sabato 29 settembre 2012

Desiderio d'autunno


Penso che le comuni parole, quelle espresse per fonemi per la comprensione propria e degli altri e le frasi che ne vengono costrutte, non siano mai le vere formulate, quelle che la mente crea da sé di getto a esprimere una sensazione, un fatto, un giudizio, e la interpretazione di un accaduto. Sempre esse ne vengono fuori come sbiadite, se non talora distorte, forse solo attenuate nell'intenzione primigenia, ma che quindi non sanno ben dire quel che dentro è rimasto celato, con inefficacia di ascolto quasi sempre e incomprensione talora, fossero anche solo per le proprie orecchie dette. Così talvolta io non mi dico, né m'ascolto, eppure ho qualcosa di importante, qualcosa che mi grida dentro e mi preme e mi fa miseria, ché accorato ne ho il cuore, soggiogato, e io non so dirmelo e non so dirtelo, madre cara, eppur quanto lo vorrei! Sì, ho il cuore scosso e mi freme tutto dentro, eppure non è il balbettare solito, compulsato dal male suo, è cosa nuova e ben saputa allo stesso tempo, e m'agita e mi fa più ansioso, anche se è sonnolenta quest'aria di primo autunno sotto greve cielo mattutino. E la natura tutta mesta, e così anche più fascinosa, par s'occupi tutta nella lenta e inesorabile caduta che tutti spogli farà gli alberi, ma anche assorta è in un silenzio che la fa come muta d'amore, come qualcosa attenda, che non venga. E le foglie cadute mi scricchiolano sotto passi lenti e grevi e alle cose tutte caduche di qui richiamano e per contrappasso alla potenza delle cose immutabili, alla forza delle cose pure, là dove, madre, vivi d'attesa e di sospiri. E così ti vedo attendere e attendere chi non viene e ne ho pena, ché tutta pensierosa sei nel mio vedere, assorta nelle domande e nel cercar risposte, la fronte aggrottata e inquieti gli occhi cercare, ansiosa, fragile di ansie tutte umane. E del come mi nasca questa sensazione e il dolore che ne ho non saprei ridirlo con parole umane, ma tu sai ben leggere pur i cuori forzatamente muti. E mi sento assai misera creatura ancora più smarrito e mi preme dentro, e non sa uscirne, la nostalgia della compagna lontana e mi fa più dolore, anche se solo questa brev'ora forse di sonno o di noia da lei mi separa, e idee assurde me ne vengono, ché la tristezza, che mi prende tutto, suggerisce languida. Ed è di poc'anzi l'immaginarla minacciata dall'angelo nero e che io te ne gridassi la mia protesta disperata e a urlarti mi son visto che non l'avrei lasciata andare sola! Ma non timoroso ero che si smarrisse nella lunga via alle stelle, ché un angelo va per istinto, ma ché paurosa la so d'ogni novità, che non mi veda accanto a conforto suo. E poi in sicura pena la vedo lasciarmi solo e disperato, selvaggio io dei luoghi di qui pur consueti, ma come estranei divenuti nei lor momenti allora solitari, inadeguato, impreparato a questo mondo tutto da viver da solo, lasciatovi bambino impaurito, stordito da ninnoli di illusione che lui stesso con le tante sue parole di desiderio sovraccarichi di belletti luccicanti. Ecco così, rabbioso delle paure mie mi son trovato stamattina nelle secche dell'egoismo, daccapo chiuso in un orizzonte terra terra, strettovi da angosce di sempre e da questa tutta nuova, che le altre tutte ha immeschinito, tanto m'accora! E dalla cerchia in cui mi stringe quest'ora angusta che ti dirò malamente? Dirò: addio cieli che la pupilla slargano speranzosa di luce, addio tramonti rosseggiati dalla speranza di domani migliore, addio notti stellate di lucciole frementi amore, addio sogni antelucani di bello, di buono da condividere con la compagna dolce nel luogo dell'amore. Addio! E le tue parole dolci di madre venirci pur fioche dalle lontananze inaccessibili dello spirito, ma incontaminate, frementi di speranza, di impeto di conquista, di certezza di vittoria . Addio! Ora lo so per certo, perduta lei, è perdere il sogno, è l'inutile affannarsi per un pezzetto di cielo, ché sola non lascerò che vada, e lei pur andrà, ma io forse non potrò seguirla, per poco, per più di un poco, sarà pur sempre un'eternità! Sì, vapori di morte m'ondeggiano tutt'intorno, grevi come quest'aria, che or tutta persa come attoscata pare, e m'è preso un brivido e tutta essa tremar ne pare, empatica. Deluso, stanca la mente, m'è venuto il cattivante desiderio della morte. Oh madre, oh vita!

mercoledì 26 settembre 2012

Cercar l'anima


Che dire della mia vita spirituale? E' così come quanto c'è di bello in ogni altra vita, perché tu hai donato, oltre al perdono, a questo cuore primizie dell'amor tuo. E la vita psicologica ne riceve olio perché la lampada sua arda tranquilla e sicura, ché la so da quella protetta. Ma poi tante dello stare qui le occasioni per agitarla, perché le orecchie ho assordate e le pupille stanche, che invano serro e quelle tappo, perché rumorose immagini truci di malevolenze gratuite, ilarità feroci, tradimenti infami, vendette sproporzionate, odio mortifero, spumeggia l'egoismo più scuro che nessuno esenta, e c'è chi ne grida nel pianto suo, ma ormai senza più voce! E fragile è quest'involucro e scricchiola e paurosamente, eppure mi ci agito dentro! Non conosce vera pace questo cuore e la gioia, ecco io non so più ritrovarla e mi tace la speranza, ogni speranza. E povera s'è fatta quest'anima e s'è in sé rattrappita e io non so più d'averla e non so più che sia! Ricordi la risposta che seppi dare alla bambinetta mia, che di sapere che è mi chiedeva? Io le osservai che ora s'era fatta di merenda e che certo fame le era venuta, e che ella s'aspettava che qualcosa di gustoso le preparassi, la mamma essendo lontana. Le dissi che se vero fame aveva come pensavo, era quella la voce del corpo che reclamava il suo dovuto, ma dall'anima veniva il bene per la mamma e me, che certo anche in quel momento sentiva. E a me stesso ripetei che mai avrei deluso dall'amor mio le aspettative della piccola, che più dell'occasionale buona merenda mi richiedeva. Vi riuscii poi? Forse da tante cure preso, devo averla trascurata e così delusa e pur non me lo dice, ha pietà di questo padre mancato? Ma forse non sa, vergogna ho che così possa essere stato! Vorrei dirle e non so come, e non so quando, e non so se, ché d'esser troppo oso temo. Ma allora quella mia risposta le bastò. Ma se lo chiedesse ora le darei risposta soddisfacente? E a me stesso tento risposta dalla fede. Quando tutto per me s'oscurerà e sparirà nel buio, invano la pupilla del corpo cercando la luce, s'aprirà avida la pupilla dell'anima a cercar quella nuova luce che da te viene o che tu sola sei, e che ora, per quanti sforzi io faccia, con quella fisica non so vedere, se non forse solo, illuso, talora in sogni antelucani, che però detti son presagire il vero. E quel giorno sarà un meriggio di luce e delle notti fonde di qui scialbo il ricordo. Un giorno natalizio ché da te nascerò nel mondo dell'amore. Queste le aspettative mie e più oltre questa mente non sa andare, si perde nel mito e crea mito, e, se quello piace, è momentanea consolazione, ma resta il problema del male, dell'esserci ritrovati qui nell'assurdo, gettati in questo spazio, enorme e angusto allo stesso tempo, ché risposte non dà, e nel tempo che accumula dolore e alla morte e al nulla ci vuol spingere. Ma che senso ha, tutto quest'affannarsi di viventi e di cose, perché è, se il nulla minaccia di inghiottire il tutto? Si dice, tutto è destinato ad altro, si muta, evolve in altro,prepara, è causa d'altro destino, e così in una lunghissima teoria d'eventi finché il tempo dura. Ma allora c'è un senso, questa mia vita, questo mio gioire scarso e patire tanto servono pur a qualcosa, preparano altro! E come se una mia cellula si chiedesse: e io che ci faccio qui? E si rispondesse: sto perché altre vivano o mi subentrino, morta che sarò. Ma le sfuggirebbe che è, sta per il tutto, perché viva l'organismo tutto, scopo comune alle altre cellule tutte. E' come dire io sto perché la realtà viva di me, anche grazie a me. E perché allora questo dire, questo concludere avrebbe dignità, non saprebbe di favola, mentre pensare a te, bella del cielo, è sicura ingenuità, calarsi, vivere nel mito e del mito? Io potrei dire, sto per l'amore della bella, che senza me proprio non vive! E me ne prende vertigine, ché più oltre andar vero non so, ma incentivo ne ho in mezzo a questa natura innamorata, e non sa di chi e non sa perché, a guardarmi dentro, fuori i crucci cacciando e lasciandoveli, o sperando di poterlo fare, e le tristezze loro. Perché se anima ho, se ne sta velata da brumosi veli, dispetta, nascosta in una latebra, ma le palpita primavera nei sogni suoi e si lascerà così scovare. Ecco ritroverò l'intimo mio più recondito, il vero me, quello che è capace di avvertirti e godere della presenza tua misteriosa, è quella l'anima mia! Ritrovare me stesso e te in esso è un tutt'uno! Uno il compito, una sola l'impresa ardua, e se esso trovo, è te che trovo, e se te, è l'anima mia che avrò riscoperta! Tu sei la vita della vita mia tutta, e se tu più non la sostieni essa muore tutta, ogni mia vita, ogni coscienza di essere ed esserci qui nel mondo delle apparenze brucianti o là nel mondo promesso e anticipato nel sogno, quello della pace e della gioia. Morte è ogni altra cosa e quando pur'essa morirà, ché tu la vincerai al fine, quest'aridità che deserto mi fa talvolta dentro e fuori, fiorirà. Eccoci allora tutti fiorellini del tuo prato e ci sono gli amori tutti e i miei perdonati e io stesso, che lo sono stato per qualcuno, mutato, e questa mia donna perla fatta. Attendiamo tutti il vento che scenda dalle vette del cielo, vento amoroso che rechi polline fecondo di vita, la tua immutabile. E mi torna l'immagine di te giardiniera che ti chini a farci bere, a curarci, ad accarezzarci...Sì, proprio non mi riesce di non sognarti!

