mercoledì 30 maggio 2012

Ansia del futuro

Tu la vita sei e ovunque tu vada la difendi e diffondi e mi piace immaginare che se tu qui i passi avviassi per il selciato di questo stradello che da qui su sale, dalle tue orme verrebbero erbette tenere e fiorellini di campo e che se su questo cespuglio, or già spoglio, indugiassi lo sguardo, questo foglioline novelle rigenererebbe d’incanto e ne spunterebbero fiori, quelli belli del cisto bianco e gli ancora più grandi fucsia a far la mia meraviglia, sempre disposto all’incanto. E io non so meglio definire queste conseguenze della presenza tua, che come miracolo d’amore e te stessa come amore, anzi amore dell’amore, il mio. Sono queste le mie parole per te d’ostinato corteggiamento, prologo al tuo amore agognato, e come il merlo fa di sé desiderio dell’uva matura, mi faccio tutto di te. E ora m’aspetto che tu venga, illuso amante, che crede che i forse della donna sua, sì di certezza significhino. Credo però che alcuno vada da chi sa che per esso poca stima quello abbia e accoglierlo non potrebbe con cordialità desiderata. Ma tu sai quanta premura da schietto amante affettuoso avrei per te e che mi struggo dalla nostalgia il cuore. Ecco se vieni qui bambina, sono bambino con te. Se vaga adolescente dai sogni grandi, io lo sono in quelli. Ma se vieni qui matura con qualche filo bianco tra i neri tuoi capelli e una rughetta appena sul candido viso, ti accoglierò qual sono, tutti i miei bianchi e radi e rughe tante sul mio, invecchiato d’anni e d’attesa di te, mio agognato bene. E se questo vero accadesse molte cose da dirti avrei, ché non solo scambieremmo i sogni avuti già bambini e giovinetti, ma le illusioni e le amarezze da adulti di una vita tutta spesa a cercarci. Sì, ho questa speranza segreta di incontro imminente, celata finora in questo vecchio bizzarro cuore e nella preghiera evito di dirti le mie parole, le sue segrete, quelle che allora ti direi, e prediligo quella formale nella lingua sacra in cui le parole significative hanno pure un suono fascinoso. Ti piacciono o, assetata di me, le tante delle lamentele mie preferisci? Ma per queste dovrai venire!
Sono quelle che solo possono dirsi all’altro de visu, da cuore a cuore. Sai che t’aprirò l’anima come vecchi amici fanno, che hanno da condividere vecchie storie d’attesa e solitudine avendoli la vita strana fino allora privati di reciproco conforto. Allora ti prego di non passare di sfuggita come veruna simpatia avessi per i miei goffi tentativi di dir favole apologetiche sulla fede a far meraviglia di immaginari uditori femmina della nostra storia. Né venire in forma inapparente, come fa questa brezza dal mare, viene , carezza volti e fiori e va, e non la puoi vedere. Ecco, agogno sì le tue carezze, ma solo la parola amore dirti potrei a quella frettolosa visita! Ma forse è molto, è tutto questa parola! Troppe parole ho in anni affidato a vento pietoso che le portasse alle tue orecchie attente alle ansie mie. Ma se questo deve essere, che tu venga poco o per nulla vista, fa che accada con la compagna dolce presente, ché qui talora or m’accompagna gelosa un po’ delle tante amiche che qui dico di avere , magnificando i miei brevi rispettosi incontri con le donne di qui. E oso sognare come ci accadrebbe... Ecco vento fa l’ala tua su i nostri visi inebriati dal tuo odore. E’ frescura questa, ma pure le nostre vite arresta come sol gelo farebbe, ché tu venuta a prenderci sei. Ecco, tu la vita, eppure ora angelo della morte! A meno che non di morte si tratti ma di trapasso di vita altrove. Sì, una morte non morte! E ora sonno d’assopimento ci prende e gli occhi fan delle palpebre solecchio alla tua luce. E guardo la compagna e le sorrido ché non si impauri e quella ne resta rassicurata, ma a me stretta vuol stare. Sa come me che quest’ultimo vissuto è un tuo dono, è amore ancora. Sì, stanchi siamo del viaggio e ci inviti a un riposo dolce. E’ un trapasso d’ombra. Ora la gettiamo come al tramonto su questo prato, ma ecco già in quello dei cieli quella s’estende. E vero è tramonto per noi ma, le dico, è già aurora! Il nostro mattino! E ancora, ascolta, s’allontana per noi il frastuono delle ore, lasciami udirti pronunciare dolce il mio nome, io ripeto e ripeto il dolcissimo tuo, un mio modo di chiamar la bella signora del tempo, qui in veste di luce. Non vedi la sua forma gentile venirci incontro, donna fascinosa? Ella è tutta un velo d’alabastro e non ne vediamo che confusa trasparenza e vi rosseggia un fuoco, è il suo cuore, il suo per noi due soli!
Ecco sol questo le direi in quel colloquio lungo e breve per rassicurarla e invitarla a fidarsi a lasciarsi andare per ritrovarci, lì tra le stelle, ché saresti venuta per coglierci e l’ansia del futuro convertire nell’alba radiosa che inonda i giardini tuoi che fiori ci attendono! Ecco queste le mie parole per lei, per te, son solo fonemi ormai ma di favole, favole per donne come la mia, piccole innamorate dei maschi loro,e mi chiedo, sono inutile orpello o davvero garantite come d’oro siano, ché vero piaciute alla fata che sempre vi fa capolino?

domenica 27 maggio 2012

Sogno divino

Ecco, qui tante le essenze ormai che trasformato hanno i fiori loro ed essi sono divenuti soffioni che alito aspettano o l’urto di passante distratto per venir portati lontano come capolini piumati
a far nuovi fiori, quando questo tempo di sogno ancora sarà. Oppure baccelli son divenuti verdi ancora, ma che presto maturi saranno e s’apriranno e ne verranno semi pesanti, caduchi, che subito avida la terra accoglierà, o pur’essi alati, la brezza porterà e cullerà prima che si depositino per germinare a dar piantine novelle alla stagione bella. Ma dal travaglio della terra pregna di vita, anche fiori bianchi spunteranno, che giocondi s’apriranno a profumar tutta questa via, se allora ancora percorrerla potrò. Così l’anima mia dal travaglio di questo dolore, qui diffuso, si leverà sbiancata dalla nostalgia di te. Sì, dallo scuro di qui alla luce tua e qual fiore bianco s’abbellirà e palpiterà amore per te sola, aspettando ai passi tuoi lenti, il fruscio della tua veste tra quelle cose belle. E soffermarti or qui or lì ti vedrà e sorridere ai nuovi arrivi e pronta delle residue lacrime asciugare anche il ricordo, e ai nuovi trapianti il pianto amaro confortare dell’anime più provate. Ma, mi chiedo, quel seme che in quel fiore germoglierà di che si nutre nella terra nera? Ecco, mi rispondo, la fede è del piccolo seme il cibo, l’humus, quando caduto e scopertosi bambinetto in questo dolore tutto scuro, saranno le parole di amorose compagne a trasmetterla. Prima quelle della madre cara, poi della femmina dolce che i palpiti condividerà con la sorte di quell’uomo ormai divenuto. E qui non risposte ai tanti perché, tanto di brutto accade, sì, molte dolorose sorprese, pochi aiuti o conforti e buio, tanto buio! Sì, qui nel vanire del tempo alcuna gioia vi può durare seppure s’affacci ad assetato cuore, ché qui tu non sei, ma altrove, di là dal tempo che lì tace, avremo la perfetta letizia d’essere con te, mentre è ora tanta l’amarezza da dover invidiare le cose senza vita che apparente dolore non possono avere! Ma qui invero sono cose belle, ma poche. V’è la fresca giocondità della giovinezza, le dolci illusioni che l’accompagnano e la gioia casta dei primi approcci d’amore, poi, nelle epoche mature, la serenità dello star con amici in dolci conversari e ...più nulla! Piuttosto affanno e tanto e l’assurdo delle perdite d’affetti, la solitudine degli abbandoni e le parole cattive che fan la contumelia di chi prevarica da quel potere, che sorte immeritevole gli ha dato. Ma quello che più angoscia è sapersi dentro al cuore forze opposte, bene e male, che lottano a contendersi il possesso dell’anima e il cibo suo, e l’aria e la luce, sì, lottano per il nostro respiro e la vista che ha la pupilla! E poi la morte e forse il nulla! Ecco la vita, corre al nulla, a quel nulla! Ma nei sogni del sonno i nostri vissuti non solo lì sono reali, ma pur abbiamo l’illusione che molto tempo vi trascorriamo, ché i pochi minuti effettivi allora paiono ore o giorni addirittura! E so dai miei studi che qualcosa di simile ci accade, la mente sapendo di morire. Essa libera di colpo tutti quei mediatori del benessere di cui è assai parca nella vita tutta, per darci l’estrema illusione di bene , buono, bello. E quest’estremo sogno quanto durerà? Minuti effettivi da parer giorni, anni, secoli forse. E sarà tutta l’eternità? E là, in quel sogno agonico, la mia fantasia accesa ti vedrà, abito bianco indossare, dolci fattezze femminili, occhi azzurri e capelli neri, sì ti costruirà bel fantasma femmina di quel sogno per vivere l’illusione dell’eternità con te! Ma ora mi chiedo, se è innegabile che questo a me accadrà, non t’è avvenuto di simile quando questa vita hai lasciato, al tempo della tua venuta col figlio tuo tra noi? E di più fantastico. Non è questa nostra realtà da noi ora vissuta, quel tuo sogno estremo? Stai sognando e noi viviamo nel tuo sogno e siamo il tuo sogno! E ci vedi in angustie e miserie, ecco questo non è un tuo sogno piacevole! Ma le tue non possono essere allucinazioni agoniche, tu non muori, non lo puoi, il dio sei! Dormi, sogni! Svegliati allora! E se davvero questo, che ti sollecito, accadrà, come a noi che, sognando da un incubo oppressi o che persona cara coinvolga, ce ne destiamo non tollerandolo più, noi, esondati dal quel tuo sogno, volontariamente interrotto, non moriremo con esso, tanto amati ci hai in quello. Ma, via l’angoscia che t’ha oppresso, il cuore più rigoglio avrà e traboccherà dall’intimo tuo la gioia di cui vivi e noi siamo la tua letizia, tanto ci ami! Sì, noi, coagulati nell’essere, parte del tuo mondo diverremo con gli angeli tuoi belli e le stelle tue fascinose, di cui ridi, ecco saremo il tuo sorriso! Sì, tu solo sei, in quanto sei, ogni altra realtà è apparenza, è transeunte, s’estinguerà o si muterà nella tua, la sola possibile, e accadrà al tuo risveglio! E tu sposa del fiore che lì fiorirà, anima mia di qui, sarai! Ma ecco, ho qui tra le braccia chi condivide questa speranza ardita, lasciamela amare, bel fiorellino del prato tuo divenuto! Si amaci tutt’e due, ché noi ci amiamo, te amando!

