domenica 25 dicembre 2011

distruggere l'idolo

Distruggere l’idolo L’occasione di quello che qui dico mi è stata offerta. Tutto in verità quello che so e ho tentato di trasmettere mi è stato dato. Talvolta l’ho facilmente acquisito, talaltra ho penato, non comprendendo subito dalla mia limitatezza, ma è poi stata ancora condivisione piena. Ne sono candidamente convinto e ciò è ben strana sensazione, perché soffro dell’amara constatazione di rapporti sempre superficiali, formali e labili con quasi tutti gli abitanti il mio mondo. Sì, io ho proprio un mentore da sempre, sebbene per lo più nascosto. Quella volta un dotto, credo, che parlava ad astanti per lo più distratti, ma a me e altri, pochi suppongo, attentissimi, affermava che ogni buon israelita deve perennemente pensare Dio come colui che libera ancora dalla schiavitù d’Egitto. Ma egli stesso, il liberato, è chi ora ancora lo porta fuori con sé, liberandolo dalla idolatria dell’Egitto. L’attualità di questo scambio di libertà, essere liberati e dover liberare stranamente proprio il liberatore, sta nel fatto che tutto è Egitto oggi, ma tutto può essere il fuori-Egitto se, Dio liberando, avvertiamo la novità dell’affrancamento. Avvertirsi liberi è cosa ben difficile però, per gli innumerevoli condizionamenti di questo mondo, che ci hanno asservito e così anche distorto ogni nostra percezione, ogni nostro giudizio, anche le più intime e sacre convinzioni di riferimento e paragone. Se ho ben compreso è nella libertà, avvertita come novità assoluta che, affrancandoci, liberiamo Dio stesso da una terra ostile, il nostro mondo, quello d’oggi e di sempre, o anche solo da noi stessi, poiché lo abbiamo imprigionato proprio in noi, anchilosati, sclerotizzati nella nostra inconsistenza, dove falsa sicurezza e incertezza sofferta, stranamente coesistono confuse. Ecco che ciò che avvenne in quel lontanissimo tempo di erbe amare e di fuga, come necessario e forse effetto inconsapevole dell’allontanamento di ogni custode del vero dio da quella terra di surrogati del dio e di larve di tanti numi, oggi diventa un compito, un dovuto consapevole da rendere a Dio proprio. Infatti l’abbiamo portato ancora, sì via con noi, ma, è proprio vero, costretto, rinchiuso nella valigia delle nostre distorte e fallaci convinzioni d’essere nel vero, d’essere nel giusto. Non siamo proprio noi i buoni? E quanto di orrendo accade nella prevaricazione, è la cronaca di questi giorni infami, non è forse colpa anche dei più, di noi, forse solo tiepidi e mediocri, che stanno sempre a guardare inetti, forse perché in fondo, nell’intimo, felici delle esenzioni, al momento, dal male? Falsa convinzione, falsa sicurezza! Libertà vo’ cercando come Dante… Ma chi può darmela, se è da me stesso che dovrò affrancarmi? Cioè dalle mie convinzioni, dal nocciolo duro che fa il mio intimo, proprio l’essere me stesso ora e qui, che non posso non giudicare con severità nei miei momenti migliori? Gesù libera ogni uomo dalla schiavitù del peccato e dal male morale e anche fisico. Sì, dà la libertà la sua verità. Lui, il grande medico, la cui parola è gesto salvifico e il cui gesto, parola, cioè significato percepito. Sì, liberator meus esto, Domine Jesu! Ma è l’uomo affrancato che lo libera. Sì, proprio io, liberato dall’ossessione del peccato e dai ripensamenti, lo libero dall’attualità del suo volontario rimanere in basso, legato e relegato, schiavo del peccato dell’umanità tutta e mio di sicuro, perché tutto lo vicario e riassumo in me ora e qui, non importa quale sia la mia specifica colpa attuale. Essa è proprio quella che egli ha preso su di sé. Che io gli ho oggi rigettato sulle spalle nella consapevolezza e confessione dei miei falli a chi per lui perdona. Infatti cos’è il riannuncio della sua morte, mangiando del Signore, se non anche l’aver riattualizzato le premesse, le ragioni, la causa, qui e ora di quella morte, finché, come ha detto Paolo, egli venga, ritorni? Ma se ho il suo perdono, so che di un vero per-dono si tratta. Oltre il dono cioè, considerata la mia indegnità e l’enorme beneficio ricevuto. Dante, rivolgendosi a Maria, ha detto: freni tua guardia li movimenti umani… Volendo significare la caducità della condizione