domenica 23 settembre 2012

Il male e la speranza


Ecco, mi chiedo, ha legge il male, cioè segue sue regole arcane nelle manifestazioni sue e segue criterio nella scelta di chi colpire? Ha freno il male, cioè c'è qui chi o che di valido gli si oppone, chi lo conosce a fondo e sa come schermare, far scudo, chi ama e sé? Esiste chi, in onestà scrupolosa, sfrutta tutte le conoscenze attuali e le risorse per prevenirlo o estirparlo, insediato che sia, da corpo o mente? Ha qualche pudore il male, risparmia le età estreme le più indifese ed esposte dalla immaturità o precarietà delle difese di mente e soma? Sì, ha delicatezza con i piccoli e li porta via col minimo dolore e pianto, ha pietà dei vecchi, ne abbrevia rapido le sofferenze? Ha misura, gli si può porre un limite, un freno? No è solo una vergogna lebbrosa quel che fa ed essa divora questo mondo! Ghiaccio fa con i lutti suoi in noi e attorno. E l'uomo potrebbe erigere barriere insormontabili, vegliate da fiere latranti a difesa, non ne avrebbe riparo alcuno. E si illude la paura mia coi pensieri suoi affastellati di far rete grovigliosa attorno al mio cuore a nasconderlo e a proteggerlo. Le sue sono tortuose vie, che da esso uscite, vi tornano, e il male le seguirà ostinato e rabbioso come in labirinto, e raggiungerà al fine la mente prima, tutta sconvolgendola, e poi il corpo devastandolo. E sarà il dolore, poi la fine senza dignità, nell'abbandono forse, di tutto privo fatto, di speranza, d'amore, di te. E tu scovarlo potresti nella laidezza sua turpe, nascosto in scoscendimenti abissali e bui e strapparlo da mente e corpo e ricacciarlo, tappandovelo, nella gehenna da dove esce, ché quella ha bocca grande e spalancata, e non lo fai! Da lì proviene dacché angeli perduti, denudati si sono della bellezza loro per rivestirsene, e ostinati ancor sono, senza il ravvedimento, che in amore muterebbe il tuo perdono, che a quello li invita e ignorarlo vogliono. E, nemici tuoi tuttora, la loro vergogna divora il mondo e l'umana famiglia soggioga e ti strappa e fa dolore al cuor tuo, e finestra ad esso il pianto nostro. Ecco questo il male, veste così gli iridati veli del mito, che nulla aggiunge, nulla spiega, dice e vela. Ma giustificar pare perfino l'umanismo d'oggi, esasperato e disperato, che enfatico nega a te gli attributi di perfezione e onnipotenza e fa dio l'uomo stesso, idealizzato e idolatrato nelle illimitate possibilità sue, in una religione laica e atea, non meno mitica e inconcludente della tradizionale. E poi anche per i novelli pagani c'è il gran nemico, viene e lo segue la malattia, il dolore, la morte. E i nuovi miti, quelli mascherati dal linguaggio scientifico, esasperano la mente e, se debole, fino alla follia, più dei vecchi dal sapore di innocue favole, e lasciano che l'anima, nuda dei sogni suoi, si impantani e le fanno vestir veste sconcia di vigliaccheria, ché fiacca e molle si fa l'esistenza e sta tra anime di edonisti porci, che sono qui molti, sì, di quelli che s'aggrovigliano nel loro sterco e lo dicono piacere. Oppure essa desidera solo imbelle inoperosità, poter non pensare, e svagarsi nel sonno, ché sogni belli talora sono quelli delle polverine, ma che tutta la divorano e il corpo anche. Ecco ancora e ancora il male e fugge intanto la vita, ché tutta la tenebra s'è addensata per impedir che raggio dal cielo tuo la ridesti, la faccia palpitare di speranza e le riaccenda la fiducia. Che fare se la salute non avanza, anzi si rattrappisce tutta, e il cuore singulta lacrime amare? Chi allontanerà la soma spaventosa di cui s'è fatto carico il giovane cuore che abbrutito s'è, mandando in frantumi la dimensione morale e spirituale per gli assordanti miti dell'oggi? Chi lo sgroviglierà dal male, se parlare di valori, di fiducia, di bellezza, di bontà, di cielo, di te, dà noia al solo sentirlo di lontano, come ubbie di generazione sorpassata, che è bene tutta trascorra presto, in quest'epoca in cui tutta s'impenna la materia e lo spirito s'è immeschinito in un aridume di polveroso stantio? Chi se non tu sola! Tu sei in noi, tu sei in me! La salute è in noi! Ma sbrigarci dobbiamo, declina il giorno e forse sarà notte senza lumi! Ecco, qui gli stolti che nulla sanno di te, ma dal motteggiare saputissimo, che, a giudicarlo bene, spuma ignoranza goffa. Tacciano tutti, parlaci tu sola e senza parole umane! Ecco, chiuso di paura è questo cuore, a questa piccola compagna mi stringo, è qui tutta la mia speranza. E' vero che tu non entri nel cuor nostro se spalancata non è la porta e sgombra la via? Ma il figlio tuo entrò anche a porte chiuse e visitò i suoi, allora entra, siediti a questo focolare, che trema deserto senza te. Ecco come già inverno, ma in metafora, ne attizzo la fiamma. E' notte ormai, faville salgono per la cappa alle tue stelle, ma freddo fa, o forse solo io lo avverto intorno, avendolo nel cuore, stretti ci siamo e una coperta sola par poter difendere entrambi, ché la compagna qui rimane, decisa a riscaldarmi. Aspetteremo così senza scambiarci motto, tutta la notte, forse ci addormenteremo e nello stesso sogno saremo, e poi la nostra vita albeggerà forse là dove sei. Oh tu lo voglia!

