lunedì 17 dicembre 2012

Due tipi umani







Nella società in cui vivo, nella sua cultura che si dice progredita, sembra trionfare l’accidia. Sfiduciati, senza ideali né valori, infiacchiti siamo, ché persuasi restiamo dell’inutilità della lotta in un mondo in cui prevalgono sempre quelli che detengono il potere economico e politico in ragione della consistenza del loro denaro. In questo nullismo morale e ideologico, in cui vige la perentoria logica del più forte, la realtà sembra imporre di fermarsi ai fatti, cui sottoporre la volontà propria e il destino immediato del proprio mondo con gli affetti suoi, ma questa suona dichiarazione di impotenza nel disarmo spirituale vissuto. E si resta persuasi della nullità dei valori e della vanità dell’esistenza e si sa di vivere nell’assurdo, ché precaria è tanto la vita da renderla presenza gratuita, sorta dal caso e destinata al nulla, e ci si lascia vivere e trascinare, badando al minor danno per sé e gli affetti propri, cioè per sé soli in fondo. La sola speranza sembra essere il caso benevolo, con una fortunata combinazione di circostanze e di eventi in una giornata che pareva svolgersi al solito piatta, senza meta alcuna, né scopo. E’ quest’uomo frustrato,e tanto comune è che diresti che con la rinunciataria filosofia sua della sconfitta, che succubo lo fa con l’accettazione passiva di ogni fatto, esso stesso sia il più agguerrito nemico di sé. E allora quanto vero sa di favola la storia tua, di voi persone divine venute e rimaste qui a conforto dei soli che di voi sanno sognare! Sì, presenti siete, apparente celati, a spartir le pene tante di una umanità che subisce la sua storia, che si lascia compiere fatalmente senza veruno concorso di sue azioni intese a modificarla e dirigerla. Questa, diresti, è un’eterna cronaca in cui i parassiti, che denaro hanno e di quello solo si nutrono, umiliano e prostrano gli altri tutti, prevaricano, violentano, creano inferno e vi vivono esenti dalla crudezza del male suo. Per loro vantaggio in fondo, le fiabe qualcuno ha inventato. Ma la vostra pure? Questa è però diversa, gli aguzzini condannati sono a restare nel loro inferno concreto a farvi nuove vittime, sempre nuovi sono nelle generazioni loro, eppur sempre uguali nella cupidigia sfrenata. Perciò ben sono un tipo umano, che vive e si rinnova di per sé, esiste da sé, espressione di una persona metafisica, malvagia, demoniaca, e non è tutto il male, ma ne fa lo spessore, mentre altro ne aggiunge l’ambiente corrotto fin dall’inizio del tempo! Ma fin a quando? Finché, in obbedienza al “ diligite inimicos vestros” del figlio tuo, da mezzo agli angustiati loro emerga la generosità dei santi che li includa a forza nel suo perdono, adducendo a sé le colpe loro, ché ne resti soddisfatta la giustizia divina. Ma dal perdono per sfociare nell’amore, che è sì loro, ma vostro, tuo e del figlio tuo, rinnovato, attualizzato nel sacrificio. E quando non l’accidia, ma l’amore prevarrà tutto avrà termine, i bruti recuperati tutti a voi, all’amore. E io voglio credere a questa fiaba, che salva l’onore di me combattente sempre sconfitto e la dignità della causa per cui mi batto, ché resti convinto che occorra rinnovare la resistenza al male e il sacrificio di dovervi soccombere. E’ un tipo diverso di umanità cui mi sento di appartenere quella che è in fieri, diviene migliore, diviene buona, diviene bella. Ecco ancora la profezia del serpente, “ eritis sicut dei”, cioè è un’umanità che aspira ad annientarsi in voi, aspira al divino, a farsi divina, ad essere tutta una sola persona metafisica con voi, il dio del bene, del buono, del bello. E tu già premi questi infaticabili volenterosi non distinguendoli nel tuo amore dal quello che porti al vero figlio tuo. E tante già le battaglie perdute da noi creature fragilissime, e pena e dolore e pianto, ché sempre la sconfitta annienta, schiaccia. E io, che certo santo non sono, m’occupo dell’aiuola mia, piccolo tassello in questo mosaico. Calpestano i fiori miei, s’appropriano dei frutti degli alberi di questo nostro orto, calpestano sacrileghi, distruggono le zolle sapientemente preparate e curate dalla donna mia per la semente novella, e io che faccio? Cerco di limitare il danno, allontano i devastatori, calmo la stizza sua e asciugo le lacrime sue amare, la predispongo all’oblio, al perdono. Sì, do un piccolo contributo al perdono dei vili. Io so d’esprimermi col linguaggio delle favole e le mie sono solo metafore di un cantastorie, ma tremenda è la serietà del male e del dolore. Chi, che ce ne affrancherà se non l’amore? Ecco è daccapo il tempo natalizio e tornati son gli zampognari col i loro canti antichi e ingenue melodie, peccato che io e la compagna bambini più non siamo, non ne possiamo appieno vivere la dolcezza, sentire quest’atmosfera lieta di canti, preghiere e botti! E mi si velano gli occhi a ripensare e rivedere nella mente quelle storie di amor familiare, la mamma mia bella, il bambino che ero, il fratello di me poco più grande, e il babbo giovane e forte, tutti intorno a un tavolo con la tovaglia rossa, contenti del poco, e s’era felici e si pensava, ecco un giorno in cui si mangia bene!

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