domenica 7 ottobre 2012

Il banchetto celeste


E' questo un nuovo mattino con te qui nel bosco e tra nuove presenze, i funghi, assai numerosi dopo la calura e rare ma abbondanti piogge. E io m'occupo di riconoscerne le varietà, accorto alle particolarità botaniche, pure non smetto di pensarti in questa distrazione piacevole, anzi ti dico cose mai dette ad altre prima, la madre cara, la piccola Or, primo sogno, le altre tutte, poche, ma occasione di tanti pensamenti, come poche le specie qui diverse e tanti per ciascuna i particolari da discernere, fino a questa donna graziosa che mia s'ostina a dirsi. Fa bene, merito la dedizione sua? Sì, mi fa dire il desiderio mio, no l'umiltà mia onesta. Ma ora io so che dirle è come dirti e son tante le parole per lei, tante dei miei più reconditi pensieri, ed è così che mi conosco, svelando il mio intimo, ma anche so che le cose che rimangono non dette, sono le più e forse non vivrò così tanto che la mente me le possa tradurre in parole. Ma so che tu le anticipi, il non ancora espresso leggendo, e sebbene questo mi tranquillizzi, resta il gravoso compito di conoscermi per conoscerti. All'entrata del santuario, oracolo d'Apollo in Delfi , c'era la scritta: ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ, che invitava l'uomo a conoscersi, ché in sé sta in nuce l'universo tutto e l'oltre. Ma benché mi sforzi di far mio questo consiglio della saggezza greca, questa mia vita resta dubbio e problema, e più so di me, degli altri e del mondo e più modesto mi faccio e mi scavo umiltà, ché le idee meno chiare mi si fanno, e anche so che mi si accresce la distanza dall'ideale che esser vorrei per poter venir degno al tuo incontro, prossimo ormai. E questo assillo di riscatto da una condizione povera di tutto, anche morale, ho avuto fin da ragazzo, se non prima. Sì, ho cercato di sentirmi uomo diverso da come ancor oggi forse sono e forse tanti scrupoli m'han fatto mancar molti traguardi, ché tendendo all'alto, ho vissuto nel più pericoloso dei modi, col rischio di venir meno a me stesso e ai propositi miei più degni e ritrovarmi meschino e moralmente fallito. E misero sono, ma fallito, se vero qui sei ora con me, non mi sento affatto. E a me il mito suggerisce l'incontro prossimo nella realtà tua, dove ora tu non mi vedi come io te non vedo qui nella mia, nell'occasione di un convito nuziale. Tutti vi sono invitati nel suo eterno presente che lì si dispiega dal momento desiderato, mentre qui corre in una direzione sola il tempo e solo sfugge, e lì i più virtuosi, e tu mi voglia tra essi, fanno a gara per esser servitori della tua mensa. E io mi vedo nel compito di radunare la folla degli invitati, facendo lor dolce violenza per sospingerli a quella reggia in cui nozze si celebrano tra la creazione tutta, che l'assemblea dei credenti include, la sposa, e il figlio tuo. Io mi vedo accompagnarli lieto agitando un fresco maio, ramo tutto fiorito per l'innamorata mia, dei fiori più belli tutto adornato, ché imbandita è la mensa e tutti noi aspetta. Sono i poveri di qui i privilegiati tuoi, e io povero sono e ben mi ritrovo personaggio di questa metafora, ché qui intristisco di inedia spirituale nella lunga attesa. E l'anima mi vedo tutta rivestita di carità da far onore alla gentilezza vostra, ospiti qui e là anfitrioni squisiti. Perché? Io anche so che lo stare dove sei sarà anche vedersi come si è realmente, e in ben altra metafora mi fingo. Io sto come di fronte a uno strano specchio, che non rimanda la mia immagine, lì evidente carente quale qui non appare, ma è un'immagine che si giova per esprimersi di tutto quello che qui mi fa falta, carenza, mancanza di tanto. Perciò lì è te che vedo riflessa, ché di tutto mi completi con l'amor tuo. E certo mi vestirai della carità tua a coprirmi la vergogna dell'anima di penitente ravveduto, non bastando la bianca veste dell'innocenza ritrovata...
E sarà riverbero di fiamma viva, qual'è l'amore, sul candore di quella veste, come sole, che qui al tramonto di giorni sereni sopravvenuti a gelidi tempestosi, fa rosse le nevi con gli ultimi raggi suoi sulle nostre vette. E io vado con la donna mia, di simil rosso adorna, al banchetto nuziale come fosse il nostro, qui non potuto avere, e per essa mi fan riconoscimento e mi fan entrare, lei forse privilegiando. Così con questa metafora, che spero da te piaciuta, faccio “contaminatio” della prima. Sì salgo, con la donna mia, bella quanto tu solo sei, a quel nostro banchetto celeste obliando di qui tutto, immerso nell'amore che sei. E a questo sogno, tutto qui di più bello s'incolora, raffina in altra forma e in nuova epoca, e son qui e pure altrove e sono qui vivo e già non più, e vertigine ne ho e spavento, e φευ, φευ! Antico il greco, di ora la supplica di più pietoso amore!

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