venerdì 21 settembre 2012

Il nome che non so


Perfino al fiatar dell'attimo, ombre minacciose par si affaccino sulla ormai fragile condizione mia, qui già tanto precaria. Son la minaccia del nulla? Oh tu non voglia! E il nome mio sull'onda mutevole del tempo già logoro, più e più s'espone alla fine sua, come effimero scritto sull'acqua o sulla rena, e io poco o nulla ancor so dell'amor tuo, forse perché non si svela ai tumidi d'orgoglio nessuna verità. E come ti chiamerò, affinché nel buio incipiente tu la luce della presenza tua m'accenda, basterà, madre? E ora questo mio vivere qui, già nell'assurdo, mi s'è fatto dolore, ché il male m'espone alla paura e a mediocrità di vita, già limitata e stretta nelle vicissitudini sue. Sì, eccomi, completamente indifeso, esposto al male, a questo che so e ad altro forse già, e lo ignoro, ma supporne la possibilità lascia mi senta più piccolo e meschino, quando alla notte, complice l'orrore di restarvi solo con esso, mi fa balbettare più e più il cuore e m'avaccia bolsa la lena. M'accade così e tu forse lo permetti, benefica la paura a chi forse umile vero non è, e ancor l'orgoglio ha dello stupido, che da te l'allontana! E se di te quasi tutto vero ignoro, come guarirmi tu stessa potresti? Ho io tanta fede da meritarlo? E così mi ritrovo ipocondriaco, indegno e dubbioso, e poi cos'è questa smania che mi prende di saper di te il vero nome? Oh se vero sapessi il nome suo, mi ripeto, l'invocherei per la miseria mia, e per chi amo e chi, candidato al suo perdono s'è, e così alla mia speranza d'amore, là nel luogo dell'amore suo! Nome il tuo che certo significa che bontà e bellezza “ una esse”, ma che donna alcuna di qui aver può. Non perché raro sia che qui una bella e buona sia trovata, ma se sì, solo rimane una che di te significa, icona tua a chi l'ama, ma chiamarsi come te non può, unico il nome vero per ogni persona a significarla, che le dà e si dà il dio! E tu sola sai il nome mio e mi chiamerai con quello e io certo capirò che proprio me chiami! Il tuo è nome di chi, madre, tutti ama, figli, e sa il bene e le vie sue per ciascuno d'essi, e s'adopera che le imbocchino, mentre lascia che stille di felicità già qui cadano sui loro cuori dalla vita di qui quasi subito provati o morsi. Nome che sa d'amore e gioia eterni e qui prologo già ne fa a cuore degno, nome di chi è presente in chi soffre e consola e apre alla speranza e dischiude a lui il cielo di miriadi di stelle, quando tutto vuol negarsi e farsi buio fitto, di barlumi avaro. Nome di chi sorride all'innocenza, nome di chi il piccolo protegge, guida, consola e se la vita lo rifiuta in sé l'accoglie, ché non si perda nell'immensità del cielo. Nome che gli angeli buoni seconda alla preghiera accorata e i tuttora malvagi, quelli il cui ravvedimento tarda, fa fuggire. E tu dal nome arcano dove vero sei? Ti cerca e cerca il mio cuore e in questa dolcissima t'ha sperata! Ma dove sei veramente? Sei dove il buono sorride all'innocenza dei piccoli, dove e in chi alberga la giustizia e dove la verità opera sui cuori con tutta la bellezza sua e dove mette cespo e si fa rigogliosa e bella pianta? O sei vero anche in questo mio cuore vecchio, che di bizze sue tutto m'impaura? Oh potesse quest'anima greve impennarsi di candide ali, azzurrarsi nel tuo cielo e raggiungerti! Le diresti lì il nome tuo e lo ricorderebbe la mente mia in sé tornata? Ecco ora questa donna guardo, come fuori del mio sogno, che sempre in sé la vuole, s'è fatta più piccola,ha bianchi i capelli e rughe un po' sul bel viso, ché anche per lei avanza ingrato il tempo, ma delizia la pupilla mia tuttora e l'anima mi s'accende di luce al solo labbreggiare il nome suo bello! Perché di simile non fai del tuo, col permettermi già qui che l'anima mia lo balbetti, anticipandomelo sulle mie labbra arse d'amore inappagato? Col dire il tuo evaderei certo dall'asprezza di quest'ora e forse a te evaporerei di gioia per raggiungerti tra le stelle, dove questa tua donna attendere. Nome che, pronunciato da umiltà sincera, certo l'universo innamora, nome che dà la vita o fa sì che essa possa chiudersi serena al suono suo sulle labbra o nella mente. Nome che chiudere dovrebbe ogni preghiera, ché miracoli di vita ne vengano, fiorendo il bene, impaurito e fuggito il male! Nome che sarebbe tutto per la mia volontà di bene, che vorrei diffuso, ed essa lo ignora! Esso fugherebbe della notte l'orrore della mia paventata solitudine e non permetterebbe al cuore che i palpiti suoi balbettino di paura. Oh sì dimmelo e lo terrò segreto o lascerò l'apprenda chi t'ama, come e se tu vorrai! E forse sillabarlo dovrai, ché giusto l'apprenda, sulle labbra tue con pazienza come fa madre che ripetere voglia sentirsi, mamma, dal piccolo suo. Io, appreso che l'abbia, certo lo balbetterei d'emozione e mai sazio sarei di ripetermelo e di gustarlo in tenerezza d'amore e ai malati che so darei speranza da cuore fattosi più innamorato, e forse di guarirli capace sarei, vero tuo medico allora! Sì, lasciamelo cadere nel cuore, o dillo alla donna mia se più degna ne è, me lo ripeterà nella tenerezza sua per sognare insieme di te!

sabato 15 settembre 2012

Donne sognate


Come, qui stando, talvolta ad orto, tutto di scuri nembi coperto, s'apre uno squarcio che di chiaro azzurro il cielo svela, ma il sole tutto velato vi rimane e non sai dov'è, se non che è da quella parte al mattino, così questa donna, dal cuore sempre generoso all'amore, di te mi fa, svela e scherma, io non sapendo se ti mostrerai dopo un sorriso suo, o già lo hai fatto proprio con quello e subito passata oltre sei, da altre cure presa, o ancora da nuvole minacciose nascosta. Sì, da fatti che nella nostra vita a due dolore sempre fanno e buio, e gli occhi belli suoi spengono e fan fugace il sorriso mo mo nato. Ma come or ora singola ape vedo esplorare queste infiorescenze d'asparago,tutte di stelline coperto il cui sboccio la recente abbondante pioggia ha certo favorito, così tu di simile mi fai, e per lei solo, i miei pensieri tutti esplorando, come talora donna innamorata sua arte tutta mette per leggere dell'amato suo il profondo. Ma io ancora non so se a me palese mostrerai il tuo sembiante, o se questo suo fare per tuo conto è tutto e già oltre vai e più non concederai che altrimenti ti vedano gli occhi di questo cuore. Sì, ho, del vero che tu sia per me, solo sensazioni fugaci e tutte questa le trasmette col far suo,col suo curiosarmi l'anima, ma se smettesse, certo per mia difalta, d'amarmi, tu che faresti, come me ne daresti sentore, forse sopravvivendo l'amor tuo al suo? Ecco, io vivo qui nel momento un sogno a occhi aperti. Queste cose intorno sono come rinate or ora, ché ricreate paiono dall'amor tuo e per me, erbe, fiori, alberi e forse l'universo per me è davvero tutto qui racchiuso, e così s'abbella per me solo, ché tu lo vuoi tutto luminoso, di colori più vividi, e così certo ha reso questo bosco la recente pioggia, ma io so che tu così vuoi lo veda, ma potresti anche spegnermene l'incanto e tutto tornare al consueto e prosaico. Allora come conscio che questo sentire mi possa svanire improvviso, così come m'è venuto, lascio che il profumo di queste cose belle m'inebri, e tutto è vero come lo veda per la prima volta, tutto parendomi da te venire solo per il mio godimento, ma anche so che se il suo amore mi mancasse, ecco questo che scopro miracolo da per tutto, son certo, più non avvertirei! E or che le sono lontano come un'ansia mi prende, la vedrò ancora, riascolterò la voce sua calda e melliflua, e le cose che sa dirmi lei sola, dolci d'ogni dolcezza al cuore, risentirò? E allora ne sono certo, è lei sola la mia prossimità a te. Forse per questo solo me l'hai data, ché ti avvertissi prossima, e son certo, se fisso lo sguardo nel nero degli occhi suoi, i tuoi divini incontro. Ma le parole tue per me da lei sono sempre in brevi frasi o nel suono loro, non importa che dicano, e l'anima all'udirle mi si stempera come se così un in un tepore primaverile e aulente, sempre m'abiti il cuore. E allora mi chiedo, l'ho vero amata? E mi prende un disperato sconforto di aver trascurato anche te da lei distogliendo l'attenzione mia anche solo per brev'ora. E le dirò, rivedendola, e lei con le pupille luminose sue a me attenta si farà, vorrei riavere per te i miei vent'anni, per amarti più di quanto allora! Lei forse un po' rimarrà sorpresa, oppure subito mi risponderà che questo solo significa che il bene per lei m'è aumentato con l'età. Piccolo forse era ed è cresciuto, altrimenti rimpianti non avrei, temendo manchi d'amore!E, credo, avrebbe ragione, ma ella non sa che davvero più cara la ho dacché la so specchio di te, lei sola significandoti, e allora darle avrei voluto da sempre tutto l'amore umanamente possibile, e mi sembra che davvero manco d'amore ci sia stato, io distratto da voi due dalle bagattelle di qui. Pur quest'amore è andato e va, lontano dall'invidia e dalla malignità, ed ella è serena se io lo sono, e sorride anche la pupilla sua se gioia di ritrovarla manifesto, e so che canora ha l'anima se le parole dell'amor nostro le ripeto. E' fatta così!Oh quanto vorrei che lo spirito più e più sapesse dominare l'organismo tutto da non lasciarlo andare, ma asservirlo, farlo vibrare dolcissimo ancora e ancora ai cenni di invito di quest'amore e il resto lasciar fluttui nel tempo, mutevole, ché senza importanza è. Ecco così daccapo il ripianto ho degli anni verdi di quest'amore,perché tutta una vita ancora per esso spendere vorrei! E' così proprio, non c'è nulla oltre l'amore, oltre te,e solo l'amore ti significa, dal palpito di cuore innamorato, cui quello di donna risponda, alle vibrazioni degli astri tutti, al rombo di questo mare sotto alle falesie, quando inverno di nuovo sarà. Sì, sono un unico canto, un inno, un'unica risposta all'amore, a te, che per l'universo lo spandi in onde melodiose, affinché cuori lo raccolgano e tuo dono proprio a loro sia! E così con questa so d'aver fatto, ho raccolto l'amor suo e l'ho fatto mio! Basterà per riviverlo nel tuo mondo? Oh che sarebbe ora di me se davvero perdessi quest'amore!Te anche avrei perso! Ma forse tutto questo è solo come un sognare dolce e amaro, e a occhi aperti in un giorno di tarda estate, sì, come se d'inventarmi io tenti mo mo una forma d'amore per voi due tutta speciale, nuova, che temendo la perdita si riaffermi più ancora e più tenace e fedele si faccia a voi due, e allo stesso tempo io tema di non sapervela esprimere, come ragazzo teme ai primi approcci d'amore. Sì, proprio una timida risposta d'amore, che sì vorrei piaciuta, ma allo stesso tempo ne tema incerto l'accoglimento. Sì,la mia più bella per lei e per te, che sempre perdoni, anche questa mia paura, e per lei sempre mi ti doni! Ma così strano è questo amore, una mi invita al suo mondo, l'altra mi trattiene in questo. Sì, proprio questa mi dice essere la donna mia e se lei mi guarda non potrò lasciarmi morire mai, l'altra “meam dicit esse” tra queste cose belle, e le palpebre pesanti or ho, come vero sonno mi prenda o ella mi voglia prendere or ora tra le sue stelle. E così ora so perché quella di qui me la suggerisca e me la veli. Lusingata è del ruolo che le attribuisco di concretizzare l'altra, ma anche par lo tema.
Capirò mai le donne?  