giovedì 24 maggio 2012

Amor dentro e fuori

Qui la natura è tutto un sospiro e vi par l’innocenza sola sorridere e che vi rigogli il solo bene. Ma forse è solo illusione se te qui non avverto, dolce speranza mia e dell’amor mio! E se qui tutto par s’ordini finalizzandosi a uno scopo, e tutto par balzi festoso incontro, certo significa vita nuova, che qui erompere vuole tra le essenze novelle e il profumo loro, che vi dominano più che altrove in questo tempo tutto felice. E qui l’anima s’apre e impenna l’ali sue e spaziar vuole e inazzurrarsi per raggiungerti, fattasi bella, come travasata sia in lei questa bellezza d’erbe e foglie tenerelle e fiori variopinti. E or ha l’illusione di poterlo fare spaziando per i cieli e il tempo interminati, ché se qui non sei, sei pur stata o vi sarai e se non qui, là, oltre, altrove o sopra il cielo e le stelle sue addirittura, ché coagulata sei col figlio tuo in un tempo lontano tra noi, gente ria. Sì, può averla questa illusione perché mi palpita il cuore nel ritmo riconsacrato dell’amore e l’amore veder vorrebbe e toccare e dire le parole sue più belle all’altro, suo bene! E vero mi respira quest’anima luce di cento colori di cui s’inebria deliziata la pupilla e cento e cento note di canti d’amore fanno di simile che l’orecchio accorto prenda, or qui or lì. E’ il contagio del posto in questo tempo! Oh quanto vorrei fosse con me l’amor mio piccolo e tenero, ché vibrasse palpito per palpito all’unisono con questo mio umile cuore! E con lei pronunciare casti il nome tuo vero, che solo a creature tornate bambine può questa natura aulente e canora suggerire, e veder insieme come ad esso s’inchini l’universo tutto, innamorato di te senza neppure vederti. Oh nome adorato con cui sempre conchiudere dovremmo la preghiera nostra accorata, oh qui balbettio di labbra solo umane che pur ardono d’amore che attende sospiroso d’eternarsi, oh qui gemito di cuori imprigionati dalla scorza pesante della carne, di cui vorrebbero privarsi! Vieni unica consolatrice, unica speranza, solo vero amore, l’anima mia mistica si liquefa estasiata  già al solo aver sulle labbra il tuo nome convenzionale, ché ancora non sa quello che gli angeli tuoi belli non osano dire per riservarlo a chi fioco s’è fatto per il troppo gridare o tacere, qui nella valle delle tante lacrime, dove senza te non so più campare d’amore. Ecco a breve tornerò al piccolo amore, la stella tua che s’è lasciata prendere, femmina coagulandosi tra le mie braccia, ma già precorrere posso la distanza che ci separa, ché so che a me pensa e se pensiamo l’uno all’altra, certo innalziamo a te i cuori nostri che abbracciarsi possono così nel loro afflato, liberandosi da queste scorie di peccato che trattenerli vogliono a questo fondo invero buio pur quando v’è molta luce e pur languido anche nella bellezza sua splendida. Allora tu ora non prendermi da solo, fa che l’umanità nostra possa sublimarsi insieme, invocandoti in impeto di fede, come unica vero speciosa tra queste cose belle, e fiorisca a noi il miracolo di morire senza morte, ché per piccola ora pur essa ci separerebbe! Invece se vero è che il tuo nome tradotto abbiamo nelle cento e cento parole del nostro amore, prendici e portaci dove vero sorrida l’innocenza e la verità rispenda e la giustizia rigogli col bene, senza illusione, troppe qui l’anima ha dovuto tanto amare gustare in una vita scema di te spesa quasi in solitudine e silenzio. Non fanno cacofonia qui grossolanità ed egoismo frenati? Tu sola in questa gioia di qui, in questo piccolo mondo esentato, fai teneri sospiri, tu sola nel dolore di sempre, dolce bussi a cuore provato! Sì dicci il tuo nome vero, o lascia lo dicano queste cose belle tutte di primavera e che mai ci saziamo di ripeterlo, nome di vittoria sulla nostra malattia, sulla follia e sulla morte, nome che rifonda la nostra vita e il nostro amore eterna. Lasciacelo pronunciare in umiltà e tremore da sentircelo lampeggiare già dentro prima che raggiunga queste labbra arse da sete di te, lascia che l’avvertirti amore, presente dentro al cuore e fuori, sia la più meravigliosa delle scoperte, sì lasciati vedere come solo gli angeli possono!