umana col perenne rischio di ricaduta. Ma ogni affrancato, ogni liberato, deve essere consapevole che una ben altra tentazione, ben oltre la possibilità della ripetizione dei falli, è sempre presente, diversa dai mille altri nomi del peccato, e viene da dentro, dal proprio sé, dal proprio io. E’ pronunciare il nome di Dio invano. I pii israeliti hanno rinunciato ad esso, cioè a dirlo, a pronunciarlo e noi pure, i cristiani, e per umiltà, volendo che la nostra sia in tutto imitazione della vita del Cristo, ebreo da Maria, come ogni altro ora lo è da parte di madre, l’ Ebrea che ci ha generati alla fede. Noi possiamo solo pronunciare un nome convenzionale, quello vero della santità, no, non più. Sarebbe mancanza di umiltà, arroganza, perciò blasfemia, non essere più ebrei e cristiani. Se io potessi pronunciare il vero nome di chi ho vicino o anche di me stesso, ma non posso, sapendolo Dio solo, avrei di lui percepito la vera essenza, il vero significato e, conoscendolo, possiederei lui nella mia mente, per ora fallace, con possibilità del male, capace di nuocere all’altro come a se stessa. Allora per fortuna non posso! Ma un giorno sarà lui il vero fratello, il conosciuto appieno e posseduto nelle mie intenzioni solo pure, nella disponibilità completa, un possesso per il solo bene, per il solo amore. Il mio, perché lo chiamerò col suo vero nome, il nome che Dio stesso gli ha dato fin dal grembo di sua madre. Finalmente amerò davvero me stesso, conoscendomi appieno, e gli uomini tutti, tutti redenti se io avrò potuto esserlo. Ma questo non è possibile di Dio, perché non potrò mai farlo mio completamente, mai conoscerlo appieno. Rimarrò con Lui sempre in debito d’amore! E di Gesù non sappiamo il vero nome… ce lo dirà quando capaci di vero ricambio d’amore, comprendendo quel nome, un altro nome del dio. Di Lui ameremo l’umanità sublimata, assunta in Dio e, amandolo, vedendolo attraverso lui, ameremo il Padre. Ma il dio in sé, lo Spirito, che è nell’intimo del Padre e del Figlio, l’utriusque Spiritus sarà sempre oltre, fuori della nostra comprensione e appena sfiorato dalla nostra sete, bisogno e contraccambio d’amore. Il Padre ci ha anticipato il suo nome. Teniamolo geloso nella latebra dell’anima. Saremo così buoni israeliti e cristiani veri. Ma allora quale è l’occasione di questa tentazione, quella di pronunciare il suo nome, non per verba, visto che così ci guardiamo dal farlo? E’ quella onnipresente di farsi idolo, sostituendosi al dio nella sua sacralità di Padre e nella sua spoliazione di Figlio in un delirio di onnipotenza o di annientamento. Sì, idolo mi faccio, se mi ritengo diverso, in fondo superiore, migliore, buono tra tutti cattivi. Così bestemmierei lo Spirito, peccato imperdonabile, vedendo negli altri il male, dove o c’è già il bene o la sua possibilità, che sarà concreta, certa nella metànoia, nella trasformazione integrale, il rinascere dal seno di Maria per acqua e per lo Spirito. Io non posso, non devo giudicare alcuno, quali le sue colpe o i suoi meriti… La sua felicità, la sua fortuna, la sua vita devo appena guardare e senza invidia… Il mio deve rimanere servizio discreto, volto a tutti senza distinzioni. Devo imitare il Padre che fa piovere su buoni e cattivi, fin dove posso e oltre, sempre! Lasciando che tutti si approprino di me, della mia disponibilità, del mio tempo, di quello che ho e perfino non ho, futuro, pensieri, sogni,…così come il Figlio che ancor oggi vuole che tutti mangino di lui! Ma ancora posso anche pensarmi intelligente tra tutti stupidi, colui che sa e sa dire di tutto, anche di Dio. Oppure al contrario, sapermi insipiente di tutto e irrimediabilmente perduto. Sì, l’unico senza più fortuna né amore, l’unico veramente sofferente tra tutti gaudenti, disgraziato, malato tra tutti affrancati. Allora io mi faccio croce, è questa non è la croce di Cristo, ma idolo. Sono disteso a morire su me stesso-croce perché in me stesso rinchiuso, ripiegato, adagiato sulle mie sofferenze pur autentiche, sordo alle parole buone che proprio a me qualcuno vuol rivolgere dalla pietà o dall’amore, indifferente all’aiuto che pur mi si vuol dare. Sono il martire, l’immolato al dio-me. Così mi faccio idolo, divenendo l’unico