venerdì 1 agosto 2014

L'ultimo paradosso della fede.







Quanti accomodamenti la mente escogita per giustificare lo scarso dinamismo nell'affermare la legge dell'amore, che esso abbia la massima estensione possibile, sì, includente i nemici perfino. Colui che così vuole, vigliaccheria non tollera, ché disse, Ecce nova facio omnia, e nell'opera sua gli necessitiamo, ché egli mani non ha più se non le nostre, e passi non può compiere se non portato, e vuole che da tutti lo conduciamo! Oh quante volte e nella vita tutta mi sono ripetuto, Tu senza lui nulla sei! E balenare ho visto nel cielo dell'anima mia con le parole del comandamento suo, come un barlume, un lampo, e assenso gli ho rinnovato e mi sono ripetuto, O eroe per lui o vigliacco inguaribile! Certo le esigenze della carne di cui, come tutti, per ora anche sono fatto, m'hanno fatto pesantezza, avvilito la volontà di diffondere il bene, ché egoismo m'hanno suggerito piuttosto e non generosità, da cui partire o ripartire di fronte agli intoppi, le incomprensioni, gli scherni che scoraggiano il più paziente degli impegnati. E sì, o si è sospinti da un anelito che mai si placa verso le vette dello spirito, o invischiati si rimane nel fango che tutt'intorno fa l'autocommiserazione, il piangere sui propri fallimenti, e forse più ancora l'accampar scuse di fronte al manifesto insuccesso, sì i flaccidi accomodamenti nei ripensamenti del giorno dopo. Insomma o accumuliamo un tesoro di cui avidi che s'accresca essere occorre, o rimaniamo ai livelli bassi di tiepidi restati, quelli che, incontrati nel cammino, lui anche oggi vomiterebbe sicuro. Allora niente viltà, niente furberie! Adesione completa senza riserve occorre! Ma se, nonostante il tentato onesto impegno, scemi di comprensione del vero dovuto rimaniamo, insipienti per sterilità spirituale, nulla di veramente buono nella nostra storia, non costruttori di una reggia d'amore, non tesoro di cui andar fieri, solo il nulla se non le piccinerie degli interessi personali, limitati al sé e a quelli definiti i cari degli affetti propri, allora, se vero con lui incontro ci sarà nel suo luogo del tutto amore, perdono occorrerà umilmente chiedere del fallimento della vita tutta. E ci verrà concesso, tutti, in qualche misura, nemici suoi, perché non dalla sua parte completamente, se non indifferenti od ostili, ai quali lui per primo ha esteso l'amore. E noi pure, sebbene mediocri, saremo sotto cieli nuovi e su terra nuova, e proprio perché indegni, paradosso!, ci sentiremo i più amati, ché molto ci sarà stato perdonato! E allora? Allora chi è questo che ci grida dentro e in vita sua roventi parole usò per i flaccidi, e ora gli accoglie tra gli asfodeli eterni insieme ai veri meritevoli d'amore, con più amore addirittura? È colui che ha infaticabile nostalgia di tutti i pellegrini d'amore, i coscientemente sordi al comando suo pure, anzi di più! È il suo supremo paradosso? Non so, ma non è l'unico! Tutto sarà nella luce, lui lo vuole, anche la nostra anima ombrosa e le cose che nella penombra del tempo sono restate scure a causa nostra! Ecco passa il fiaccheraio, nessuno lascia a terra, ché è l'ultima corsa, stanchi ormai i cavalli da troppo attaccati alla divenuta sgangherata carrozza, ora stracolma, e pure noi raccoglie! Dove ci porta, se non a lui? Infatti a questa domanda risponde suadente la sua favola che questo suggerisce, Non è forse l'amore mancato un debito contratto con lui, non è forse giusto che sia preteso il saldo suo? E non c'è pure la colpa per la sofferenza non alleviata, nemmeno tentato il soccorso, l'indigenza negletta, possibile non si debba render conto dell'ogni volta aver voluto guardare altrove? Ma a chi, se non a lui? Lui il negletto nel povero cencioso o nel malato! E la sofferenza subita, il male, anche patito nella vita tutta, non merita consolazione, anche solo postuma? È proprio debole la pretesa di compenso dopo una sofferenza a lungo patita? Ma a chi chiederlo, se non a lui? Ma c'è di più. Quelli che restano sulla scena del mondo non possono pensare ai trapassati come rimasti vittime di una presunta colpa di mitici antenati, che sprigionato ha il male, hanno appunto bisogno di una favola più sofisticata. E si dicono, Qualcuno ben parlerà chiaro al fine fuori della tetraggine del tempo e lì asciugherà le troppe lacrime versate e dirà, ridonati novelli sensi, che la sconcezza del passato con la sua perfidia, troppo spesso aggiunta, o resa più velenosa dell'ambientale, dall'uomo stesso, più non torna, non segregati e resi innocui, ma pentiti i tanti autori di misfatti! Sì, ecco la fede, c'è in un qualche dove, chi è capace di tanto, ci deve essere il dio fuori del cuore umano e quello che dentro abbiamo e ci sollecita amore deve essere lui stesso! Con lui si sono contratti i debiti d'amore. Egli non è però esoso strozzino, al contrario dà e dà molto, sicuro molto più dello scarso ricevuto, ché qui anche è pensato povero e negletto in chi lo è, ma molte lacrime verseremo nell'accorato pentimento delle tante omissioni da inguaribile egoismo qui suggerite, o peggio qui da velenosa cattiveria tormentati! La sola paradossale giustizia del dio questo pretende e tutti renderà capaci di tanto, d'essere meritevoli di perdono, bastevole il pentimento anche postumo! Ma in fondo non è tutto paradosso? Sì, lo stare in quest'inferno, dove troppo spesso è colpito l'innocente bambino non il reprobo adulto, con dentro il continuo gridare coi miti suoi di uno, che pretende di anticiparci il dio, dal linguaggio eccessivo, iperbolico da orientale del tempo suo, che poi vorrà solo perdonare i nemici suoi, noi per primi, i mediocri suoi seguaci! E intanto urla, ormai afono, senza più voce, qui il dolore e non s'attenua con la favola bella della compensazione postuma e forse solo chiede al dio di restare un'idea del cuore, che come tutte muoia con la carne, perché questo nella vita ridonata potrebbe pretendere, stipato di troppe lacrime trattenute, di perdonare e non di cercare perdono! Ecco l'ultimo paradosso il dio da perdonare!

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