martedì 22 maggio 2012

La pace

Qui oggi profumo di primavera, ma colori più tenui, velati, scialbi sotto a cielo grigio di nubi alte. Piccolo uomo mi sento, come con anima senz’ali... e dire che bisogno essa avrebbe di elevarsi oltre le nubi e vestirsi d’azzurro, tuo conforto! Più breve, credo sarà questa passeggiata per la pioggia temuta, ma vi cercherò ancora la pace. Qui c’è freschezza di brezza dal mare e musicalità, ché cento cantori per nulla inibiti dal cielo a cappa scura, frenetici sono nello sciorinar note e note, a far delizia di compagne certo attente nelle scelte loro, che immagino, vogliano vagliar nota da nota, anche se tutte significano amore. E io mi soffermo, rapito nell’ascolto, ma il cielo plumbeo mi spezza l’incanto e fa che ricordi che giorno speciale è, e invita al cordoglio per lo strazio di giovani vite or ora perdute o ferite. E ora questa pace sento divenirmi quasi acquiescenza passiva alla morte, pur in mezzo a questa festosità di vita. Ma m’accade di più. Di questa gioia tanto diffusa ora cosa sento? Poiché qui indugio, il mio tempo spendendo sterile, senza nemmeno che preghiera mi venga spontanea dal cuore, io me ne sento quasi responsabile, anzi colpevole che essa possa essere nonostante e io ne sia parte! Ecco, mi dico, il vento impetuoso, nuovo e antico, del terrore è daccapo tra noi, qualcuno l’ha evocato con perfidia, forse l’occhiuta vita mala in una nostra città, ma altrove la natura matrigna. Quello ha scompigliato e preteso le vittime sue. Eppure i più tra noi sembrano non turbarsene, se non lì le accorate compagne della giovane vita presa, altrove quelle impaurite genti che il terremoto ha sconvolto di terrore. Ma altri quasi vivessero in una profondità, che fa sì apparente niente li tocchi, continuano presi dagli assillanti problemi del loro quotidiano e altri ancora, che di assimilare mi viene a questi cantori spensierati, privi di cure stanno nella pace dell’ignavia, incoronata da stupenda artificiosa leggiadria, che sempre si crea intorno al potere e al denaro. Ma è proprio così l’umanità che qualcuno ha seminato e tollera, che più ha del loglio che del buon grano. E io che sono? Son qui fannullone nella ignavia mia, da vecchio a cercar pace! Ma con la mente altrove or sono e il fervore di gioia, l’impeto d’amore dei cento cantori non mi tocca, e mi scivolano dall’attenzione anche cento e cento cose innamorate, di cui pur tenerezza avrei, e se lenta qualcuna s’avvia e dolce alla preghiera compassionevole per me, ebbene io non ne ho sentore. Sì, scura e triste l’anima s’è fatta da sentirsi colpevole da nemmeno saper più di che, tanto è confusa, ma sicuro di non più saper dire le parole belle delle mie preghiere latine che più ricordare non so. Sì, tanto è essa arida sotto questo grigiore da sentirsene prigioniera! Ma questa luce soffusa tra le cime di tremuli rami che fan galleria in questo stradello, strano or mi rasserena il cuore! E io mi riapro alla speranza e sento di poter con te collaborare, tu a infondermi e a donarmi la fede, che l’assurdo di qui mi faccia superare, io ad accettarne il travaglio con devozione e passione. E allora forse dalle labbra tue divine mi verrà la vera pace, con un sospiro tuo o respiro o parola, sì, la certezza di essere stato qui per uno scopo, di aver lottato tenace ché bene ne venisse per tutti e quella di farmi accettare senza rammarico, scemate le forze, di aver pur perduto... Ma se niente è vero inutile, forse a piccola fiamma di vita trascorsa disperatamente, seconderà incendio d’amore, se tu proprio, amorevole, lo rincalzi e alimenti e vi soffierai su, se brace sopita, come forse ora è, esso vorrà farsi! Solo così mi sentirò di poter gioire, degno divenuto, del dolce sorriso, con cui la piccola icona tua sempre vuol significarmi amore, e sentirmelo dentro fin alle ossa. Sì, quest’amore che sempre in tante paure e sconfitte mi ha ripetuto, ma tu hai me! Sic, e noi due abbiamo te! Allora forse queste ali son solo anchilosate, non spezzate e pur verrai, sole divino, a riscaldarmele e a scioglierle. Sì, s’aprirà il cielo e tu giù guarderai a noi, agli sconfitti, agli accorati, a chi or piange sotto a scuro cielo e ne darai conforto!

sabato 19 maggio 2012

La porta

Ecco è qui la primavera dai cento colori, tante le sfumature di verde, giallo, bianco e d’azzurro, nel chinale e nel cielo suo, alla svolta dello stradello che sale, sotto a generoso sole. E poi cento suoni e brusii a far delizia dell’udito accorto, come quelli fan della vista. Ma di pari animo predisposto occorre a sorbir la varietà che incolora la vista di sotto del mare con gli scintillii suoi ad orto dove sulle onde tremolanti getta luce il giorno e chiazze più chiare o scure d’azzurro ad occaso, come la brezza dolce cala e fa carezza o cade stanca cessando, alla superficie sua e poi il vago da qui rumoreggiar di onde alle falesie. E’ come se conquistar io debba ciò che fa incanto col soffermarmi ai particolari or qui or lì con lo sguardo avido e con l’orecchio, che vagliare debba attento, or questo or quel suono, che a lasciarsi deliziar l’udito inviti. Anzi di più, è come se crear debba questo mondo di luce e di pace dai cento colori e suoni adattandomi a una lente e a un amplificatore di suono, come certo è l’ascoltare e l’osservare con rispetto e amore le cose minime e i brusii loro, altrimenti inosservati. E se tale è l’anima, se di questo è capace, predisponendosi a lasciarsi effondere di luce e suoni, forse rispecchia il vero. Quello che è oltre queste tante voci, parole certo, anche se non umane, e colori, con cui le cose parlano per canti o brusii o sfavillar di fiori e farfalle e con visione di uccelli roteanti nell’azzurro, rondini, gabbiani, taccole perfino e i tanti lì nel folto, che richiami lanciano d’amore alle compagne loro. Sì sentore v’è che di messaggio si tratti a chi qui si soffermi in silenzio rispettoso e ascolti e noti. E nessun altro atteggiamento è possibile per cogliere questa gioconda festosità di cui si rischia non accorgersi, se frettolosi si è o con la mente altrove, tanto discreta è e pacata, ché ogni altro è superficialità distratta, veder corto e confuso, e non udir che stonature e rumori! Sì, è ottusità il negarsi la bellezza, è animo da spilorci, che negano a sé il degno e il buono se c’è un costo, e qui è la pazienza di sostare attenti e rispettosi, quando in un giorno così la vita tutta par sciorinata per goderne di intima gioia. Ma altri al dubbio inviterebbe, dicendo che tutto è apparenza, interpretazione, e che ciò facile accade quando l’animo si sente buono e sereno. Il vero, direbbe ancora, è diverso, sta sotto le cose, le apparenze vestite di nuovo in questo tempo speciale e che i brusii e le cento note, che pur fanno colore, non tutti son d’amore! E sia, c’è anche il dolore! Ma allora da dove, da che o chi mi viene l’interpretazione, proprio questa che tutto mi mostra bello e buono, io non sono nulla, perché qualcosa sembra nata or ora per la mia sola meraviglia? Perché gli occhi vogliono farsi più grandi e acuti e le orecchie più sensibili per sorbir tanta generosità da questa aulente natura? Che o chi versa di continuo stille di luce e di suoni nell’animo mio e ne fa miracolo? Questo invece vorrebbe cedere a pensosa malinconia credendo che vero è, il bello e il buono nascono da un sostrato di brutto e di male, e che pure ora creature soffrono e muoiono. Invece dalle cose tutte un invito mi viene a credere che l’inesauribile bontà pur ci sia fuori dell’anima che la recepisce, e la traduce come bellezza e che vederla dappertutto non è guardare nell’illusione, ma vero nel profondo le cose, recepirne il vero significato. Sì,tutte le cose qui gridano di non rinunciare alla bellezza, ché tutto il resto è da negligere, non importante, non essenziale, non vitale per l’anima che si nutre d’essa. Nient’altro v’è, rinunciando alla bellezza, se non allora il nulla dell’appena poi, dell’appena oltre, e il gridare nostro al non senso del tutto senza che ne venga risposta. Solo la bellezza significa qualcosa e ci fa postulare un luogo, che non è un posto, è una condizione, un modo d’essere, quello del solo bene! Sì, questa primavera tutta bella, che lenta, calma parla a chi l’intenda, suggerir vuole la speranza della luce e del bene e la pazienza di aspettarli. Ché dice che quello che qui balena sia come una porta, che accedere faccia a un mondo tutto nuovo, arcano, misterioso quello del solo bene e del solo amore e che un chi ci sia, dio chiamato, che li garantisca e ci corra incontro. Sì, qui tutto l’altro, tutto l’oltre è follia e criminosa, ché crimine è distruggere la bellezza, di chi vede e non la recepisce, non vi si sofferma, passa oltre, la crede illusione, vaghezza, e certezza la sola volgarità del mondo suo concreto e brutto, ché è questo che molti uomini fanno, chiudere a sé e agli altri la porta della luce e del bene preferendo rimanere nel buio della stupida malvagità. Oh quando passerà questo lungo triste peregrinare qui?Sì, tra tanti ottusi, che chiudono gli occhi e si tappano le orecchie a tanto incanto, qui in questo mondo della incomprensione e della solitudine e delle braccia mie vuote di te, bella signora della primavera, tu che mi ami per chi mi ama e che amo, questa piccola donna amando! Ma al fine ti vedrò negli asfodeli tuoi campi, bianco vestita, neri i capelli e gli occhi azzurri come il tuo cielo, ridere eterna primavera! Sì, corrimi incontro, tu che del dio sei l’amore!