dio possibile, perché il solo che sento veramente prossimo a me, perché l’ho dentro. Del vero, dell’autentico più nulla... Parlo a me, rispondendomi da me, sono io il mio dio… Oh a quale perversa illusione mi ha condotto la sofferenza, invece di redimermi e affrancarmi! Mi illudevo di aver capito Dio, l’unico a poterlo fare dal mio dolore. Estremo, immenso, singolare… Ma devo scuotermi, ravvedermi, perché non lo è dopotutto ogni dolore, non lo è la disperazione per tutti? E invece nessuno sa qualcosa di certo del dio vero e io ne so meno di tutti. Anzi ora, proprio ora, mi sento di poterlo gridare: non so nulla di Lui, io! Qualcuno mi dica, qualcuno mi suggerisca, se può, parli anche solo col gesto, se di lui sa! Ma allora proprio, paradosso, un fatto nuovo accade. Sì, se questo dico, se di questo sono capace nella convinzione, allora sento di poter recuperare il dio vero. Io che non lo avevo, io che l’avevo e lo smarrii, temendolo perduto per sempre. Meraviglia! Forse sono di nuovo il suo tu e lui il mio. Il duro idolo che sono diventato ho finalmente sgretolato! Ne sono rimasto libero come da un esoscheletro infranto, che mortalmente m’abbracciava, come una malattia mortale che non voleva più lasciarmi… Ma devo completare quest’opera, devo distruggere l’io dentro, il più intimo me fallace e bugiardo, che mi ha forgiato idolo, perché esso si dilatasse a riempire il mio mondo tutto, in una perversa illusione. Sì, la mente dei miei pensieri e la mente, l’insieme, di quelli più puri del mio cuore e il mondo di fuori anche, perché mi sentissi pieno di me, bastevole a me, tronfio di me e perfino nella disgrazia e nella disperazione! Sì, ebbro di me fino alla perdizione… Sì, devo farlo affinché non rinasca più dalle sue briciole, novella Araba Fenice, quest’io contaminato d’orgoglio, quest’idolo. Devo immergermi nel nulla ritrovato di dentro, ora che ho svuotato il mio me stesso, l’intimo, di tutto, anche della pretesa assurda di essere il più reietto, il vero Giobbe. Giobbe…, quanto m’ha dato questo racconto ispirato! Di fronte alle sue disgrazie interminabili, l’affannarsi intorno di amici saccenti, l’intervento del dio che parla di meraviglie operate e a lui solo possibili, egli rimane infine completamente svuotato, poiché tutte le parole gli suonano inadeguate o ambigue e quelle del dio perfino non intende appieno. Forse egli solo vuol dirgli quello il suo Cristo dirà ad ogni dolore: io sono l’Amore che ti giunge dalla sofferenza, dalla tua che ho fatta mia, tu non sei più solo, io sono con te… Ma egli più non lotta, rinuncia anche a dire, ma s’abbandona a lui fiducioso dal nulla che gli è rimasto. Ecco il segreto, attendere dal nulla il dio, che ci ridia a noi stessi, sì il noi stessi perduto o dovuto perdere. Sì, un solo gesto da lui che parli senza ambiguità tutte le possibili parole d’amore smarrite. Sì tutte quelle che lui solo ha ed è. Ma il mito di Giobbe insegna che il linguaggio senza parole di Dio può essere assai duro… fino anche alla disperazione. E’ di questi giorni il dolore che al dio grida, per la matta bestialità della natura ancora di nuovo matrigna…Ma se nonostante il vissuto, l’amaro, rimaniamo fedeli alla speranza che venga un suo gesto, uno davvero potrà esserci liberatorio da tutto quanto ci accade. Non giungerà per qualcuno mai e, paradosso, è il male che avrà vinto ancora, nonostante la venuta del dio nell’umanità di ognuno. Ma anche se questo dovesse ripetersi ancora e ancora, perché, mistero della fede, davvero per molti novità può non esserci sotto questo sole, pure, è la beata speranza, il debito verrà pagato, saldato completamente… Sì, ogni lacrima verrà asciugata! Dopotutto sono proprio queste dolorose constatazioni di dolore senza rimedio, di lutto senza consolazione, che vorremmo non dover fare, ma stanno nel quotidiano, che vorremmo non ricordare, ma ci hanno avvelenato la mente, a garantire a tutti, anche agli apparentemente qui più fortunati, a me, un’opportunità d’amore vero in un mondo assai diverso da questo della prevaricazione del male e della apparente sconfitta del dio nel suo silenzio. Quindi devo essere, sarò fiducioso, sarò nell’attesa dell’Amore, Giobbe ancora, l’ultimo Giobbe di quella