mercoledì 28 agosto 2013

Tutto il coraggio che ti chiedo










Prima istanza







Perché il mio dire, se pur io parta da motivato pessimismo, si apre, si risolve, e sempre approdo a cauto, timido ottimismo? Ragione c'è e io solo la so, sei tu la preziosità che lo motiva! E se tento di parteciparla, è per dar a tutti una piccola conoscenza aggiuntiva di te alla loro, certo già assai ricca, o farne un dono se invece prima povera. Sai, madre cara, cosa spero? Tu orante, tu avvocata, il giudizio del figlio tuo blando possa essere con finale recupero di tutti, o già vuoto l'inferno, solo come provvida minaccia durato, o, se pieno, solo provvisorio restato, ma proprio allora da lui svuotato, ché il solo bene, il solo amore e null'altro dopo saranno. Nulla ci sarà oltre l'amore, nulla se non è amore vivrà! Questa vita così precaria, insidiata, questo mondo così ingiusto, la soma del male, servono forse a capirlo? Sì, credo, perché coesistere significherebbe forse, come adesso, del bene l'appena e il male imperante. Allora non è da sciocco innamorato, questo mio vederti raggiungere con l'amore tutti, ed esentarli, colmandone le deficienze, dal nulla divoratore della vita! Credo anche però che il pentimento dovrà essere di tutti, essenziale in questa economia di salvezza, e poi sarà il perdono, e l'amore tuo allora compenserà, colmerà i nostri manchi d'amore, che saranno, all'oblio del male col ricordo del solo bene, per quanto poco questo sia stato realizzato, come mai stati, senza storia e conseguenze. Ma quello cui sarà molto perdonato, molto amerà, ricevendone la capacità, risposta adeguata al beneficio, conservando l'anima non il ricordo del male cui dette ricetto, impossibile nella vita futura, ma l'impronta di quello che vi avrai dovuto supplire, per colmarla tutta di bene. Solo questo verrà richiesto, amare almeno nella misura del perdono, che sarà commisurato alla carenza di bene della vita di qui, o peggio spesa asservita al male, e quindi proporzionato al tuo bene, riparatore di tanta offesa. Sì, quanto molto il dono, tanto il contraccambio dovuto! Questo spero potrà essere per me e tutti, e te ne faccio istanza, accorata, insistente richiesta, ma me lo suggerisce il conforto, che già ho, del tuo amore, dono qui proprio tra queste tante ombre, o, ma ne riferisco la mera possibilità, quand'anche fosse solo mia illusione, pur così sarebbe benefico! Ma intanto, qui restando, dovrò vivere la possibilità di disattendere il tuo atteso, la possibilità di falli, la minaccia del peccato, quindi con coraggio, e accorrerà chiedertelo. Ma di quale coraggio io devo essere supplice come tutti? Richiedo pazienza per dirlo, poca a te che sempre ascolti o mi leggi dentro, molta a chi svelo il mio intimo...







Seconda istanza







Il vivere qui da famiglio tuo vuole continuità, perseveranza, e allora non richiede atteggiamento coraggioso solo occasionale, perciò questo non può somigliare, se non nella generosità, a quello dell'avventato temerario che rischia impulsivo e spesso sacrifica la vita sua, nell'impeto di una decisione, o dietro uno stimolo eccezionale che energie sopite, altrettanto forti, risveglino. Non è quindi il suo lo spesso plateale gesto, unico, irripetibile di chi talvolta si comporta da guerriero ardimentoso o lo è, nell'agire che diviene atto tanto generoso da risultare salvifico per gli altri tutti, che lo ricorderanno eroe, vita salvata durando. Ma quello di chi, pur avendo il cuore invaso dalla paura di rimaner vinto, schiacciato sotto l'eccessivo peso del male, si risolve, tacitatone l'assillo, senza pubblico attonito, a tentare il bene nella misura delle forze sue e anche più, o lo scampar degli altri e suo, posponendosi però, annullando il proprio vantaggio, se ne ha, e spesso, rimanendo così escluso, la sicurezza sua o la vita, tutta sacrificando. Così solo allora, con atto simile all'estremo singolo dell'eroe nell'impeto suo, la sua generosità, che, iniziata, più non si ferma, lo potrà condurre alla radicalità del sacrificio. Ma è pur quella continuativa sempre tenace, duratura perché la stessa in cento azioni di bene, quella che qualora conosciuta, lo farà meritorio di ricordo o acclamare santo. Insomma è azione di chi, quasi sempre discreto, lontano da facili entusiasmi di astanti, cerca di far superare con conforto fattivo, stando tra bisognosi di considerazione, attenzione, o toccandone, palpandone la necessità e l'urgenza d'aiuto, perfino contaminandosene di miseria, a una umanità degradata, condizioni di disagio sociale estremo, che attanaglino, perfino senza apparente scampo, anche per solo un singolo, spendendosi tutto. La sua è perciò una azione metodica e capillare. Lungo l'elenco degli interessi, miseria estrema, oggi diventata per molti, che il lavoro loro perdono, perfino più comune, malattia vera, senza evidenza di risoluzione, di scampo, di quelle che causano sofferenza e fanno angoscia e che nessuno vorrebbe, il dolore che ne consegue, e quello da lutti, abbandoni, solitudini, insomma tutto ciò che vero umilia e fa triste l'uomo. E ancora tutto quello che lo fa non solo povero, ma nella povertà bruto, egoista becero, ché non vede o non vuole vedere il maggior danno che provoca, lottando disperato per l'aria e il cibo, ché mai pare abbia, nella fame sua, abbastanza, e pur ne rimane stremato e vinto, quasi sempre dal male che lui stesso accresce inevitabilmente con il comportamento suo sconsiderato. A costui il nostro recupera la dignità, sacrificata nel tentativo di sopravvivenza, quella che pur perde, nessuna cura avendo degli altri, talvolta nemmeno dei suoi più vicini o intimi, anzi, assurdo, vedendoli rivali. Eppure viene soccorso dal quel generoso, apparente pacato, tacitata la rabbia e ribellione nel cuore per simile agire, rinunciando a giudicare, anche quella che nasce verso chi avrebbe potuto o potrebbe e nulla fa per insensibilità, ragioni di lucro, nella becera avidità che l'anima preso tutta gli abbia, insozzandola. Insomma questo nostro è piuttosto un antieroe, ché non ha le apparenze, in un atteggiamento eclatante irripetibile, di chi tutti apprezzano e definiscono eroe. È perfino spesso impopolare, stimato poco e di fiacca o nulla energia, da parer un pitocco tra gli altri, ma impone il suo fare. Ha parole conte e gesti essenziali, mai inutili, e perfino cerca, scova i responsabili del degrado e non li esclude dal recupero, morale anche, li include nel programma prefissatosi di salvezza sperata, che crede solo tu e il figlio tuo garantiate, ignorandovi coinvolti tra quelli che soccorre, mentre alle vittime va la prioritaria attenzione per il tutto talvolta, il molto sempre, che a loro è fatto mancare, o sottratto, rubato. Io parlo di un tenace lavoratore della tua speranza quindi, cristiano di fatto, quale la religione, il credo, un santo direi, a prescindere dal tardivo, o che mai arriverà, riconoscimento dagli altri, laico o confessionale che sia. Te ne chiedo il coraggio!







