martedì 28 agosto 2012

Sentirsi uomo


Ecco ai tuoi piedi sto, boria e dispetto non ho dell’orgoglioso, li avessi avuti mai, sarebbero pur essi deposti con quest’animo immeschinito! Ma certo sto qui con poca dignità, poiché non so se agito ho “secundum tuam tuique fili voluntatem” in questi fatti recenti d’eco ancora, o solo sempre e ancora è me che ho privilegiato, anteposto, salvato in fondo, o solo creduto così, l’altra, che in me s’è imbattuta per breve ora, posponendo, per poi dirmi con te rammaricato della sorte sua, del suo agire, del suo restare, delle sue parole incaute, di ironia forse, ma del perdente, e di rammarico in fondo che fan tristezza anche, e non solo a me. E ne ho pena per averla forse allontanata da te, costringendola al motteggio viperino con facili al pettegolezzo interlocutori. Ed è sì vicenda chiusa, ma te ne parlo, e sarà per questa compagna, che la definisce farsa triste o, chissà, forse ché me ne punge l’eco appunto. Ma pur non m’è facile il perché donna cerchi a volte rivalsa estrema per chi forse d’amarla dice, perché di più non farebbe contro chi sapesse che l’odia, pur compulsa al finale rifiuto dell’altro da sola, e io ne sorriderei anche, se non fossi l’incauto oggetto di questo scherno. Ma ecco, la compagna mia, tanto si dice accorata del comportamento, pensato vile, dell’altra, da sentir vergogna perfino di essere donna! E tutto questo per la dabbenaggine mia di stupido e incauto maschio, tutti coinvolgendo verso il basso e questa dolcissima anche a crucci immeritati e a svilir i giudizi suoi, pur invece sempre incline alla comprensione e al perdono. E’ solo di me che vergognarsi dovrebbe! E io, che lamento con te l’immaturità di quella, vera protagonista in queste bagattelle, son al fin cosciente della mia! E tanto me ne accoro, che mi geme un’ansia febbrile di spezzar questo cerchio d’egoismo entro cui sempre agisco, e che giusto mi confina e da te m’esclude, per evadere, sconfinare dai limiti della mediocrità mia, per cercar oltre nuove vie, nuova moralità, nuovo perdono e farmi degno di vederti. Ma invano! Resto qui e così, indegno e agitato, svuotato di tutto ai tuoi piedi, che non trovo forse per la materialità che non hanno, mentre io la conservo. E so che questo piccolo episodio della vita mia, che di lacrime ha coinvolto questa compagna dolce, non è che sintomo di una malattia dell’anima, che ancora m’attacca a questa terra fatta cinerea sotto cielo nubiloso tutto, in cui con lupina brama pur si cerca di prevalere, forse per rubare positività di giudizio immeritata. E quando al fine sbandato o bastonato da eventi avversi, come i recenti, trovo pure, paradosso, la consolazione divina di donna tenerissima, ben altro meriterei, scherno forse e m’è stato anticipato! Ché io so di non meritare nulla di buono, se qui si sospetta mi accaneggi perfino per cercar di femmina i favori, non giustificati da pulsione reciproca d’amore condiviso. Sì, io ho vergogna di questo comportamento perfino nella possibilità, che se vero, e dubbio ne ho che sia, sarebbe da pagano e idolatra. Ma se è questa la via per raggiungerti, l’umiliazione, sia! Atta forse è a spezzare questo cerchio di morte e trovarti, e io accetterò perfino la necessità di questo mio suicidio morale dalla mia meschinità avvertita estrema, ma forse non liberatorio, perché piuttosto menarmi vuole nella vertigine dell’abisso, che vuol perdermi, strappandomi alle braccia tue per precipitarmi alle voragini sue buie. Ma tu dove sei, madre amorosa, perché non odo parola alcuna dalle labbra tue? Le tante immeritate dalla soave mitezza di questa donna, m’hanno fatto, paradosso, percepire quanto ti son lontano! E io mi stringo a lei non per perderla, facendole la mia stessa sorte, ma per ritrovarti, ché forse lei sola, schietta, merita il sorriso tuo d’eterna primavera, vero fior della nostra vita a due. E tutta rugosa ho l’anima mia, ma son fiducioso ché il figlio tuo tanto ti vuol vinta d’amore, da non poter più distinguere lui da ogni altro uomo che il suo amore t’affida! E allora questo cuore bussa, bussa ancora affinché tu gli apra, aspetta, implora che tu lo renda l’impavido di vero uomo, quello che t’aspettavi... e t’ho delusa! Io, che ero angosciato da solitudine fosca, ora di questa donna le mani stringo, ché, stanca, non m’abbandoni allo sbaraglio. Non lo farà, ma tutta l’angoscia ne sento! E anche mi si assiepa una folla di dubbi e mi pesa la parola vera che dirti vorrei e mi muore dentro inespressa. Sì, essa è: amore! Devo rigridarla a questa donna, ché fin a te giunga! E trepide le pupille nostre ora si levano a cercar le tue in questa notte chiara di lucciole celesti. Ma queste mani di donna, questa bocca di donna, questi occhi di donna sono i tuoi per me! Sì, stupido, immeritevole e per-donato, ché più di un dono è questo! Ora ne sono certo, e se questa tocco e stringo, è te che tra le braccia ho! E sei tu che per lei mi dici: ho paura, e io ti conforto! E mi trabocca felicità da vecchio cuore, ché vero mi sento, un uomo!






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