storia, che qui ancora è riaccaduta a me, come a molti, penso. E’stato detto: Frates sobri estote et vigilate quia adversarius vester diabolus, tamquam leo rugiens, circuit querens quem devoret (1 Pietro 5-8). Ebbene io non ho vigilato abbastanza, non ho saputo… e il più infelice dei fratelli caduti proprio me ha preso ancora, sornione come una malattia che attendeva e da sempre, come un veleno che anima e corpo ha contaminati…Ma ho avuto coscienza della mia anima malata… Che farò? Dovrò pregare e muovermi come in un rito…nella serietà e opportunità della solitudine. Dove? Io devo inabissarmi nel nulla della mia intima umiltà ritrovata, per risentirmi creatura del mistero, del dio-mistero, insignificante, piccolo, ma briciola pur palpitante. Dio è il mistero originario, che tutto sovrasta, in cui tutto è immerso: realtà, questa troppo spesso amara e illusione di cambiarla. Vita, gioia di appartenervi e tentazione di lasciarla. Dolore e desiderio di esenzione o affrancamento. Morte, eppure sempre anelito alla gioia, alla vita. Questo mi basterà, m’appagherà. Sarò ridiventato figlio autentico del dio, un suo figlio tra tanti. Ma dove fuggire, meschino, piccolo, bisognoso di tutto, mendico d’aiuto se devo riavere tutto di me stesso dacché di tutto mi sono spogliato e dell’orgoglio anche, quello d’essere l’ultimo, il più reietto, quello con dopo di lui il solo Cristo, anzi, devo dirlo, non mi sono fatto nell’aberrazione, io proprio, il Cristo, l’ultimo in coda all’umanità tutta? Invece io devo sentirmi, farmi di nuovo bambino, ancora quello che dai campi del gioco gridava alla mamma che gli preparasse merenda, quello che alla sera raccoglieva, pur con orecchie distratte e con un po’ di dispetto, perché impegnato nel gioco che non avrebbe voluto lasciare, il suo richiamo, che s’affrettasse senza più indulgere nel buio incipiente. Uno da condurre per mano, come ella faceva, per le vie del mondo… Oh madre mia benedetta, madre pur tradita, madre perduta! Sette paia di scarpe ho consumate e sette ancora, come nella cantilena della mia infanzia, consumerò per ritrovarti nelle vie del cielo! I santi padri della valle del Nilo fuggivano nel deserto, il mare di sabbia e del nulla. Anacoreti, veri mendichi e d’amore, di quello che solo il dio può dare. Qui io salirò al monte, ai nostri monti. Ogni monte è sacro perché porta più vicini a Dio. Da lì si può attendere fiduciosi il suo gesto d’amore. Tutto lì s’è rinnovato, rimanendo così com’era…il tempo sembra fermo all’inizio del mondo…è proprio lì il kairos, il tempo giusto, il momento propizio per ritrovarsi! Lì lo cercherò, mi cercherò, e certo il dio mi restituirà a me stesso, autentico. Sì, così com’ero ancora sarò. Ma solo fin dove potrò, salirò con saucio corde... Basterà. Andrò ad deum qui laetificat juventutem meam, come chi, mendico d’amore, officiando, cerca il dio nelle sue parole ridette uguali, eppure nuove, e nei suoi gesti, gli stessi, eppur diversi, per donarlo a sé e ai fratelli nella cena rinnovata. Sì, devo inebriarmi dell’aria tersa, nel silenzio, nel cielo di miriadi di stelle della mia infanzia fiduciosa, che solo da lì rivedrò, e lo farò da solo proprio come in un sacro rito, in preghiera e digiuno. Non appartengo forse a un popolo di sacerdoti? E non ha detto il Signore che proprio così si vincono certi tipi di male? La garanzia del successo non sta forse nell’ingenuità di crederlo possibile? Non è un buon segno forse il riscoprirsi così, ingenuamente fiduciosi? Non è in fondo questo che voglio, regredire per mantenermi in un infanzia perenne, così come Santa Teresa fece, con l’aspettativa del solo bene, ora che sto concludendo la mia vita? Sì, ritroverò allora il mio vero io, quello originario smarrito tra le parole del mondo. Ri-donata come per-dono, la mia anima di nuovo immacolata e più non la perderò. Gelosa la terrò, dono prezioso di mia madre con la vita, un dono rinnovato. Proprio quella santa che, ancora informe, il dio mi mise dentro, amandomi… Sì, Madre di Dio carissima, oggi mi hai generato!griderò al vento. Ed Ella m’udrà. Solo allora potrò dire con Giobbe del dio: Ti conoscevo per sentito dire, ora solo Ti so!

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