mercoledì 16 maggio 2012

Buio un po' nel cuore

Ecco venuto sono al santuario e l’umanità mia pare già ombra del nulla in questa penombra,nel  silenzio e solitudine. L’icona tua è lì triste, muta nella nicchia sua, vaghi gli occhi, non cenni per me. Ecco devo uscire, cercare più luce per una preghiera efficace e per lo stradello che mena al monte mi incammino. Ma uggioso è di nuovo il tempo, corrono nuvole pur buie su uno sfondo tutto grigio, dal mare vanno a infittire di scuro le cime dei nostri monti. Verrà la pioggia o il sole? Verrai tu alle parole mie? Qui primavera! Ma daccapo sono ai pensieri miei e stanchi ho già occhi come ora vi sia troppa luce e, benché mattino, pigra è la mente, depressa e forse dirmi vuole, ma che? Ecco, forse m’annuncia che la tenebra scura la sorprenderà a breve, ché già minacciosa le pare. E ti chiedo, che ne sarà di me? Chi per me ti chiederà la luce? Chi per me ancora pretenderà la vita? Chi s’appellerà accorato alla generosità tua ché tu mi prenda con te? Lo potrà forse quella madre che qui avevo nell’amore? Ma che fatto ho di questa vita, di questo suo dono? Ella forse non potrà posar su di me gli occhi suoi santi senza rossore! Ho poggiato a vette abbaglianti, o mi sono immelmato e rimasto alle bassure anche morali? Che sbaglio, che tradimento, che sciupio della tua benevolenza, alla quale ella credeva di avermi generato ché ne godessi, nella semplicità della fede sua! Oh quel sorriso! Lo vedrò ancora? E anche m’è accaduto che donna buona a me abbia teso le braccia, il tuo calore anticipandomi e ché non scordassi quello della madre, che vero credo, da te m’aspetti ora ansiosa. E io? Che sbaglio ancora, che tradimento! Sì ho distratto per piccola ora gli occhi miei dai suoi belli. Ché sono i tuoi stessi, se è vero che tuo specchio ella è o di più, ché tu mi guardi dolcissima proprio per quelli. Ma non è dono l’amore e oblio? Così ella mi dice che scorderà la mia distrazione, ma io vi dovrò aggiungere la mia stupidità per non averla sempre capita e la follia di averla trascurata. Ecco ella forse, ultimo suo dono, potrà chiedere per me, e che? Che tu ci sollevi il cuore da poterci amare ancora là dove sei e quale la forma che ci destinerai! Oserà troppo per me immeritevole? Ma noi siamo insieme da sempre, potremmo scordarci l’uno dell’altra anche se fiorellini divenuti nel tuo bel giardino? Ecco, se vero è che l’umanità mia ho spesso invilita, la sua così proprio spererà, efficace forse, per tutti e due. Candida è rimasta nonostante la presenza mia, dubbi tanti, angosce, noia contagiosa e cos’altro è stata? Tristezza anche e spesso, e parole vane, sceme, da darle poca o nulla gioia e da farmi pensare che ben altri meritasse. Ma là dove sei non sarò io diverso? Via le ubbie, via le fisime e il male che m’ha angosciato, lontane o mutate le persone cattive della mia vita. Sì, sarà amore senza più ombre. Ella lo merita e qui certo così lo vorrebbe da me. Qui l’ha mantenuto tenace, lottando la mia stupidità, certo lo vorrà di là. Ecco oso sperare l’efficacia di questo suo amore come preghiera a te, superflue oggi le mie parole! E ancora che, se lasciarla dovrò per piccola ora, ella saprà ritrovarmi, ché esso mai l’abbandonerà e la via tu, “stella maris”, le indicherai. Allora lascia che pensi di vederla trasmutare poco prima del buio completo, quando l’anima mia ti griderà la luce che vuol spegnersi. Sì, il suo nel tuo volto, gli occhi suoi già belli nei tuoi dolcissimi e neri avrà e lunghi capelli e un vestito bianco. Così tu in un mio sogno tra i fiori. Ricordi? E sorriderà, non venni alla luce e vidi sorriso di donna? Sì resterà amore, quest’amore, si sublimerà, magnificandosi in te. Sei tu l’amore!

lunedì 14 maggio 2012

Dilemma nell'anima

Talvolta mi accade di avvertire come una negatività di posti o situazioni. E’ sensazione strana, che non saprei altrimenti definire. Eppoi vi sono giorni che mi pare un qualcosa di non gradito mi segua ostinato, tanto da temere non luogo ci sia abbastanza remoto o solitario da non portarmelo dietro. E’ giorno o notte , è l’attesa di una vigilia o sono nella gioia di una festa, sto solo o di proposito con altri, digiuno o non rinuncio al piacere del cibo, faccio discorsi vacui o dico sensatezze, prego o lascio che la mente libera corra all’ieri o all’appena poco prima o a fatti lontani, sto tra le cose aulenti della bella primavera o la mente ricorda solitudini e gelo, ecco ho come una presenza o cos’altro accanto o forse dentro, daccapo come una negatività, e la sento minacciosa. Non vuole andarsene. E’ suggestione? Sì, così penso da critico e razionale, ma poi anche mi trovo perplesso a una scelta, secondare la sensazione e prudente né dire o agire, o dir poco e far meno, oppure ignorarla e fare o dire deciso. Dilemma! Prudenza eccessiva, vigliaccheria perfino? Allora mi chiedo, cos’è vero opportuno, cosa non avrà conseguenze spiacevoli, cosa mi eviterà angoscia e rimorso, sbagliando, se altri vi sarà implicato? Ché con la mia scelta avrò forse creduto di conseguire un piccolo bene per quanto effimero, come appagare un’esigenza, secondare un imperativo della fede, apparente vantaggio per l’anima che forse presto si dileguerà, ma per l’altro potrà non aver lo stesso significato e anzi aver prodotto delusione e amarezza, che solo in un tempo lungo o breve guariranno, e potrà essersi trattato perfino di una parola o un gesto inopportuni, o averla taciuta ed omesso quel gesto, pur richiesti, attesi, opportuni invece. Sì, tanto complicati i rapporti umani! Talvolta quello che diciamo o perfino non diciamo, sembra comunque contamini, veli sgradevole un’atmosfera, che ci farebbe star bene con gli altri, e quello che facciamo o perfino non facciamo, sembra inquinare, prevaricare, distruggere in qualche modo e in qualche misura. Cosa? Un’attesa, forse un’aspettativa di giustizia o benevolenza, anche se il nostro avrà l’apparenza di un atto innocente come da chi sta qui appena e dice e fa cauto, sì, come operato da chi usa poco le cose di questo mondo, è discreto, conscio che il superfluo e il dannoso sono spesso appena oltre lo stretto necessario del dire e fare, ché ogni gesto, ogni parola possono risultare ambigui, e far male. Lo dice il figlio tuo, madre cara. Insomma il male può seguire perfino a un’intenzione buona e buone ci viene comandato sempre devono essere le attenzioni per l’altro, ma il risultato? Ecco può accadere che ciò che è stato fatto o no, detto o no, abbia conseguenze di male, non voluto, non desiderato, ma comunque accaduto, venuto da piccola cosa che sia stata fatta od omessa, mal capita o mal interpretata forse, comunque rivelatasi nociva. E’ una verità. Che fonda amarezza, che questo mi possa accadere ad ogni ora! Ecco è proprio così, nessuno è abbastanza sicuro, nessuno potrà star veramente tranquillo che la scelta sia stata la giusta, nessuno è invulnerabile da una violenza a sé e agli altri dai propri atti od omissioni e da parole, taciute o dette. E’ come se quella negatività avvertita fuori si fosse affondata perversa dentro noi, nascondendosi tra le pieghe più intime della mente, o in una latebra del cuore, divenendo presenza ambigua e tentatrice, sostrato di male per se stessi e gli altri, inganno potenziale, primi noi stessi a subirlo. Oppure sia improvvisamente uscita dal cuore proprio non avendo prima coscienza che ci fosse. Ed è sgradevole scoprirsi tanto imperfetti. Ecco mi dico, la sofferenza per tanti errori ripensati, non m’ha forse reso migliore, non m’ha irrobustito il carattere, e non ho forse avuto prove di benevolenza dalla madre celeste, da muovermi più sicuro a questo mondo? Perché ancora sentirmi, inadeguato nei compiti, insicuro, dubbioso, come sempre bersaglio di un’insidia, che sì è avvertita talora premonitrice come fosse nelle cose, ma che dentro devo pur avere tentatrice ad ogni passo, come vedesse coi miei occhi, udisse con le mie orecchie, respirasse e vivesse di me in me? Che è questo alter ego inseparabile, che mi increspa l’anima e la induce in abbagli e sbagli? Che sono infatti spesso le sue proposte, talora anche allettanti, se spesso non che male nelle conseguenze? Sì, come sofferenza nel mio pentimento di poi, e reazione immediata di sorpresa per l’altro o sconcerto, se inattesa e sgradita è l’azione mia o la parola mia, giudicate inopportune, o il disappunto che seguirà per mia omissione dell’invece atteso? Ma v’è di più, ecco la minaccia dell’orgoglio che mi farebbe idoleggiare me stesso, se mi dicessi capace di vincere quella tendenza che dentro ho, ecco la vanità di ritenermi esente da certe bassezze, quindi il peccato di presunzione. Oppure all’opposto credere realtà certe fantasie della mente stanca, come perenne ingenuo, o come bambino fermarmi alle apparenze luccicose, credere e cedere alla benevolenza apparente di chi m’avvicina con sorriso carezzevole, insinuante dolcezza, come da persona affidabile e amica, ecco il peccato per me subito nell’inganno, ma di cui pentirmi per averlo promosso nell’altro a causa della mia dabbenaggine vistosa. E alla mente, madre dolce, ho scottanti fatti recenti... Tutti abbagli, errori, peccati appunto personali o indotti nell’altro e subiti, sia nel fare sia nell’omettere, sia nel ritenersi forte ed esente, sia nel comportamento da pusillanime fidente e imprudente. Chi li vuole per me, chi me li suggerisce a mani d’oro? Oh quanto vorrei davvero saper vincere, non essere più vinto da questo che o chi! Ma che armi ho se non appunto la prudenza, la riflessione preventive, e se ne fossi capace, la penitenza perfino negli sbagli vistosi, la vigilanza per i futuri abbagli, la preghiera sempre, per vincere il me stesso che mi fa vile talora, ottusamente temerario talaltra, o scemo da cedere alle lusinghe del male? Sì, non mi indurre in tentazione, liberami dal male, madre mia santa! Ecco, i miti parlano di una presenza malefica in noi e oltre, demonio la chiamano, e questo è creduto persona, capace cioè di vita autonoma dall’ospite, è la fede nel suo linguaggio mitico. Può esso essere riproposto attuale? Posso aderirvi? Forse. Ma pur vera è la presenza sua cattivante, ingannatrice, da indurci all’errore, all’abbaglio. E’ in noi talora anche come presenza malvagia per se stessi, un qualcosa che sembra suggerire piuttosto un baratro mascherato, non un posto ameno, che non è fuori, ma dentro, e lo presenta come un luogo di illusoria pace, una latebra sicura della mente, ma dove perder vorrebbe l’io, l’unità di persona, tra gli innumerevoli frammenti dell’inconscio a galleggiavi intrappolato, e sarebbe allora la malattia mentale grave. Non la nevrosi, che fa soffrire chi l'ha o sorridere chi se ne crede esente! Oh forse è vero il male ha un’origine, un autore perfido! Sta lì, qui, dentro, fuori! Allora se è questo qualcosa o qualcuno, e ben ho motivo di crederlo, in me come forse in tutti, aiutami, madre cara, da questo creduto autore primo del male, a sradicarlo, a buttarlo via, lontano, fa che non sia più suo tramite facile,mezzo per la sofferenza d’altri, rafforza la mia fede, fammi vero tuo figlio e, “quasi rem ac possessionem tuam, rege me, protege me”! Ché più non erri e pecchi! C’è un ingannatore vigliacco in me, mentitore fin dalla fondazione del mondo, tollerato da te, liberamene ché vela perfino l’amor mio per te e la piccola donna che mi sta accanto... Sì, nebbia, dalla lutulenta anima cacciata fuori o da chissà da dove venuta, ho talora dinnanzi agli occhi, folgorala, dissolvila, oh sole divino, aiutami a discernere, a ben fare ben avendo visto e compreso nel kairos dell’opportunità, ché io più non pecchi verso me stesso e il prossimo, ma divenga fonte di bene! Ché scarsa e vana fede la mia senza veruna opera, ho il dovere cristiano di agire, concretizzare attualizzare il bene auspicato diffuso, ma m’accorgo che può essere occasione, rischio di peccato, perché so di avere dentro forse un chi o che, che sempre vuol confondermi, mi presenta sì una scelta, ma come dilemma, ché non sappia risolvermi e me ne tormenti! Sì, aiutami bella signora! E mi dico e ripeto ammonimento per tutti, “ fratres sobri estote et vigilate, quia adversarius vester, diabolus, tamquam leo rugiens, querens quem devoret”. Linguaggio mitico forse, immaginifico, ma che ben avverte del pericolo! Sì, c’è qualcosa di non limpido che fa pesante questa carne, le impedisce di poggiare alle tue vette supreme, madre dolcissima, liberamene, dammi le ali e pure all’amore mio, piccola tua icona quale l’avverto! E prego così il figlio tuo, “Christe cum sit hinc exire da per matrem me venire ad palmam victoriae. Quando corpus morietur fac ut animae donetur paradisi gloria”!