giovedì 13 settembre 2012

La legge d'amore


Deserto di tenebre è ora qui e la sola speranza è nella misericordia tua, e tu, come espero, apparsa sei in questo tramonto di vita e vuoi ricordarlo a me proprio, già errante di umana follia. Sì, sei d’amore la stella e la speranza che esso sia appieno nella tua reggia là fra le stelle belle. Tutti candidati vi siamo e non esiste indegnità che sanata non possa venire e del farmaco tuo tutti bisogno abbiamo, più della aulente pioggia questi cisti, che ala fanno allo stradello che ora percorro, arsi da lunga torrida stagione. E, mai riconoscenti, ti facciamo continua ingiuria con gli atti carenti o brutti dalla propensione nostra al male, ma questi sono stimolo fresco alla tua risposta scontata, sempre benigna, e come se aria pungente il viso ti colpisca, tu ne vieni stimolata e scossa e redimi il nostro orgoglio vano con l’umiltà del tuo perdono. Sì, sei del dio l’umiltà che disarma e sentiamo rifluirci nel cuore la grazia, perché tu e il figlio tuo siete quelli che “corde suo benedicunt”, e quest’universo ci rifiorisce come fa giglio che all’aurora sbocci, ed è daccapo il nostro sì a questa vita, che prologo ora sappiamo alla tua, sebbene tanto carente e angusto. Ecco quanto diversi fa questa legge d'amore, sì, il vostro perdonare sollecito ricompone la nostra umanità sgretolata dal peccato e la dignità morale ridà, quando abbagliati da miraggi di lucro e dominio, di prevaricare abbiamo ceduto alla tentazione perversa. Noi non sappiamo quasi nulla di questo privilegio, che ci viene nonostante l’ingiuria lacerante che di continuo il nostro comportamento ingrato ti fa. La vita morale è assai diversa dalla fisica, è tutelata, privilegiata dal vostro perdono! Questa invece è di continuo minacciata, come veleno corrosivo vi si getti su da quest’ambiente, che attoscato tutto abbiamo reso, ed è la malattia, il dolore sicuro, la morte spesso. E diciamo che oggi, più che mai, vale per la sopravvivenza qui la legge del più forte o di quello che la fortuna di ben nascere, meglio qui adatti, e gli altri, i deboli, gli sfortunati, vi sopravvivono per brev’ora per essere rapiti dalla apparente sonnacchiosa morte. E benché di mille rimedi disponga la scienza medica spessissimo sono inadeguati, o indisponibili per le genti più povere, perché talvolta invano tenta di raggiungerle il braccio della carità tua armato d’ira sdegnata che tanto possa l'egoismo dei più abbienti, perché tuoi uomini speciali vi accorrono tentando di sgretolare l’iniqua sorte dei più miseri col loro aiuto coraggioso e generoso. Ma qui nel primo mondo talora non è molto diverso e come nembi carichi di nera pioggia si abbattono, molti ne restano vittime, se del dio denaro, che apra molte porte, non si dispone e ancora e ancora la vorace morte colpisce. E noi? Neppure riparare al mal dell’indifferenza di fronte a tanti misfatti sconcertanti sappiamo, o far penitenza delle omissioni nostre, o per il meno fortunato pregare. Abisso è il nostro di miseria! Chi lo colmerà d'amore, se non tu sola? Il nostro è un tragico cammino, rara v’è la luce dell’amore, buia è qui la notte della cupidigia diffusa. Ed eccoci nel bisogno e ci urge l’aiuto e nessuno lo da. Il bisogno con l’urgenza sua pressante ci dice che nulla possiamo se soli e nulla contiamo, nulla valiamo, solo pasto all'abisso sempre famelico, nell'abbandono e nel dolore. Ma diversa è la vita spirituale non solo vi siamo tutti chiamati, come possibilità, ma v’è certezza nell’accoglimento, perché nemmeno il peccato per quanto orribile può impedirla definitivamente, se il figlio tuo ha potuto prenderlo su sé, farsene soma, e tornare al mondo da cui era disceso. Egli ha spezzato le catene che impedivano l’accesso alla vita futura del peccatore, questo da allora e da sempre è perdonato ed è già amato da te, che lo consideri figlio, malato e bisognoso. Dovrà però egli ravvedersi con dolore di aver fornito alimento all'indomita fiamma del male. Lo farà davvero, o non s’arrenderà nemmeno all’evidenza dei misfatti suoi? Forse il dubbio è solo una possibilità, cui la mia mediocre capacità umana d’amare, non vuole rinunciare, non conoscendo vero la forza dell’amore tuo. Ma è certo, senza ravvedimento, il nulla, il baratro di non essere mai stati. Ecco tuo figlio t’ha affidato la mia anima, tu mi custodisci e per quanto io tenti di ignorare l’amore, questo non rinuncia e tenta di possedermi completamente a ogni passo, a ogni respiro e vincerà al fine tutto pervadendomi. Tu mi riconduci al suo gregge, io pur desiderando il ritorno m'ero impegolato nelle pastoie di qui, che sempre di te schermo fanno. Tu m'hai strappato i laccioli che prigioniero mi tenevano e io docile ti seguo, null'altro che la pienezza dell'amor tuo desiderando. E do la mano, col piccolo bene tutto per lei, a piccola donna che so ami. So di condurtela anche se spessissimo mi par da lei esser condotto, perché sempre è pronta a lenirmi il dolore, a scusare la mia dabbenaggine, il mio procedere incerto e bolso per quest'erta che dalla meta ci separa e se questa caligine gli occhi tuoi non mi fa vedere, vi supplisce con i suoi. Non è forse di te “ idolum”, specchio, più che icona? Ecco io già ho di te così forse solo una briciola d'amore, ma tutto mi riempie il cuore. Ma quando la smetterò di cullarmici e tornare ad essere io chi conduce, se spessissimo ella sola sembra sapere come andare, e dove, guidata dall'istinto suo, dalla volontà sua di appartenerti? E io non ho più orgoglio di maschio, forse l'ha già redento l'umiltà e non dei mercanti della salvezza mi fido, ma della dolcezza materna di questa, che sempre mi prova con la tenacia sua che, nonostante tutto, sono un valore per te. Io che non ho nulla di grande, nulla d'eroico, nulla del vero cristiano. Solo apprezzato m'ha un piccolo amore, prologo al tuo immenso! Mi fa vivere, mi fa sperare. Ma ora mi chiedo, se la carità tua s'impoverisse del perdono che ne sarebbe? E se io stesso non sapessi perdonarmi e gli altri perdonare che sarebbe la carità mia, se non solo fantasioso isterismo, erotismo tardivo e senile, gabellato per misticismo? Ma tutto il male del mio cuore è vinto, dacché, perdonato, ho imparato a perdonare. Non è questo lo specifico dei figli tuoi, non rassomigliano per questo al dio, non è stato profetizzato fin dall'origine dei tempi: “vos dii estis?”. Sì, siamo figli del tuo amore e un giorno saliremo a meriggiare tra le braccia tue, dalla notte di qui che tutto rabbuia e di paura tutta l'anima prende! Oh se per questo piccolo amore più importanza non avessi! Sì, sol esso mi da forza di gridarti:” vince in bono malum”!

