mercoledì 18 aprile 2012

Mammona

E’ più facile che un cammello passi per la cruna d’ago...Ma poi che è questa cruna dell’impossibilità? Una porta stretta, difficile da varcare per un cammello con la sua soma, o il breve pertugio a misura d’anima nuda, che il tuo santo Antonio dice menare al regno dei cieli? Comunque non varca quella soglia il ricco, o meglio quel che ne resterà, quando la morte di tutto lo avrà privato e lo consegnerà, scialba figura d’uomo, mai al servizio della carità, per la scacciata dalla patria forse pur anelata, ma che forse s’illudeva potesse venirgli al pari delle altre cose, raggiunte facili in questa vita. Non definitivo, credo, l’allontanamento, ma lungo quanto il mondo lontanerà dopo quella morte, che eredità d’affetto certo non lascerà. Egli fatto non s’è veri amici per mezzo del Mammona, pur col lui generoso, ché, anchilosato, mai ha reso il suo disponibile alla carità, rischiandolo! E v’è un bel dire dai saccenti di cose vostre, che il figlio tuo non ha inteso stroncare la ricchezza alle radici sue tenaci e putride a un tempo, nell’animo dell’uomo decaduto, che, dopo la mitica disubbidienza, piombato è nella schiavitù reale del peccato, adducendo che la varietà della vita, che vede ricchi e poveri coesistere, è stata da lui voluta. E’ un errore grossolano, ché il dio non ha fatto così il mondo, ha solo permesso, forse per indurne la libertà, che così degradasse, fino al male completo! E noi chiamiamo peccato la propensione dell’uomo da sempre a questo male diffuso, quello che c’è ovunque e quello aumentato, amplificato dalla sua presenza. Sì, il figlio tuo permise il male, il regno di Mammona, questo regno, questo mondo, questa vita. Ecco qui noi, i più poveri, quelli vero diseredati di ogni fortuna terrena e quelli, tra cui sono, morsi appena, ma dolorosamente morsi, che se non mancano di un tetto, di veste, di pane, al fine pur si vergognano del poco, che pur hanno, e fino alla sofferenza e allo strazio di chi sa d’esser pur fortunato tra troppi bisognosi e tanto squallore, eppure egli, del poco che pur serra, non sa privarsene, troppa la paura della privazione di tutto, e diciamo tuoi eroi i pochi, che, come Francesco, l’hanno osato! Ed è bene per l’anima scoprirsi misera così, è l’inizio della guarigione, come affetta da una malattia cronica, al pari di quella dei lurchi, che tutto per sé soli rinserrano, nella cupidigia loro mai sazia. Sì, noi lo capiamo che abbondanza e fame più non possono coesistere insieme, ma nemmeno l’appena bastevole ha più diritto d’essere, se non diviene mezzo, piccolo che sia, della carità. Ecco, c’è un dio concreto a questo mondo, s’attorce nell’usura e nello sfruttamento, si gonfia nell’egoismo, s’ammanta di splendori, luccichii vanesi, e intanto succhia le gocce del sangue di quelli che ha irretiti, soggiogati, sedotti, e ne illude di riscatto la vita pur gabbata, mentre più e più misera la fa, se non la materiale, che talora benefica, a caro prezzo però, la spirituale, ché ne serra le pupille affinché non guardino il cielo, perduto, da sospirare. Ecco le icone tue, immerse in una mondanità vacua, attardarsi tra ridicoli vecchi danarosi che pruderie sol hanno e motteggiano la loro insipienza della carità alle lor mense crapulose, nelle spiritosaggini delle loro feste esclusive, che spassosissime quelle devono pur fingere, ché i vantaggi promessi, non tardino. Ripugnante vigliaccheria di concedersi non per amore, ma per far la voglia del ricco, per il piacere suo, da vecchio impotente, illuso di fermare la morte, stando tra bei giovani e tra le effimere cianfrusaglie delle sue dimore, che parlano, suonano, luccicano attraenti, ma che il ladro insidierà e il tarlo del tempo corroderà comunque e che nemmeno lui, il fortunato delle grazie di questo dio esoso, avvantaggeranno alla morte, che comunque sempre troppo presto sarà per il gaudente! Ma lo fanno nella disperazione. Sono quelle, che piacenti sanno d’essere, ma hanno avuto la sfortuna d’essere in basso nate, e non se ne rassegnano.