giovedì 10 maggio 2012

Felicità di qui

Bello della vita il tempo primo, così un po’ anche per me fu. Le cose tutte vi sono nuove, quelle tali qui ora solo in tempo di primavera per un animo sereno un po’, che un po’ tempo v’abbia per soffermarsi e io qui sono, in un incanto. Eppoi anche grandi per chi piccolo è, come un po’ rimarranno nelle epoche successive, ma solo nei sogni, che sfuggir vogliano a una realtà assai diversa di quella prefigurata, grossa, prosaica! In quel tempo, io ero forse felice, e non sapevo che e quanto lo fossi, tutto sembrava garantito, a portata, se non di mano, di sogno appunto. E sognare qualcosa è già averla un po’ o averla tutta, cosa possibile solo nel tempo dell’ingenuità. Allora c’era ben qualcuno che si prendeva cura di me,ne aveva “sollecitudo”,sì, protezione per la mia psicologia fragile, in formazione. Erano occhi dolci e teneri che poi avrei faticato a ritrovare nelle epoche più mature, nei sogni perfino, quando la realtà il volto suo vero avrebbe mostrato fino alla nausea, cresciuto abbastanza per tristemente apprezzarne opacità e miseria diffuse. La malattia e la morte fino ad allora mi avrebbero sfiorato, preso invece mio fratello maggiore e compagno di tanti giochi e spensierati, non perché io speciale, più forte, ma più fortunato di lui e tanti, spesso inghiottiti dalla banalità del buio sempre presente, appena oltre un po’, appena un po’ più la nostra fragilità, in quel tempo di stenti che seguì alla parentesi triste della guerra. E pur venne un tempo diverso, in cui presi coscienza che la felicità possibile è una felicità minore, non la grande immaginata bambino o adolescente, piccole cose disponibili e raggiungibili, poche parole di bene tra tantissime amare. E gli occhi, il sorriso di donna, i primi da me visti e che tanto accompagnato mi avevano nei primi passi e nelle prime emozioni, dove? Anch’essi nel buio, nel nulla! Vivi solo nel ricordo, come gli sguardi furtivi della piccola dirimpettaia di un’estate, che qualcuno aveva portato lontano a dispetto del mio disappunto. Sì, presto, troppo presto qualcuno mi aveva ricordato che luogo più non v’era per i sogni, tempo era venuto per i pantaloni lunghi! Ecco allora la vita reale con le tante smentite. Ecco il tempo in cui il desiderio di felicità, in un animo già provato, diviene valore di cui esser gelosi perfino, da nascondere, preservare dalla grossolanità, anzi accrescere fino a farlo diventare volontà etica da opporre ai tanti aspetti negativi dell’esistenza, che sì va accettata qual’è, nella durezza che ha, ma diritto non dovrebbe avere di travolgerci. Mai! E’ il tempo in cui felicità significa non reprimere la vitalità interiore ereditata sì dall’infanzia dei miti e dei sogni, ma che pur è positività capace di veder qualcosa di bello e di degno tra brutture tante e laide, e volgarità che il cinismo del mondo degli adulti, in cui piede abbiamo ormai messo, perfino giustifica. Eppure proprio allora palpiterà per noi un cuore e così vero mi accadde. Era nato per me e non lo sapevo! Era accaduto come se dalla terra nera spuntato un fiore bianco, occhieggiasse per me solo. E mi chiedevo, da dove mai può prendere il biancore suo un fiorellino di campo? E’ nera la terra! Questo meravigliarmi mi accadeva proprio quando tramontata mi pareva proprio l’epoca delle meraviglie e dei miti, fardello di prima giovinezza. Quando mi pareva ben salda la convinzione che il mondo è pur fatto di concretezze spiacevoli, e non vi hanno luogo gli ideali, evanescenti come rugiada al primo sole. Quando amaramente mi accorsi che assai spesso la disponibilità e benevolenza altrui hanno un prezzo, non sono affatto valori gratuiti che vogliono farsi apprezzare per aver giusta considerazione e rispetto, come da animo buono e nobile provengano. Mi sono pur dovuto accorgere che nell’umanità, che ci ospita ci sono molti venali interessi, pochi spiriti e tanti corpi! Ma ecco era venuto un tu a illudermi di felicità. Era vero fiorellino di campo o così avevo voluto vederlo? Chissà! Ma tanta era diventata la sconfessione della speranza, intristita in troppe sconfitte, nella non libertà, quella che oggi sempre più ha il volto amarissimo della non dignità della mancanza di lavoro, da giustificare ogni abbaglio! Eppoi se oggi molto più si è costretti alla passività, col rischio di lasciarsi andare nel modo buio di certa gioventù, che lenta si suicida, sì, in laidi fangai dov’è in un gregge, eppure è sola, anche nel mio tempo possibile sempre era lo smarrimento estremo. E io l’avevo rischiato! Ma, pur nel buio, un barlume, ecco l’amore di donna, con la sua concretezza e tangibilità, essenziale, chiaro nella risposta, tutto e subito o nulla, non più, forse, se, poi degli amori infantili e di prima gioventù...Sì, mi aveva raggiunto! Eppure tutto continuava a vivermi intorno imperfetto e carente, ma ero in una condizione nuova, che suggeriva perfino di sforzarmi per renderlo più a misura d’uomo, nostra appunto, due diventati. Sì, pur si vive nel mondo di sempre, non certezze, carenze tante e i diritti calpestati, precarietà. E così era per me. Ma ecco un piccolo amore, una speranza per cui sforzarsi, vivere, volerlo fortemente almeno. Avere un altro accanto significa restare nella concretezza del possibile, anzi lottare per ampliarne gli argini, spostarne i limiti, contrastare ciò che tenta di sopprimere o restringere, condizionare la propria libertà, perché è proprio quella che l’altro vuole condividere e fare del nostro piccolo, anche il suo spazio vitale. Questa volontà nuova che ci vuol vivere accanto, ci obbliga a una visione matura, responsabile delle cose, restare nel tempo storico di vita senza fughe indietro o troppo in avanti, e smorzare quelle contraddizioni, retaggio della prima epoca di vita, spesso di paure tante e poca gioia, inutile fardello se portate ancora come soma a complicare stupidamente l’oggi. Insomma ecco il miracolo del tu che vuol essere per noi proprio. E questo m’accadde. La vedevo bella questa donna, buona, una tutta finalmente per me solo. Meritavo tanto? Chissà! Era un fiorellino davvero, aveva ed ha psicologia diversa, che le veniva e viene dalla diversa biologia, diverso guardare e attendersi dal mondo, diversa sensibilità, ed è una fortuna che sia stato così per uno si stimava ben poco all’epoca lontana dei primi approcci. E’ una che vedeva un qualcosa di degno nella povertà dell’animo mio, l’apprezzava, l’ha voluto per sé. Ecco l’amore, il mio. E’ qui ancora tutta per me, è la felicità, la mia piccola felicità! E non è forse abbastanza, qui nella terra del disprezzo immeritato e dell’odio perfino? E mi chiedo, occorre postulare veramente un tempo e un luogo di solo amore? Amore qui povero, lì magnificato, qui spesso contrastato, lì benedetto, qui talvolta respinto, lì che non possa non essere ricambiato. Forse...A me basta sentire il mio piccolo bene protetto. Sì, ci sono altri occhi oltre gli umani della piccola donna mia in questo buio, spero che molti altri li avvertano per sé e per il bene che accanto vive loro. Dicono anch’essi un amore, mistero che viene, da dove, da quando? Oltre il tempo e lo spazio! Occhi che mi rassicurano che questo sogno che tuttora viviamo s’eternerà, passerà pur oltre, per la cruna stretta! E che dono c’è di più grande? Sono tornati gli occhi di madre, vedono, sorridono, sono ancora per me! C’è qui un candore da proteggere, quello d’un piccolo amore!