lunedì 10 settembre 2012

Il mio solo dio possibile


Dovrò qui far premessa al mio dire, che le mie aspettative anche se misere, appieno giustifichi, spero in un linguaggio, che non stanchi se metafore che lo rendano leggero so di non avere, descrivendo un unicum di speranza per l'uomo da sempre, che ha fondamento in te, madre dell'umanità tutta. Io so che dire che il presente è del dio il solo tempo, ha implicazioni sulle quali si riflette da molto. Se san Bernardo può dire: oggi è nato il salvatore, è perché pensa incessante la nascita da te, cioè tu hai un figlio divino da sempre, non solo da prima di questa mia epoca, ma prima di tutte, la natività abitando nell'inaccessibile luce del dio, prima che il tempo fosse. Tu lo occulti in te e lo ridai al mondo incessantemente, e dire che egli è nato nella carne, rivestito della tua, è affermare che in un momento preciso l'evento è divenuto visibile,tangibile, ma alcun altro gli è precedente e di nessun altro potrà affermarsi lo possa seguire, perché la sua nascita da te e la sua morte di croce sono perpetue, come le sue parole e i suoi gesti, finché lontana il nostro mondo. Io ho già detto che riconoscersi tuoi figli è da allora possibile. Egli nell'imminenza della morte, t'affidò il destino del discepolo amato, lasciandogli l'illusione che dovesse lui occuparsi di te, vedova e sola, senza altri figli, in un mondo difficile più che mai per la donna, dove lasciarti doveva per brev'ora. Ma come ogni contemporaneo, noi posteri gli siamo fratelli in quest'affido, ma questo ha anche valore retroattivo e tutti quelli già prima stati, che ora sono nel perdono del figlio tuo, vi hanno accesso. Ed è proprio quest'offerta che trasforma la benevolenza sua nel “per donum”. E molte volte ho già detto che intender si deve con questa locuzione etimologica della nostra parola in volgare, ci tornerò a breve. Sì, tutti proprio vi siamo chiamati e tu dovrai generarci al mondo nuovo, ma ora nella gestazione tua, siamo! Essere in te, dover uscire da te per vedere del dio la luce! Quale meraviglia! Si potrebbe dire che il dio ha tanto amore versato in te, che dal piccolo vaso che è in te, di continuo trabocca, e ne esce il dilettissimo figlio e moltissimi fratelli al pari amati e così sarà e così è già stato! Oh inesauribile bontà del dio! So che la mia immagine è metafora, come dicessi che quanta acqua venisse dall'oceano in un piccolo seno tanta ne uscirebbe, ma ogni immagine povera sarebbe a illustrare questo mistero d'amore. Ma almeno chiaro a me è perché occorra parlare di “per donum”, oltre quello che dalla povertà della nostra condizione umana, potremmo mai sperare. Perché noi riceviamo più di ogni immaginabile dono, abbiamo in perpetuo una madre! E come ogni sacramento è la tangibilità del dio attraverso un evento salvifico, che in quanto permanente, si realizza ancora e viene percepito attualizzandolo, così questa immagine di te è il sacramento, che apre una finestra su una realtà altrimenti nascosta. Sì, tu produci il mondo sovrannaturale perché di continuo lo popoli, generando alla vivente chiesa di qui nuovi figli, ma alla celeste anche, e la redenzione è consistita, nel permetterci, tu consenziente col perpetuo rinnovo del tuo “fiat”, di farci fratelli del figlio tuo diletto e seguirne il destino d'amore. Destino che non esclude però la prova e il dolore, né la morte, come già per lui. Occorrerà salire un calvario personale, ma dopo sarà la rinascita e la luce ancora e da te sola. Ora io credo che il figlio tuo si persuadesse, il suo salendo, e tutto cospirava rendere plausibile la sua convinzione, d'esser la prescelta vittima sacrificale della malvagità umana, che i peccati scaricava sul capro immacolato nel rito della purificazione, che simbolo ne diventava assumendosi ogni macchia, presupposto il pentimento vero dei partecipanti tutti, e lui anticipò il suo sacrificio nella fiducia che il pentimento dei suoi e di ogni altro, sarebbe al fine venuto! Ma vittima sacrificale fu questa, padrona del tempo, ed egli poté dare un valore perenne al suo sacrificio. Ora tutti beneficiamo di questa fiducia, che ci permette di stare in te perdonati e costituiti fratelli suoi. Egli non chiede nella chiamata sua garanzia alcuna, ci sa non buoni, ma sa lo diventeremo e ci accorda fiducia, e sarà così perché egli non può essersi sacrificato e continuare a farlo, invano! E, come Paolo afferma, quando sarà che il male ci colpisca con ineluttabile evidenza, contribuiremo con ciò che manca alle sofferenze sue, come tu stessa facesti col dolore tuo, lui pendente dalla croce, per un evento che sempre si rinnova, nell'azione sua salvifica. E tu tanto gli somigli che nella fiducia ci anticipi il tuo amore dal più dolce e tenero cuore di madre, e la stessa carità che hai per il figlio divino ci assicuri generosa. E come egli ha tanto sublime amore per te da non distinguerti più dal padre, così tu fai allo stesso modo, amando noi all'inverosimile. Niente di più sublime è concepibile, condividiamo il destino d'amore con cui le persone divine si amano! Ma per ora il nostro contraccambio adeguato non è. E' piuttosto manco e il poco che c'è, è completato dalla violenza. Ché violenza è assillarti di richieste d'aiuto dalla miseria nostra. E più che esenzioni, qui umanissime e giustificate, tanta è la carenza di luce e di pace e così forte la minaccia del male e del nulla, altra risposta ti dovremmo! Sì, dovremmo occuparci d'altro, così sarebbe buon motivo di carità, il farsi essa palese, sempre in evidenza, noi sostenendo col gesto e la parola la speranza nel fratello, con un comportamento, certo non perfetto, ma chiaro anelante alla virtù, adeguato alla presenza nostra già in te. E tu costruisci il mondo della luce e della pace a misura dell'uomo nuovo, che da te verrà fuori, e che dovrà abitarlo. Io dalla pochezza mia, m'attendo un piccolo modo d'essere, adatto alla spiritualità mia e di chi amo, un luogo sì di luce, pace e bontà ma piccolo e bastevole. Ecco, è lì che il nostro già mondo di due sublimarsi potrà. Così scopro il mio modo di somigliarti, non con la purezza del cuore, che tante contrarietà hanno offeso e fatto triste, che sempre s'è qui ritrovato nella corsa della vita in vicoli ciechi, ma nell'umiltà, nella pochezza delle aspettative, che pur mi contenterebbero, e temo di non aver altro per te, il resto mio è follia, caleidoscopio di follie. Da farmi temere che tu di me ti stanchi. Ma da chi andrei? Chi per me avrebbe parole buone, che cosa fonderebbe la speranza di rinascere diverso? Tanto misero sono che nemmeno il gregge d'Epicuro m'ha voluto, eppure accetta porci! Ma almeno invidioso non sono, uno che di forgiarsi è capace un dio strozzino, un dio che pretenda l'esoso interesse sulla fiducia accordata, da far sogghignare folle, e dirsi: se questo a me tocca forse più ancora pretenderà dall'altro, da quello la cui fortuna non ho tollerato di vedere, ho invidiato appunto. No, così io non sia mai! Allora tu sei il mio solo dio possibile, una madre pronta a scusare la mia dabbenaggine, questo mio procedere goffo nel mondo della carità. Poiché ti so tutta bontà, buona con me già sei e sarai là dove tutto è carità! Ecco, ho ancora detto tanto, ma in fondo che, chi sono? Il poeta nostro direbbe: io mi sono uno che..., ma io proprio non lo so, forse solo chi ancora ha la forza di pregare umilissimamente che il tuo mondo vero sia. Perché? Vorrei tu vi supplissi ai miei manchi d'amore! Ecco, qui m'ha fatto caligine il male e il mito t'ha schermato, si specchierà mai l'anima mia fatta pura nel vero?