So di giudicare severamente, ma ogni donna reca di te e, se questo fa, ne abbrutisce così il riflesso. Sì, donna dovrebbe gelosa serrare la legge d’amore che le hai messo dentro, ché frutto ne dia, frutto d’amore, quando il corteggio del vero amore, pur povero, le busserà al cuore, e sarà, pur nell’indigenza, un accompagnarla generoso di tenerezze e soavità, che sentire la farà primavera, pur seguita da soli fiori di campo, i più belli se vederli si sa! Ecco io così sempre ho sognato la donna, e così è te che ho sognato... E oggi, che tra le braccia ho sicuro di te, ne trasalisco di speranza arcana, sì, che questa piccola donna sia tramite a te. Oh quanto sarebbe altrimenti stato trascurato, deriso, negletto l’amor mio, se tu non lo avessi raccolto e non me ne avessi dato concretezza tra le braccia di vera donna, questa che per me solo, dice e ridice d’essere! E tu da sempre bussato hai al mio cuore, ché lo aprissi non a leziose, che nulla sanno d’amore, quello dal cuore, se non il misero appagante le smanie loro, ma a donna vera, che dona l’amor suo solo a chi in lei crede. E senza te perduto sarei! Io non sono stato forse un forte, cresciuto nella mediocrità, me ne sono al fine contentato, pur avendo inizialmente lottato per liberarmene, ho pensato al mio poco, dimentico dei richiami della carità troppo spesso! Ecco è proprio vero, senza amore, il tuo, per questa donna, sarei perduto! Allora oso dire: “per te, virgo, sim defensus in die judicii”! Sì, lo grido e griderò ogni notte, e, ché non svegli chi accanto mi dorme, afono nel cuore insonne, almeno! E io mi dico, è passato il signore, ormai non torna per tutta questa mia breve vita! E’ deserto s’è fatto questo mio mondo, brancola la mia esistenza attediata e più lo farebbe, se sola e ancora pellegrina d’amore fosse, sì, questo mio, invero già posseduto, ma sognato da sempre che appagato potesse essere anche da altra donna, ma da quella ancora deriso, rifiutato, oltraggiato. Ed era il tuo stesso amore, che non chiedeva ricambio di concretezze, ma possibilità d’esserci, come proprio questa mia donna anche fa e mi dice, e io ripetuto a quella l’avrei, non temere, hai me! Ma brucia fin la morte quest’amore vero per questa piccola donna venuto da te, questa non fuggita, ma rimasta nonostante, esso fa luce in tanta oscurità e rumore di ilari stupidi. Esso risana ogni ferita e io condotto ne sono fino al per-dono, all’amore più ancora che ai detrattori è dovuto, ed esso non chiede ormai che approdare, così magnificato, alle tue stelle, che pur ci sono di là da questo cielo greve! Esso solo, “qui mihi dicit esse”, è garanzia che tu vero mia sei, e difenderai questo piccolo tuo sogno che io tuo sia, ché tu già lotti per non perdermi e per questo guida di donna m’hai dato, ché senza, sarei come smarrito in questa via tanto buia, sotto cielo tanto avaro di stelle sempre! Oh quanto lo dirò e lo ridirò così questo regno di Mammona! Fin a stancartene? Allora, cuor mio, mio altro e vero tu, bussa, bussa, insistente a questo forse sclerotico diventato cuore a par dei vecchi organi tutti, forse il metaforico anche di smemorata viltà, e fa ch’io sia, almeno in quest’ultima parte di vita, per la carità senza riserve, senza remore, ma generoso, pronto, opportuno! E mi guidi, tenendomi per mano, quest’amore!

Nessun commento:

Posta un commento