domenica 6 maggio 2012

Volgarità d'oggi

Oggi qui vedresti le formiche in lunghe teorie uscir da nido, ché il tempo s’è fatto mite, a rifarsi la dispensa. Così faranno fino al nuovo inverno, scoraggiate solo dal primo vero freddo. Se noti bene numerose ne escono, altre carche di semi o cos’altro, fanno ritorno, ma ogni tanto scoprir puoi una che pur torna, ma senza soma. Svelta procede, decisa, e pare ogni tanto fermarsi a una delle venienti e scambiar con essa segnali col tocco delle antenne. Perché? Forse ha fretta di ritornare al nido per segnalare di nuove fonti di cibo, la presenza o di un pericolo sopravvenuto, la minaccia. Chissà! E’ un comportamento strano che una ragione deve avere. A me piace pensare che si giustifichi appunto per dar di buona novità avviso o di minaccia. Allora anche ti invito a osservare la risacca. Quando nuove onde si generano dalle sopravvenienti che si frangono alle falesie qui dabbasso. Le riflesse, generate dall’urto, vanno incontro e interferiscono con quelle che a morir s’affrettano agli scogli, come se avvertir le volessero della folle loro corsa. Oppure pensa a certi sogni, che significar pur devono qualcosa, e tu vi ti veda sospinta dalla folla in una direzione e qualcuno, che sia fuori della scia, gran cenni ti faccia di non lasciarti trascinar via. E’ questo che la fantasia mi suggerisce a far metafora per quello che ho da condividere con te. Tu mi dici che in una società più giusta, valore avrebbero le doti di ingegno e sentimento. Te ne do ragione, ché questo binomio, spesso presente proprio in voi donne in un abbinamento felice, mi avvalora l’idea che allora, possedendolo, meglio rispondiate alla vostra funzione di icona della madre celeste e anche, nelle più virtuose, di suo idolo o specchio vivente. Ma ti osservo che in una società arcaica, quando vero usciti ne fossimo con molte difficoltà, riconosceremmo che quelle doti, pur custodite, spesso misconosciute sono proprio alla donna, impedendole il giusto peso in comunità, con grave suo impoverimento e danno anche dell’immagine, vera tra noi, della bella signora della nostra fede. Oggi, dopo tanti fatti storici di rilievo, si vive in una società più libera, aperta e più dignitosa vi sta la donna, eppure quei pregiudizi vi si ridestano talora, a far prepotenza e ingiustizia proprio su lei. E questo vi può accadere per la volgarità imperante che impedisce una giusta gerarchia di valori, che vedrebbe il bello, il buono, il bene, a cui mi piace che più sensibile sia la donna, preferibili al male, al malvagio, al brutto. Ma l’uomo volgare, cui assai tristemente si può aggiungere la donna fatta così, sovverte questi valori, li vanifica nella sua visione cinica del mondo, scusa come inevitabili i disvalori. Sì, perché volgare non è tanto chi dice e pratica la trivialità, soggetto da isolare ed emarginare, ma più chi ne giustifica se non il comportamento, la presenza, nella sua convinzione distorta in cui lo spiacevole, ha la sua ragione di essere, di manifestarsi in un mondo arido, folle, guidato dalla sola convenienza nell’agire, morti tutti gli ideali, il dio anche. E tu vero puoi qui veder vistosamente cedere, degradarsi a esistenza amorale, quasi tutti. La classe ricca sempre più accaparratrice senza vergogna, i politici troppo spesso scoperti a far il loro vantaggio disinvolti, i poveri, da sempre ammiratori dei più fortunati, ora ancora più succubi, appagati dalle briciole che loro riserva la cupidigia dei furbi. E tu perfino potresti essere tentata, come io sono, dalla stessa visione cinica di chi vede la virtù apparenza e sostanza il riferire tutto a sé, l’egoismo. Sì, aderire, far propria la convinzione che oggi, in un mondo di apparenze, ben si giustifichi l’apparire senza che sostanza meritoria vi sia, ché da questo si viene giudicati, apprezzati, introdotti, preferiti. Sì, sembrerebbe proprio massima aspirazione lo stare al sole dei vantaggi senza aver meriti, finché il bel tempo dura e tanto peggio per i non fortunati! E allora in questa società imbevuta di cinismo, fatta bassa, brutta e volgare se v’è qualcuno nobile d’animo che vi fa? E’ guardato con sospetto e incontra dai più disprezzo nella gioia, scherno e sogghigno nella sofferenza, e solitudine sempre. E’ il vero respinto, emarginato, il fuori posto, il sognatore che scambia prosaiche lanterne, per lucciole amorose appaganti solo i sogni suoi vani. Una specie di matto di cui diffidare. E’ il giudizio volgare, che tutto ritiene impuro, in cui tutto e tutti sono da appiattire e se v’è un ostinato fuori, ecco va additato alieno. E uomini volgari ci sono stati in tutti i tempi, non v’è epoca esente, anche se il tempo conferisce al passato sempre una patina di immeritato decoro. E ben definiamo conservatrice la mentalità che teme dell’oggi una deriva al peggio e predilige il passato con le sue idee pur logore e spesso fallaci, epoca in verità non meno colpevole della presente. Ecco, questo mondo è vero volgare nelle sue premesse teoriche e nelle pratiche attuazioni e diffama la virtù che non capisce, certo non ha, né vuole e predilige una condotta irriverente, che il peccato perfino riduce a bagattella di preti ipocriti. E io vorrei poterti rassicurare di non esser della schiera dei così benpensanti, ma il vizio morale forse non mi esenta, sarei tentato di star tra la volgarità, ché chi vi sta vi può essere un impenitente gaudente, porco sì d’Epicuro, ma che ne appare appagato ed è sempre ben accolto, scusato se perfino nella trivialità si lascia andare, e si muove sicuro da ben adattato nel gregge. Sì, peccatore mi sento, tentato di restare in un gregge di peccatori. Ma talvolta ne ho ravvedimento e diverso de facto esser vorrei e degno delle tue aspettative di bene, nella vita che deciso hai di condividere con me. Vi riesco? E’ proprio questa sensazione di inadeguatezza a restituirmi dignità, e come se tu da fuori cenni mi facessi,mi scopro controcorrente in una folla deviante che spinge in una direzione a un destino che non voglio mio, anzi vi si accalca in una corsa folle, che coinvolgere vuole, sì, travolgere. Ma, proprio perché così misera, tutta sarebbe da soccorrere! Io stesso misero che soccorrer ne vorrei altri! Ma questo è un tipo di miseria ben strana, difficile da sanare. Ché colui che sarebbe da beneficare non si ritiene affatto in errore, anzi depositario di una visione meno grossolana, più nitida della realtà, più veritiera, mentre attribuisce ruvidezza di giudizio, dabbenaggine perfino, a chi tenta d’esser virtuoso e ha la pretesa assurda di far ravvedere proprio lui che è nel giusto e nel vero e guarirlo dal cinismo, ben giustificato, con l’esempio di una vita possibile nella diversità eroica. Ingrato è il compito, ostinato vi sarà chi tenta d’esser così cristiano coerente, che vive la sua vita scomoda e si ostina a mostrarne la bellezza. Ostinazione di pochi che mi ricorda quelle formiche che tentano di dir qualcosa alle compagne tornando apparentemente senza scopo al nido, mentre non si interrompe o devia il percorso delle incontrate o come, nella fantasia mia, sembrano invano avvertir le onde di risacca quelle che a infrangersi vanno alle falesie. A me tu vero gran cenni hai fatto che mi staccassi dalla corrente, così a te che mi recuperi m’è dolce pensare, ed è questo che fa bello il nostro andare a due per questa via impervia, sì, lo fa vero amore. Io ho cessato di far il mio e nostro danno, anzi mi ritrovo contento d’esser un po’ o molto diverso, sì, come tu mi vuoi. Ma se vogliamo far giusto e bene, prego la madre nostra di sostenercene la volontà e di darci il coraggio di vivere nell’incomprensione della mediocrità e di capir la differenza di ciò che ci distingue dalla volgarità dilagante, per tentare di non contaminarcene, ma di correggerla, dalla debolezza e spesso dall’indigenza nostre. Siamo pensati strani perché diversi? Bene, siamo nel giusto! Ci guarda lei, non è dolce l’afflato suo, non compensa gli scherni, le offese, l’insolenza, subiti nel galleggiare in un mare di volgarità?