sabato 8 settembre 2012

L'idillio della vita


Mai dirò abbastanza della donna che della presenza sua fa qui idillio, atmosfera incantata e sognante in cui palpitar può la vita. Non facile questa mai e non bella talora, in cui spesso il cielo si vela, e s’abbuia la notte, e si grida all’aiuto e quasi mai v’è altri che risponda, ma in cui ella, se ci è vicina, può far dolce oblio del male, non lasciarci perder nel buio della notte o nella vaghezza di sogni antelucani impossibili, ma farci varcare per brividi l’aurora che porta il tuo sole, se lascia di te balenar la presenza dolcissima. Anela la mente per istinto alla luce del vero, ma può perdersi in ragionamenti cavillosi e falsi e non raggiungerti, ebbene ella può condurci, guidarci, spiegare spiegandosi, lasciando capire della sua ricca umanità il valore e il fondamento, e così dischiuderti, lasciar che ti comprendiamo un po’ o molto, svelando l’intimo del suo cuore, che reca dolcezza, sì, sempre di te, ché questo sei. Oppure può l’anima arenarsi per l’erta di vita, che a te mena, in un fideismo da isterico devoto. Ebbene ella può correggere questa tentazione, questa devianza, che sa di superstizione e paganesimo, lasciando intravvedere le delizie dell’amor tuo casto, anticipandolo nel prologo, che l’amor suo, solo umano, ma inestimabile per la ricchezza, può donarci nell’innamoramento. Insomma vero disperato nell’anima è qui chi di madre mai carezza ha avuto e il sorriso, o quelli di donna innamorata, nullo sentore potendo avvertirvi della dolcezza tua. Ma poi anima che è? E’ il garbuglio dei nostri sofismi egoistici che preservano l’intimo, il sé, o la sede degli aneliti più puri, che pur nel fango ci fan guardare al cielo stellato? Allora se è anche questo, preziosa è l’anima della donna, che lasciandoci dimorare in essa, ci dona del suo, bello e buono, del suo bene, del suo respiro, della sua vita ed ella mai permettere dovrebbe che l’amore scada nel vile e nel triviale, che significano separazione e allontanamento da te. E io ormai più non temo d’apparir vecchio, d’idee confuse, che bofonchino di virtù forse mai sfiorate, e melenso e retrogrado, incapace di capir lo spirito dei tempi. Sarà pur vero, ma della donna ho capito l’importanza e mi faccio orgoglio di questo sapere. Forse è vero che non vi so tutto leggere, femmina rimane a me mistero, ma anche tutto il resto m’appare ormai confuso, un blaterare bolso, inteso ai primi posti nella corsa alla vita e ad ottener della donna,a torto fragile creduta, i favori, quella che spesso par s’agiti sbattuta da contraddizioni e senso di inferiorità, che vero mai dovrebbe avere, per non donarsi al bruto vile e poi pentirsene. Ella invece ha destino più impegnativo rispetto al maschio e deve essere forte in sé per ciò che la vita le domanda, ma pur cerca da quello ciò che invece spesso deve dargli, sicurezza anche e protezione, ché quello quasi sempre è fragile pur sotto apparenti doti. Ella dovrebbe sentirsi di te l’icona e non del maschio la faccia speculare con le stesse carenze e pulsioni e tormenti e annebbiamenti. Così l’umanità, senza femmina consapevole, galoppa all’abisso. Invece se in alcuno v’è asilo per la pace in cui germogli la vita e quella virtuosa attecchisca, è nel cuore della donna. Ha la virtù, che non consiste nell’esser perfetti, non essendolo alcuno, ma di non lasciarsi impegolare nelle gore fangose, e di scamiciar mente e corpo dei fantasmi illusori, dei luccichii inconsistenti, e non lasciarsi irretire, lottando le lusinghe dei falsi, e cercar di non perdersi tra le polverine dei raduni assordanti e, se presa, può uscirne, lottando con più tenacia, se aiuto le si dà. Ma più ancora capace è di lottare per la salvezza dei suoi e personale, perché talvolta è conscia di vestirsi dell’abito inconsultile tuo e andarne orgogliosa, e d’esserti specchio, concedersi la vanteria. Talaltra, non ha la consapevolezza dell’importanza di farti percepire prossima, nella carità e nel soccorso a chi il male prende, ma comunque lo fa dalla generosità che le è propria. E poi è sempre colei che ci sorride piccoli, raccoglie i nostri sogni, canta e ninna, e dice le fiabe, e soffre con chi di noi soffre, attenta, premurosa, soccorrevole, e sa gioire delle gioie nostre sane e ridere, da lasciar prorompere la sua gioia intima, e il suo sì alla vita in ogni circostanza. E in fondo il maschio è un piccolo bambino sempre, da teneramente cullare e soccorrere e sostenere e incoraggiare. Sì, dare al maschio la consapevolezza di toccarti e che esso proprio dimori nel tuo amore se il suo umano contraccambia. Ecco il compito, prezioso, precipuo della donna qui, e lo fa, lo tenta per istinto, anche inconsapevole di ciò che, autenticamente bello, le sfugge dal cuore. Ecco, una donna può aver sciupato tutto di sé, essersi trascinata fino al ridicolo delle apparenze di una giovinezza voluta prolungare, ma ormai di trascorsa bellezza, e temere il baratro del niente, l’amarezza della vecchiaia e dell’abbandono nella solitudine, l’inutilità della corsa alla carriera, ai figli, all’amante, della dedizione a compagno mediocre e immeritevole, ma d’una cosa può sentirsi sempre fiera, averti portata tra noi. Ecco, solo così ti vediamo, per essa non altrimenti, e ti ascoltiamo e siamo con te e in te, tanto da poter gridare: che importa il resto? Sì, solo così possiamo gridare al cielo che vuol chiudersi, in cui pur s’affoltino nuvole a lor capriccio, il nostro sì alla vita, e nulla potrà vero vincerci, nulla vero perderci, perché se dimoriamo tra braccia di madre, di sposa, d’amica, dimoriamo vero nel tuo amore!”Dulce pro vita viri foemina”!

