, ma che presto o tardi morirà, trasformato però, divenuto come lui si sente, dal cristo che muore ancora, anche di quella morte, di quell'abbandono! Ricordate? Questa certezza è espressa nel testamento ritrovato, dal priore della piccola comunità monastica in Algeria, annientata dai ribelli, storia vera, magistralmente ricreata nel film, Uomini di Dio! Lo studioso Nembrini ne ha ricordato la generosità fiduciosa anche recentemente nelle lezioni sue su Dante!

domenica 24 aprile 2016

Il male come residuo positivo


Bene e male sono contrapposizioni nell'animo umano, antitesi, percepite in apparente perenne lotta per prevalere e con ugual diritto ad affermarsi, con comportamento però l'uno attivo, l'altro di contrasto passivo. Infatti l'uno richiede amore, cioè intenzionalità da parte del soggetto recettivo alla necessità sua, l'altro è passività, reazione ad ogni iniziativa del primo. Il miglior paragone che ho in mente, ma che devo aver fatto altrove, è quello di un treno sulle rotaie, che consentono un minimo ostacolo al correre suo, perché l'attrito è ridotto, ma pur presente, e che perciò anche permette la corsa sua. Perché di simile fa l'amore che corre a concretizzare il bene. Ma il male perché pur deve esserci, anche sperandolo minimo o riuscendo a renderlo tale? Ho tentato altre volte una risposta, ma qui osservo anzitutto che il bene deve, per espletarsi, concretizzarsi, prima diventare amore, cioè partire da una potenzialità, che è sensibilità, “sollecitudo” per l'altrui destino e anche consapevolezza di dover agire ad ogni richiesta, sapendo anche anticipare la domanda e volerla soddisfare nonostante le opposizioni che questo mondo, impregnato di male, consente. Perciò presuppone sempre una persona che lo avverta come comando del cuore suo e lo decida opportuno, il male invece può conservarsi impersonale e agire con la semplice presenza sua, come reazione, mai del tutto eliminabile, ma questo deve avere l'importanza sua. C'è, penso, anzitutto come monito perché l'amore non creda di poter bastare a se stesso, ma ricordi sempre la fonte sua e a quella s'appelli nei momenti più bui di palese insuccesso. Ma quale questa fonte? Ecco, noi chiamiamo dio chi ha la consapevolezza di tutto il bene possibile e che, comprendendolo nella totalità sua, ne deve essere il generatore, oltre che il promotore, essendo amore per tutti e tutto. Infatti può frammentare il bene ed egli stesso ripartirsi, adattarsi, particolarizzarsi in tutti quelli che incarnano la volontà sua, una volontà d'amore. Dal momento che avere il possesso del bene è anche volontà di attuarlo! Sembrerebbe allora che il male sia dal dio permesso affinché nelle realizzazioni del bene se ne riceva sempre contrasto e si diventi consapevoli della differenza tra quello che si cerca di attuare e quello che ad esso si oppone, quindi della sua opportunità di esserci, fino a una minima, ma irrinunciabile sua presenza. Sì, ma significa più ancora questa necessità d'un suo residuo, grande o piccolo che sia? La consapevolezza di volere il bene, cioè di potere e dovere amare, richiede la comprensione di quello che è il dovuto all'altro, ma più ancora la previsione di ciò che sarebbe di lui altrimenti, cioè deve confrontarsi con la carenza o assenza di bene nel bisognoso e con quello che ne sarebbe, la probabile disperazione sua, il male prevalendo. Perciò anche coscienza di essere già nel bene per se stessi anche, appena lo si desidera per l'altro, spinti da amore. Allora così operando, anzitutto si sa che è il bene, che si vorrebbe affermato, è un agognato di cui il mondo tutto o il particolare soggetto, interessato all'attenzione, al momento è carente o del tutto privo, inoltre chi lo promuove ha coscienza del sentimento in lui che lo permette, cioè sa di possedere uno