giovedì 3 maggio 2012

Stelle di prima sera

Vedi è quasi notte ora, una notte qui insieme, e di primavera. Rapida s’è fatta attorno a noi... E’ sopravvenuta indugiando sulla serenità del posto,quando qui le ombre lunghe si facevano al sole, che addormentarsi voleva, tuffandosi nel mare. Sì, aulente ne è l’aria e il prato, tutto infiorato, su cui protettivi ai bordi gli alberi, or tutti neri e indistinti, tentano di stender i rami loro, invita a restare e a lasciarsi godere. E siamo rimasti e or un po’ ci attardiamo. Ora sono sgorgate mille stelle e altre se ne aggiungeranno a breve, più fonda sarà la notte e tardi si leverà la luna,quasi piena, a disturbarne la visione, ma questo accadrà quando le stelle che ora vediamo saranno declinate. Ma tutte torneranno ad affollarci la memoria quando a questa notte incantata ripenseremo. E in questo buio ora anche le lucciole! Le prime credo, qui precoci e numerose, ché dall’altra parte del monte dormono animali che le beneficano, e di simili a far incanto a breve verranno numerose, or rare, da noi pure nel tuo bel giardino, e danzano qui lente, occhieggiando amore. E di nuovo i visi abbiamo alle stelle, ché questo cielo pare già cambiato e più nitido s’è fatto e occhi più grandi mostra e altri piccoli lontani si sono aggiunti, da parer fuggiti nell’immensità, forse sapendo dov’è chi, sognando, li ricrea ogni notte. E già al crepuscolo tante cose consuete ci venivano incontro come mutate nella penombra, da parer, velandosi, come lì lì ricreate, così questo cielo magnifica sotto lo sguardo nostro come apposta per noi s’abbelli, incolorandosi delle mille e mille sue luci e al brillio di cui sembrano cantare, or s’aggiungono, chetato il canto languido degli ultimi cantori del bosco, mille brusii misteriosi. T’impaurano? Ti invito a distenderti accanto a me, ché solo seduta sei voluta rimanere. Vicina il più possibile vuoi ora starmi e io sorreggo e circondo il capo tuo col braccio e sembri rasserenata, ché anche t’ho rassicurata sui ratti, che troppo non si avvicineranno, impregnata un po’ anche tu dell’odore dell’affettuoso nostro gatto! E stiamo così, stretti come necessità avessimo di scaldarci, ma tiepida è quest’aria! Muti ora un po’, ché sentir ora ci pare il respiro della terra. Sì, vive, ma solo adesso udir ne puoi la lenta lena. Sì, sembrano viver le cose tutte! E’ suggestione, è verità, chissà, ma se questa ignoriamo è forse perché sotto al sole mille altri suoni ci distraggono...Qui solo brusii, forse anch’essi richiami d’amore. Sì, vibra amore, misteriosa la vita del creato tutto. Così ci pare, così creder vogliamo noi, innamorati, sotto un manto di mille pupille accese, sull’erba odorosa che ci inebria. Vedi, ti dico, fissando contro il cielo azzurrato di scuro il contorno dei cespugli, veder puoi le falene accorse ai fiori loro, che forse nel buio dischiusi or ora si sono o che sol ora la fragranza loro effondono più ancora da attrarle. Sì, è così, tutto trasfigura, s’abbella e si improfuma più ancora e ci illudiamo sia per noi, per le nostre pupille e nari avide, a far la nostra ingenua meraviglia in questo tempo d’amore. E or qualcosa ci bussa al cuore...Parlarci forse vuole, ma pare aver scordato il linguaggio umano. Che dice? Ma poi cos’è, che è questa presenza? E’ forse la madre venuta a stender un velo su noi, ché altri non scruti indiscreto ciò che ci accade, e a cullarci, e ad addormentarci perché il suo stesso sogno, diventi nostro? O fosse davvero! Noi non possiamo che abbandonarci a queste cose cattivanti, arrenderci all’afflato loro, vibrare amore con loro e allora, chissà, forse davvero ella verrà! Siamo nel buio in questa radura, una fovea nel folto, come nel seno suo accolti! Nulla potrà accaderci che non sia bello, sì protetti siamo dall’amor suo! Io almeno, che ostento coraggio, così lo rincalzo! Null’altro ci serve se tutto può attrarci ancora in ammirazione d’amore! E allora ti dico, piccolo mio fiore non temere! Tu sorridi delle mie rassicurazioni e ti brillano i denti a questa luce tenue e soffusa e sono come stelle gli occhi tuoi. Io or ti rivedo ragazza ai nostri primi incontri. Ricordi, cercavamo il buio per ingenue effusioni...Tu timida eri e fidente, ma gli occhi avevi supplici che non esagerassi nel tuo abbandono, ma poi anche si imperlavano di lacrime di gioia! Oh quanto dovevi aver sognato e temuto le concretezze d’amore! Ma ora possiamo di più! Se è vero che occhi abbiamo come ricreati mo mo per ritrovarci in semplicità a guardar in su in ingenua meraviglia a questo cielo. Sì, lasciamo ci incanti, sì, ti prego, scordiamoci l’età, facciamo come i ragazzi, non lo siamo rimasti in fondo? E ti prego, non dirmi più , disapprovandomi, quando assorto a ripensare al nostro accaduto mi vedrai, tutto a me solo capita! Non è forse meglio avere un compagno sognatore e di te sola, in questa mia epoca di smarrimento facile? Allora fammi sognare, e tu, come se solo ora quest’incanto suadente ti suggerisse, sogna con me! Ecco, or ora è come se, scoperte le nostre diversità, sia la prima volta dell’amore. Ecco, forse stiamo per lasciare questa forma rapiti dalla fata delle stelle, amiamoci in essa se ancor lo possiamo o, se già più non l’abbiamo ché creature sue alate la madre ci ha pensati, cantiamo alle stelle le parole del nostro amore, ne sorrideranno amore!
Ricordi? C’è una canzonetta napoletana, fa: so’ cumparute in ciel mill’ stell’, dicevan ci ten’ passion’..., son comparse in cielo mille stelle, dicevano ha per lei passione... E’ così!
Sì, parlano di noi queste stelle, parlano d’amore!