mercoledì 5 settembre 2012

Fin dove può l'amore


Sicuro accadrà, il fascino tuo piegherà il male! Quando? A breve per me e per chi amo spero che anche sia, ma poi. Stanotte, bella riapparsa sei nel mio sogno e tanto vi ti avevo inutile atteso, e t’ho fatto carezza sul viso e tenera hai permesso lo baciassi, così da non poter che continuare a sognarti a occhi aperti. E questo trasognare assai più ingenuo mi fa e sprovveduto qui nel mondo di tutte brutture, ma in compenso credere mi fa che tutto ti sia possibile. Così che il bene da te non possa che divenir suggestivo, piegare tutti a sé, ma anche sanare gli offensori dell’insania loro e, paradosso, così far giustizia a chi ne è stato vittima. Insomma penso che la giustizia tu soddisfi col perdono,"per donum", la sanità ridonando a vittima e carnefice suo. E che a te solo riesca. Ma come? Tenterò di dire quanto ho capito di questo tuo mistero d’amore. Ora il bene, al fine trionfatore, giace avvilito perché selva inestricabile ha qui fatto il male. Qui le radici male si intrecciano, si accavallano, si contrastano e lottano per l’humus e le avvilite, buone, stanno appena e vivono del poco che le prepotenti tralasciano. Così, qui alle pianticelle buone raro permettono rigoglio ed esse mai ben fan cespo, perché contrastate sono anche nella corsa alla luce. Ecco ne fa metafora questo bosco,nei giorni passati il sole e tanto, ora abbondante la pioggia. Ma che se ne giova se non piante già dominatrici? E fuori di metafora, ecco io ti vedo benefica nutrire questi tuoi figli tristi, indocili, e forse vi hai più premura, pensandoli malati, e vero lo sono, insanabili, e della malattia dell’egoismo, forse la più dura e chiusa, perché tutto riferisce al singolo con palese danno dell’altro, nella cupidigia d’accaparramento prepotente.
Sbagli in tanta dedizione premurosa, sciupi del tuo per l’immeritevole palese? Ma è giudizio umano questo e troppo oso perché mai figlio del padre o della madre credere dovrebbe che ombra ne veli l’operato. Così il male anche si insinua e quest’audacia è pretesa folle di giudicarti. Tu certo non erri coi figli tuoi, sai che hanno inclinazioni diverse e il futuro loro ne resterà condizionato, pur offri a tutti uguale dedizione, affinché ben partano, poi sarà che alcuni camminino verso il bene, altri si perdano per le boscaglie del male, asservendosi alla morte, la loro certo, e quella del fratello, desiderandola dall’invidia loro accesa, e attuandola per perfidia. Ma ecco pur questo è solo giudizio umano, qual sia la sorte loro tu ne anticipi per vie misteriose la comprensione e il perdono, ma per elargir dell’amore la tenerezza pretenderai il ravvedimento, ma anche lo renderai possibile. E perché lo dico? Io amarti non potrei se non ravveduto col pianto delle scorrettezze mie, che di te schermo farebbero. Ma tu mi vuoi in contraccambio d’amore,e forte ne è il desiderio tuo che inappagato non può restare, perché vero m’ami! Ed è fondato questo mio argomentare, penso che a tutti accadrà quello che già qui io ho sperimentato, è solo psicologia simpatetica in fondo, sono uomo innamorato e all’amata ho chiesto perdono delle difalte mie, e questa m’ha dato l’empatia sua, e a tutti la darà, quando richiesta. Ecco, vengono su dallo stesso humus pianticelle di grano e di loglio. Difficile è distinguerle mo mo nate, e poi sarà un inestricabile groviglio di radici e non ne sarà possibile la separazione senza danno delle buone. Ma al momento della mietitura sarà la diversità delle spighe loro a permetterne la distinzione, e il mietitore accorto a colpo d’occhio potrà separarle nel manipolo. Metafora è questa di quello che qui accade, ma mentre il mietitore umano non avrà interesse a conservare le spighe dannose alla buona qualità della farina che ricaverà alla macina e le separa per bruciarle, farai tu di simile? E non hai forse avuto un’apparente predilezione per i tristi e i ribelli, pensandoli solo figli malati, bisognosi di più premura? Certo, allora non ti contraddirai e dovrai sanarli, mutarli! Arduo, impossibile compito se umano, ma non per il dio, per te, che hai dato la vita al mondo bruto. E allora la parabola del ben accorto mietitore forse si precisa così: state attenti all’abisso di fuoco della gehenna sempre spalancato sul nulla, duro è pentirsi, duro ravvedersi, duro è salvarvi, se vi ci cacciate! Io forse non so ben esprimermi e ho metafore poco acconcie, ma vedrei te, sole, irradiare luce e calore e inondarne questi trapassati malati, anche della rugiada del tuo pianto. Questi sono ora qui già morti e camminano sull’orlo del nulla ignari per ora del rischio. Ma tu alla fine li sanerai, strappandoli all’abisso vorace, o meglio li resusciterai come già tuo figlio, che col pianto ottenne che Lazzaro tornasse, “qui vocatus est a monumento fetido”.
E di noi? Non hai forse temuto per la sorte nostra di figli incauti e ingenui troppo, da poter esser divelti, scerpati per sacrilega mano e i nostri umili fiori sciupati al vento ottuso e noi rimanerne disfiorati? Ché danno, malattia e morte al fine ci hanno pur raggiunto! Sì, tante, troppe volte hai perduto nella cura di questi altri figli, un dramma che si svolge in un arruffo di ombre e pianto. Ma ben le pupille nostre, rese pure dal lavacro del dolore, dovranno vederti, amore che perdona! E il loglio pure sarà raccolto e mutato in buon grano per i granai del cielo! Perché quando tutti i segreti dei cuori saranno palesi chi potrà dirsi puro? Tutti dovremo mendicarti perdono! Ecco il tuo avvenire di solo bene s’appresta, era lontano e s’è fatto immediato. Chi gli resisterà? Si compie la speranza e già ne mostra balenii di bene all’orizzonte. Ecco, lascio questa vita, forse mal spesa e già trascolora nella tua beata. Che più temerò se la gehenna stessa tutta svuotata degli abbruciacchiati suoi sta per essere? E’ ingiusto? Ma l’amore scorda la giustizia, o meglio la attua secondo le ragioni sue e nulla è superiore all’amore! E io voglio da quest’amore l’impossibile: sì, grida che ami il tuo più brutto! Eccomi sto brutto tra le erbacce sterili, ma ho sperato, t’ho sospirato e amato nelle donne tutte e in questa tutta speciale t’ho creduto raggiunta.
Basterà perché ti ricordi di me?

martedì 4 settembre 2012

Amore che torna


Ecco questa tua è una comunità di vita, io mi ci sento per destino, arreso e fattovi schiavo, ma d’amore e tutti lo sono qui di qualcosa o qualcuno. E tu di chi subisci la soggezione? Forse di tutti in questo strano reame che ha la regina sua, “parva puella” per tutti, ché l’amore sì doni e la gioia, ma per te dipendi dagli altri, perché sorridi se gli altri lo fa, mentre peni di ogni tristezza e dolore, s’è alcuno li avverte. Sì io son qui e più non corro, ché la vecchia condotta di difesa nella fuga più non vale di fronte al dolore, e me lo ritrovo tutto nel cuore! Eccomi tuo specchio, faccio quel che fai e dico le tue parole, perché sublimata s’è questa vita, s’è fatta luminosa e feconda, ma non sono esente dal male in cui cuore e corpo indugiano. Ora però ogni tristezza che faccia ombra a un cuore, pur dove folgora il sole, è la mia, e ogni dolore, che scampo non dà nemmeno nei recessi più romiti e bui, lascio mi prenda e a me fermandosi, forse di sollievo è un po’ questo farmi scudo a chi ne pena. E sono felice di somigliarti così, ma è mia debolezza chiederti: “serva me defende me ut rem ac possessionem tuam”. Ma se vero virtuoso fatto, vi durerò? Tenterò di dire come io viva questa perplessità e la paura di fallire ancora, e vi tenti rimedio. Accade talvolta che gli eventi siano così pregnanti che quando Morfeo alle vaghezze sue ci cattura, ci sembra che quei vissuti continuino, oppure è lì che ciò che preoccupa da desti si aggiusta, o si accentua con affannose risposte dell’inconscio. E a volte si rimane perplessi al risveglio perché lì lì non sappiamo se un accaduto sia stato completamente reale o vi abbiamo aggiunto, e le risposte a un problema che ci assilla, adeguate nel sogno, sempre fragili saranno, ma inquietanti talvolta da influenzarci da svegli in qualche modo e misura e la razionalità non ne giova e certe paure ne riescono addirittura aggravate. E io nel comportamento onirico condizionato sono dai fantasmi di sempre, che mi raggiungono e debole sono per certi vividi ricordi e capita che mi ci ritrovi sconfitto, immeschinito da una tristezza che gela, che trovar mi fa come in vicolo cieco, dove non so e come mi ci sia cacciato e se sia desto o no, e lì mi so solo, mi ci vedo sporco e brutto, e mi ritrovo piccolo bambino che nessuno intenerisce o innamora. E poi mi capita di avvertire la pace del tuo sorriso come sfumata tutta e più vederti non posso, nemmeno in questi occhi buoni, che sembrano intuirmi la pena e mi guardano certo da cuore accorato. E’ l’angoscia daccapo, che iniziata nell’incubo, si continua da sveglio! E questa donna sì mi ripete: ma tu hai ora me! Ma come mi separi da lei una distanza e un gelo, più non la intendo bene e più calore non ne avverto, m’è come estranea! Ma mi ritrovo nella sua mano tenuto e a camminare, stracciato, sporco e affamato. E questa donna che mi conduce bambino è ora magra e stanca, smarrita e imbruttita ed è la mia pur giovane madre, che tiene me e mio fratello dall’altra mano e c’è un vociare intorno di tutti, che gridano e invocano dal cielo, o forse scongiuri ne fanno, o frettolose preghiere dicono, e cercano scampo atterriti dalla sirena che preannuncia morte imminente dal cielo in questa stazione di guerra, Trieste forse o più su in Istria, in cui mio padre non c’è e qui avrebbe dovuto attenderci, fuggiti da Pola. E poi è tutto uno squasso e un rumore assordante e grida e pianto. Ma ora son di nuovo adulto e questa mi porta e sembra saper dove, quel ricordo è svanito e chiarito m’ha perché ho in odio le stazioni tutte e i treni che vanno e di più i soppressi o quelli annunciati che mai arrivano, e gli smarrimenti tra la folla, di sempre frettolosi o sbandati o indifferenti. E siamo soli in questa petraia senza anima, che indichi la via o dica conforto di parola, o ne faccia gesto, o presti in alcun modo l’aiuto suo, tutti si son fatti larve nascoste nell’egoismo loro e vi rosicchiano e vi sbavano! Ecco di nuovo il vento, che porta via le mie parole e gli occhi acceca di polvere e fa tremare questa piccola donna, che invano rivesto di quel che ho e le sta abbondante, ma non basta nemmeno l’abbraccio premuroso a difenderla scudo facendomi alle folate ottuse. Ma forse è una visione ancora, perché ora procediamo in calma apparente e io la seguo docile e non faccio più motto. E siamo ora nella volgarità tra insulsa gente e ilare, e di noi deboli e meschini, approfitta, perché nel motteggio suo ci include. Ma ella va, non so cosa l’orienti, ma la determinazione sua mi da fiducia, e siamo già oltre, e tanto ora sembra spedita e io con lei rincuorato. Forse torna a te, ma io non oso chiederlo e lo fa per una via che lei sola sa. Io non saprei come fare, ché nessuno insegna a ritrovarti, qui superficialità grossolana di pur tante parole e insulse tra crapuloni ilari e il freddo, il freddo dei loro motteggi! Ma questa par sapere e io, docile ai passi suoi, so di tornare, e il cuore spezzato ho nel suo umile e buono, e mi lenisce ogni pena col suo amore tenero tutto, solo umano, o più che umano, se già il tuo è. Ecco due meschini che si sostengono a vicenda, uno inebetito, l’altro determinato che par sapere che fare, sì cerca di te, la luce che sola sa che illumina e scalda. Ma io non vedo luce alcuna e procedo come fa cieco, di lei fidandomi, qui dove par camminiamo tra cose tutte morte o senza senso. Ma ora l’invito a restare e, impietosita da tanta mia stanchezza, tregua m’accorda e io il mio capo alla morbidezza del suo seno affido. Vorrei addormentarmi così o se già dormo sognar di farlo così e scivolare nel nulla, ché ella mi fa carezza e all’oblio mi invita. E così di me faceva la madre cara rimasto solo, privato del fratello amato, e, stringendomi a sé, mi diceva che tutto era stato un sogno, un brutto sogno e l’indomani presto sarebbe venuto con la luce sua e il tepore, sì,a far luce e calore nella nostra sola stanza in soffitta in cui il buio faceva paura non meno del roder dei topi. E allora invito questa donna ad addormentarsi lei pure, e la rassicuro, perché la madre amorosa certo già ci cerca e sicuro più fortuna avrà. Così in un cantuccio abbracciati il nuovo giorno ci trova o sogniamo che così faccia. E siamo forse di nuovo nella tua pace, ché bella signora par passeggi tra i fiori suoi, o forse davvero ne sogniamo soltanto in un bel sogno antelucano. Sì abbiamo fatto tenerezza alla notte e forse i cuori nostri si sono fermati o forse un sogno a due abbiamo fatto, prima d’incubo ora sereno, scaldati alla fiamma d’un solo amore! Ecco tu ritorni, torna l’amore divino a sublimare questo piccolo tenace amore umano e nessuno più rapircelo può! E parole dolci dici e coccole ci fai, tenendoci bambini sulle ginocchia tue. Oh come bello è l’amore e più ancora ritrovarlo! E di questa ti dico:
Parva est puella ista sed apta amori!