stimolo irrinunciabile, un pungolo che gli dice il da fare e il doverlo fare, l'amore appunto e questo correre lo fa perché sente di far parte di quel bene. Ma allora il male permesso che è, e ripeto, perché c'è un minimo suo che rimane? Anzitutto è proprio mancanza d'amore, il non riconoscere la necessità degli altri e volere il bene per sé solo, cioè è egoismo. Quindi nella consapevolezza sua è proprio dell'uomo, che ben altra risposta dovrebbe alle sollecitazioni che gli vengono dai suoi simili e dal suo ambiente, cioè dagli altri viventi e dalle cose che a loro fanno supporto di vita. Ma poi che altro ancora! Il male ha in sé una caratteristica allarmante, cioè quando non ha contrasto, quando agisce nelle premesse, che la malvagità diffusa ad esso prepara e indirizza, non si ferma ai danni suoi immediati, ma ne evoca altri, cioè diventa eccessivo, come se alla volontà di nuocere primitiva, altra se ne aggiunga ad esaltarla. Ecco che il mondo con le ostilità sue appare più tetro ancora, come vi corresse una volontà malefica a render peggiore ogni occasione offerta dalla umana malvagità di concretizzarsi. Proprio per questa intrinseca caratteristica, chi offesa riceva o insulto, non dovrebbe imboccare la via della rivalsa, ma subito accrescere il bene che fa la ricchezza e la bellezza dell'animo suo col perdono. Insomma il male può essere anche occasione di incrementare quello che di prezioso dentro si ha, l'amore, cioè ha una positività! E per essere capito deve restare, un po', quanto basta che accada come se nel buio che tutt'intorno fa, desti anche un barlume, e consenta che, saputo apprezzare, diventi vivida luce in animo recettivo. Questa particolarità è sorprendente. La rinuncia ad evocarlo nella rivalsa aggiunge al bene, che già si possiede, dono del dio, altro del suo ancora! La fonte prima del bene, il dio, non ha simile necessità, ché già il posseduto suo è tutto il bene possibile, ma se il perdono non aggiunge a lui altro bene, è esigenza della giustizia sua. Perché tutti siamo vittime del male, i mancanti cronici d'amore e gli occasionali, ma anche chi fa dell'amore una necessità vitale, al pari dell'aria e il cibo, che al corpo servono. Il male infatti c'è ed è sempre prevaricante, cioè esonda ed è per questo che tutti, anche i veri solleciti facitori di bene, da esso sono lordati, e perdonati dovranno essere come noi altri tutti, poco o molto, ma sempre tanto per chi soffra della rinuncia, che codardia ha permesso anche in lontano passato e che tutto il bene ulteriore realizzato, non è servito a tacitarne la coscienza! Allora c'è proprio una minima positività intrinseca al male, che anche al cuore amante fa sentire la necessità di chiedere perdono, perché appunto l'amore non può bastare nemmeno a se stessi. Ma anche lascia comprendere perché una presenza pur minima è bene resti. Perché il male, capito in tutte le eccessive conseguenze sue, può e deve indurre oltre che a chiedere perdono per insufficienza d'amore attuato, a concederlo, o a tentarlo almeno in onestà, sperando che, compreso nella sua necessità, dia il frutto suo. Quello della pace all'offensore perdonato e all'offeso, dapprima tentato di rivalsa, per la malevola risposta ottenuta alla tentata sua azione di bene, senz'altro equivocata, ma poi illuminato dalla fonte dell'amor suo. E il perdono fa la giustizia del dio, che ai reprobi pure, gli apparenti senza speranza di riscatto, s'estende! Allora il male, il residuo suo, modico solo nei virtuosi, tali giudicati nello sforzo generoso che detta loro l'amore, fa capire come sia necessità il dover chiedere perdono alla giustizia del dio, ma anche permette di attivamente parteciparvi! Io sono giusto con te, fratello, nella misura sì del bene tentato, ma anche della non risposta all'ingratitudine tua!