martedì 1 maggio 2012

Amore di primavera

C’è oggi di nuovo qualcosa? Non è l’aria di quest’epoca, che d’erbe profuma e di fiori novelli e qui anche di spuma di mare? Perché m’apre più contento il cuore questa freschezza di mattino? Sono a farlo questi germi di vita nuova, venuti fuori al fine dalla qui rossa terra, che pregna ne era in lunga attesa, desiderosa di mostrar tante e variegate essenze? Non so. Tutto fa tenerezza qui a chi estatico ammiri questo sciorinare primavera. Sono i gialli della ginestra spinosa, che tutta s’è ricoperta, mentre l’altra tace ancora lo splendore suo, sono i bianchi fiori di cisto, mentre l’altra sua varietà è tutta in boccio e presto i suoi grandi fiori fucsia dai petali spiegazzati mostrerà per l’indugio di me, viandante tra tanto incanto, sono gli asfodeli divini? Sì, son tanti i fiori oggi qui e con loro ripalpita giovinezza, tra farfalle, api, bombi e tanti uccelli nel folto,e nell’aere sereno vocianti gabbiani e oggi anche rondini, sì, daccapo tante rondini! Eppure le solite cose sopite mi seguono e se più lontano rifugio avessi, ecco lì starebbero. E stanno perfino, mute, nella preghiera accorata, che qui mi sento spontanea per te, da cuore a cuore! Sono cose lontane, tristi, scure, manchevolezze, errori? E’ nostalgia che si consuma nella malinconia? Tutte cose mai risolte, mai ricomposte, mai giustificate, ma compresse per non soffrirne, nella latebra dell’inconscio e da lì uscite, nei sogni o nelle veglie d’angoscia, per soffrirne di più, ripensate amplificate, nella revisione impietosa, e che perciò lì comprimo daccapo, non sapendo come liberarmene! E so che questa esistenza nell’aiuola terrena, su cui tanto t’affanni operosa, vuol farsi precaria per tutti. Affamati molti di concretezze, di verità anche, bramosi di giustizia, ma più ancora della dignità che solo dal lavoro viene. E questo non c’è! Molti vi sembrano tristi e miseri, bisognosi si son fatti di tutto e ancora più distratti dall’amor tuo, cura rivolta hanno alle concretezze, che vita, anche grama, assicurino. E qui con i miei problemi di sempre mi ritrovo, accasciato tra gente senza sorriso, senza amore, senza calore... Ed è pur primavera! Perché, mi dico, un mattino tanto nuovo e promettente or ora s’annunciava e mi ci ritrovo più intristito? E sì che vedo fiori tanti a distender corolla e rider al sole, ma ora penso anche che tra breve molti chineranno il bel capino, o chiuderanno i petali loro o anche che leggera brezza li strapperà via. Vi vedo metafora della nostra vita, delusa , inutile, amara, che s’è lasciata galleggiare sul mare del nulla, che or riprendersela già vuole, appena rifiorita! Ma ecco, come se tu me la suggerissi tra le parole sante della mia preghiera, che temevo recitata stereotipa senza più calore, vedo nel nulla che mi circonda e che ostile minaccia di riprendermi, come una contraddizione, benefica all’anima mia, assetata di risposte da te. Esso, il nulla minaccioso, è niente appunto, eppure è qualcosa, quella che permette di aver coscienza di stare, di pensare, di essere, di scoprirti destino, risposta alla mia ansia. E’ un assurdo, dal nulla una positività! Di simile fa questo male immane, lì annida e si nasconde pronto a saziare di nuove vittime le brame sue, qui distrugge, schianta, assiste muto, impavido al nostro dolore, poi se ne va con la sua greve soma di pianto, le lacrime tante nostre e tue per tanto strazio! Ma anch’esso ha una sua positività, permette la coscienza del bene, così, paradosso, è una forma di bene! Il nulla oscuro, il male pungente sono qualcosa di buono, di bene! Penso ora anche all’amore smarrito o non capito o anche al disprezzato o anche a quello cui, ottusi, ci si può permettere di non dar risposta, ebbri dei luccichii di qui o assorbiti dalle cure, inutili spesso, sempre pressanti di questo vivere. Ecco è talvolta come un sassolino in uno stagno. Piccole onde concentriche alla sua caduta, poi daccapo il piatto della tranquilla indifferenza, o peggio se vi sia il gelo dell’odio nel disprezzo, l’acqua non s’è fatta solo cheta, ma duro, liscio ghiaccio, la negazione dell’amore, la più estrema! E’ quella che tu e il figlio tuo qui avete sperimentato, e sperimentate oggi in ogni amante non riamato, che compagno vi si fa nella stessa sventura e tristezza. E io mi chiedo se non sia lo specifico del dio, l’amore incompreso, quello che vuole continuare a proporsi anche nell’indifferenza e nel rifiuto. Ecco, quest’amore bussa alla porta di un cuore, parla, implora talvolta, ma quella porta rimane serrata, esso torna alla sua solitudine, ma pur continua, vive nonostante! E, paradosso, quest’indifferenza ha una sua positività, permette all’amore di riconoscersi, qual’è, la natura che ha, lo specifico suo. Non lo sa, ma è pur’essa una risposta, ed è, inaudito, risposta d’amore! Ecco io vi vedo fatti carne, camminare assieme, ben chiaro lo dice il Corano, in un misero pellegrinaggio d’esilio tra noi, tra la nostra indifferenza. Ecco il figlio tuo catturato, gettato in una segreta, al buio più greve, e poi l’odio vi fa di più, a tormentar lui sulla croce, a spezzar a te il cuore. E’ il rifiuto più radicale dell’amore! Voi siete del dolore, gli appartenete da allora, anzi da sempre, dall’alba del mondo. Lo siete in perpetuo, ché state in ciascuno che soffre. Ma di più in chi è incompreso d’amore. Ecco, io mi chiedo quale sia stato il più grande dolore del figlio tuo, più ancora di quello patito dal suo giovane cuore, spezzato sulla croce. Non ho che una risposta. Qualcuno ha ben osservato che se lo si pensa nell’imminente cattura, tra i suoi che nemmeno sanno pregare con lui, eccolo nella desolazione estrema, conscio dell’incomprensione assoluta dei suoi. Il suo dolore più grande, l’amore incompreso, offerto, ma in fondo rifiutato. Ma, paradosso, è allora che ha coscienza della vastità del suo amore, sì d’aver amato, molto amato, come solo il dio può fare! Poi la croce, e l’epifania postuma! E son passati anni, secoli e noi, umanità desolata, tra tanto squallore siamo soli, negletti, abbandonati. Ripassate tra noi persone divine, dolce binomio del Corano, fate che risentiamo ora la vostra parola amorosa d’allora. Oh da quanto questa melodia che da sempre canta il creato e che più struggente si fa in questo tempo di primavera, ascoltiamo perdersi nel nulla! Sì, tornate, risorrideteci la mitezza del vostro cuore! E tu madre mia dolcissima, amore d’eterna primavera, ripassa umile pellegrina d’amore. Parlami soave soave, ché il tuo amore imparadisa! Tutto per te trascolora, si fa verde punteggiato or di giallo, or di bianco, or d’azzurro! Son i colori di qui, la natura, dolce pittrice, li ha mo mo dipinti per te! Passa da qui, questo cuore porta l’anelito di mille cuori! Questa mia speranza s’allarga al mondo tutto, di tutti vorrei saperti offrire l’anelito, l’amore ravveduto, quello forse appena prima ancora rifiutato. Ribussa ai cuori, non rinunciare a nessuno! Ecco ancor ti rivedo nel mio sogno antico... Rechi, bianco vestita, il piccolo tuo con te. Questo, come allora, le piccole sue braccia mi tende, vuol dalle tue amorevoli passare alle mie bramose! Oh antico sogno or ora rivissuto, perché via non m’hai portato, perché ancora qui mi lasci? Forse perché piccola donna c’è. M’illude di sé, m’illude, madre, di te. E’ trepido lo sguardo suo, le sue pupille fissano le mie. Che vi leggono? Il nulla, il tutto? Io le abbandono il cuore. Ne farà strame? No, ama come te, che perfino mi ameresti se l’amore tuo non fosse nel mio accolto! E’ tenace questo cuore, esso è nato per il mio, questo strano, vecchio cuore, che ora palpita il suo amore solo. Sa che è già il tuo!