sabato 1 settembre 2012

Metafora di te


Non c’è che un tempo proficuo della vita con te ed è questo presente, così pregnante di speranza. Eppoi è il tempo del nostro perdono per gli altri, ma anche di quello personale, per i ripensamenti sul passato, deludente a volte, che postula come certo e prepara il tuo, che speriamo da questa dipendenza filiale che in te confida. Lo stesso figlio tuo divino ne è garante dacché vi si sottopose, non distinguendoti più nell’amor suo, dal padre. Quel padre il cui spirito egli permise trasparisse dalle ferite sue mortali, nel sacrificio suo estremo, quando a te sfuggì dal cuore, tutto di esso ricolmo, punto da indicibile dolore. E poi questo viver nel presente della tua custodia ben ci ridà quella somiglianza a lui primigenia, perduta per l’ereditata tendenza alla cupidigia, il più significativo dei mali morali, che ci opprimono, perché se vero tu ci hai riportati all’innocenza originaria, facendoci tuoi, questo risentirci innocenti, come mo mo ricreati, fonda la speranza nostra di somigliargli daccapo. Ma sappiamo che il padre vive un eterno presente, perché dice di sé: io sono colui che sono. Ora l’originale ebraico, è possibile intendere diverso, e la lingua ebraica scritta lo permette, essendo taciute le vocali delle parole, e suona come: io sarò sempre chi sono ora! Così questa definizione di sé, alla richiesta del nome fattagli da Mosè, aggiunge anche dichiarazione di fedeltà all’uomo e se, nella supposta veridica somiglianza a lui riacquistata, di noi invece parliamo, questo nomarci, definirci fonda la speranza che la felicità attuale perduri: noi saremo così come ora siamo! Ecco, vero nulla sappiamo di lui se non dal figlio tuo e da te svelato. Questo pensarlo così, “semper fidelis”, e di simile pensando di noi, sempre oggetto della fedeltà tua e capaci di contraccambio, tranquillità ci offre come se la nostra navicella traversi ora zona di bonaccia e ne possiamo restar speranzosi di ancora blando futuro. Ma forse viver così e pensarci esentati dai comuni affanni di vita, è come star separati, in una realtà fittizia e melensa di vita, che poco vale se vi indulgiamo. E’ un comune stato dell’animo nostro tormentato quando raggiunta sia una relativa calma, sentirsene come in colpa, e qui appena oltre c’è chi si dispera del male che l’opprime e l’angoscia, e questo sentire acuisce. E non si può esser felici certo che altri stia in angustie, ma è dolce alla fragilità nostra saper ciò che la vita ci risparmia, come sublime ne poetò Lucrezio. Ma io non sono tra chi dalla riva osserva l’immane fatica del naufrago che tenta di guadagnarla, sono uno che sente propria la pena dell’altro, sta, ma col cuore con lui va, o almeno uno che sempre vorrebbe che così gli accada. Sì, io vorrei agire per te, sentire per te, vedere per te, soffrire per te e far qualcosa, tentarlo almeno. Sì devo agire per te, pregare per te, non mosso da superstizione, per il mio vantaggio e l’esenzione, di cui la frequentazione con te forse m’illude. Sì, proprio non essere quello del calcolo, gretto e succhione da pagano novello, che richiede l’ascolto pronto della divinità sua, altrimenti melensa e di nessun pregio. Ecco io vorrei destarmi un mattino e sapermi trasformato in quell’uomo nuovo che agogno. Aprire le pupille riposate alla luce, pronunciare con tono nuovo le parole di saluto a questa donna, già inondata dal tuo sole, e risentirmi palpitare la vita come invito a una attività materiale e spirituale proficua. Cosa da non sentir più episodica ed eccezionale, ma abito naturale e abituale con cui andar incontro al giorno incipiente. Sì, io non chiedo un miracolo solo, ma più. Ciò che mi farà camminare pronto alla necessità dell’altro, col consiglio, col rimedio, esponendo o sacrificando la mia tranquillità e la dignità anche, se occorra per l’efficacia del suggerimento o dell’atto irrinunciabile. Sì, sto nella tua pace, sto nella tua grazia, ma devo condividere tanta vistosa fortuna! Ecco, ora cammino in questo bosco e mi viene incontro da ogni dove una gioia che par prorompere da queste cose, alberi, erbe, fiori, uccelli, minuscoli animali, tutte creature pregne di vita, di te. Ecco, io vorrei esser capace di trasferirla o di suggerirla nell’attenzione a chi pena, o angoscia distrae. Ecco, c’è sempre chi qui s’attrista e ha necessità di conforto. E parlano queste cose belle col loro linguaggio arcano, ridono, vedendo ciò che gli occhi miei cisposi non notano, e forse vero tu passeggi qui scalza a sentir di questa terra il palpito. E quello che della bellezza questo cuore recepisce, ad altri meno fortunati vuole trasferito. Sì, fa che io più non resti indifferente al dolore! Fa che io più d’egoismo non sia tentato e meritare, quando sarà che ti veda, così il tuo sorriso di madre! Ecco, vero io dico al fratello angosciato: tutto s’abbella si incolora e si profuma per noi. Coraggio! E, quando tutto perduto, ancora: coraggio! Miriadi di stelle si inseguono e attendono il sorriso nostro là, nel bel giardino della nostra signora!
Riuscirò, madre in tutto questo?
Ecco, altrove ho fatto metafora forte della nostra vita nel tuo perdono, è come se tu in utero ci tenga, gravida di noi tutti, fatti come innocenti. Vorrei risentirmela quest’immagine significativa e struggente nella mente e nel cuore e gridarti: madre, non rinunciare a me! Qui talora madri in profonda tristezza costrette sono a rinunciare alla vita in loro che si forma e pulsa loro dentro già amore. E questa metafora faccio con dolore, che non avvenga che per tentazione mia all’egoismo e alla mediocrità tu debba di simile intristirti per me. Fa che dal mio comportamento, più che dalle parole mie, ti venga orgoglio e brivido d’amore. Nulla, nulla desidero se non abbandonarmi a te e donarmi agli altri, e vero allora a te, con incrollabile fiducia. Talvolta fa malinconia a questa donna trovare in me incomprensione alle aspettative sue e di simile temo tu possa immelanconirti. Ma questa più timida si fa, silenziosa anche, supplice d’amore, e s’imperla di lacrime, all’apparenza immotivate, affinché mi corregga! E’ tua metafora, o meglio idolum, specchio, che di te copia e riflette, anche in questo?