mercoledì 13 aprile 2016

Parlare ancora del dio


Talvolta nel mio sito di Facebook anche mi capita di dover dire qualcosa, che spero aiuti perché vero sincero, a un amico che abbia perso la fede. Qui riprendo quei cenni, che spero siano spunti di riflessione per quelli che qui mi seguono. Parlerò ancora del dio, ma con approccio diverso al problema suo. Anzitutto è bene interrogarsi subito su che sia l'aldilà o mondo delle anime. Penso che non sia un posto da raggiungere, ma un modo di essere, uno stato, che qui cercherò di precisare meglio, da conseguire. Intanto nel parlare di un tal mondo, includiamo non l'idea del semplice trovarsi con altri, il che già qui accade, per simpatia o affinità o empatia e altro, ma il ben ritrovarsi per uno scopo irrinunciabile! Intanto mi chiedo, Che è l'anima? Contentiamoci di pensarla come lo psichismo, o complesso di doti connaturate non solo atte ad elaborare e ritenere cognizioni, ma anche condizionanti il comportamento del sé in questo mondo brulicante di esseri, tutti con apparenti esclusive necessità di vita, quindi cose tutte che fanno la persona. Cerchiamo di rispondere a questo, Perché si può credere che un suo modo di stare in concordia con entità simili, essa possa ottenere e quale appunto ne è lo scopo? Partiamo dall'innegabile esistenza di qualcosa dentro, senz'altro sua espressione, che chiamiamo coscienza, che spinge a rivedere i propri accaduti, a criticarli e a concludere che sarebbe stato possibile far meglio, agendo diversamente. È un modo di tentare di riaggiustare il proprio passato, sì, tentativo di renderlo più consono alla persona che si è diventati, trascorso anche molto tempo da quegli eventi lontani. Ecco, nel ricordo vivido, le cose stanno lì dove lasciate, insieme a volti che possiamo toccare, sebbene non materialmente, carezzare se cari, quelle loro parole riascoltare, suadenti o dure, pregne anche oggi di significato o inezie allora come oggi, ma nulla si può vero mutare. Ma supponiamo una stessa revisione comune a più soggetti, cioè che più di uno possa comunicare il suo resoconto di uno stesso fatto, di uno stesso accaduto, che sia stato esperienza comune a più persone. Se ne avranno interpretazioni diverse e forse una concorderà meglio di altre con il proprio desiderio di scusare, perdonare, un po' almeno, il proprio operato, causa oggi di tanti ripensamenti! Allora facciamo un passo ulteriore, pensiamo queste diverse interpretazioni possibili in uno stesso soggetto e che sia consentito chiedergli di farci rivivere quella antica vicenda, a nostro giudizio riprovevole per deficienza o malevolo comportamento, sotto una luce diversa, che ci liberi la coscienza del peso suo, come lui può, anche solo un po'. Se ci aspettiamo da lui l'interpretazione più consona al nostro sentire attuale, meglio aderente al desiderio che pace giustificata ne venga, quindi un bene per noi, questo qualcuno va da noi pensato come fonte di bene. Ma noi, che avvertiamo questa esigenza, siamo tra tanti che ne hanno di analoga, quella di riconciliarsi col passato e se per noi è possibile una fonte del bene, quella stessa lo è per molti altri. Ma il bene desiderato da noi, e analoghi saranno quei beni da altri agognati, non è che uno tra i possibili, ma che forse altri, vicini o lontani, hanno già. Allora la fonte cercata è il pool dei beni che molti come noi agognano, ma che altri già posseggono, senza però condividerli. Ne viene che il mondo delle anime è pensabile come comunione di ogni posseduto, cioè condivisione, qui e ora mancante, e ci deve essere un che, un chi ne sia motivazione e supporto, lo stesso ipotizzato avere in sé ogni bene condivisibile, vero, ma solo in quel mondo, scambiato, qui e ora no per egoismo. Allora occorre chiedersi come da quella fonte sia possibile anticiparlo, struggente il desiderio suo! Lo otterremo forse solo manifestandogli il nostro rincrescimento, il nostro cruccio, il nostro disagio, che si è fatto sofferenza e promettendogli la condivisione della pace, se raggiunta. Perciò in un solo modo, chiedendo a quel tu, per-dono, cioè di darci più ancora, oltre il dono di rivedere quei fatti diversamente. E che? La convinzione di un rimedio postumo possibile! E' chiaro che chiameremo dio chi è capace di darci questa incredibile possibilità! Ma anche che stiamo qui vivendo solo una speranza, quella di incontrarlo. Quando? Non ha molta importanza, noi qui dobbiamo continuare a vivere, sopravvivere al passato e la speranza permessa, donata, significa libertà dalla sua oppressione. Siamo liberi nella misura di questa speranza, e in essa c'è la pace da condividere! Il dio è chi dà pace! E ciò che lui dona è come provvida goccia d'olio, che esperto marinaio lasci cadere su procelloso mare, essa si spande e l'iroso vento più non s'appiglia sulla superficie dell'onda e più non la increspa a beneficio di tutti quelli che lo sperduto combattuto veliero coabitano! Ma aver fede in lui è più ancora, certezza in questa speranza, nonostante ogni preghiera resti senza risposta per quanto accorata!