Terza istanza







Molto lontano questo comportamento, temo, da quello del mio personaggio vissuto, interpretato, il viaggiatore in quest'esilio, non chi ora ne scrive pieno di bei propositi. Perché mi chiedo, Ho io una parvenza di questo coraggio, escluso possa mai aspirare alla santità? E devo dubitarne fondatamente. Ma se ne avessi, appena una briciola, tu avendomelo donato, allora mistico d'essere un po', avrei vanto, se tu, che attenta sei al mio che ho dentro e a tutti celo, tu che tutto sai leggendo cuori, esaltata avessi piccola marca del bene, sopraffatta dalla vita di qui, quella nel carattere o nella volontà trovata da te e salvata, ché frutto facesse. L'hai vero mai scovata e apprezzata in me, o esaustivo del completo manco è il tuo amore, ché niente ho e tutto versar devi in questo cuore sol avido delle possibilità del tuo? Io non so, ma credo che tu possa creare l'inesistente perfino in questo cuore, sì, ciò che non v'è, ma ardente desiderato! Ma qui parlar voglio anche di un coraggio più modesto, a vera portata di piccolo mistico, quello che tutti, che saper un po' del dio vorrebbero, il quale si capisce solo operando come lui, lavorando per lui, possono iniziare ad essere e io con loro, ché davvero poco ancora ne so. Il mio ideale è sì un antieroe, come il descritto, e resta, ma mi sento nel mio quotidiano come chi si trovi a viver, quasi suo malgrado, eventi ogni volta più grandi, e gestisca la sua vita spirituale quasi come un timido che non sappia bene che gli capiti e vi risponda come sa e può, e tema sempre d'aver agito dallo sprovveduto che è... Ma, raro, talvolta veda con gioia che la risposta sua, sempre tentata generosa, è stata adeguata, discreta quanto basta per esser sufficiente senza disturbo e offesa, anzi è bene sempre che un po' sovrabbondi il richiesto, senza però risultare eccessiva e sgradita. È il gesto ben condotto e misurato che conosce l'opportunità del momento, fa il raro successo nella tortuosa via al bene, ché aiuta discretamente e così non offende il beneficato. Ma anche se così, a te io chiedo, dubbioso delle possibilità mie, che sia non atto fortuito, ma dettato da vero coraggio, tenace e duraturo, se vero è che ne posseggo, o innato o, per volontà tua, nel cuor mio coagulato. Perché poco è questo mio agire, ma rappresenta condotta di vita, e spero basti, dal figlio tuo apprezzato, a fugar l'ansia tua d'avermi, dopo la parentesi di questo mondo, come giuste valutate, buone un po' almeno, le mie scelte di quaggiù. Perciò è necessario che io anche ti chieda il coraggio di accettare l'insuccesso, quello che, posseduto, non fa desistere dal proposito di vicariarti, nonostante reazione ingrata di chi pur riceva del bene, o pur giusta, se deluso dal poco potuto ottenere o dal niente. Questa richiesta è fatta con più insistenza, quasi petulanza ormai, temendo non averne affatto dalla mia pochezza orgogliosa, tendente a offendersi perfino di una reazione sgradita, e così a desistere!







Quarta istanza







È tutto? Forse vorrei di più, anche quel coraggio che fa accettare la possibilità della viltà, quello che fa vivere positivamente nonostante le minacce dal sé, che vivrebbe pur vile, questa sua tendenza in una latebra del cuore celando, e quelle che vengono dall'ambiente umano, che della viltà sua perfino accampa cento giustificazioni, per niente avvertendola come colpa, e ha talora vanto del pavido far suo. Allora ti chiedo, Buona condotta significa minimizzarla, quando quella viltà temuta pur si realizzi e contamini? O il coraggio a te richiesto, significa piuttosto invito a se stessi a star sì in guardia senza requie alcuna, ma, se quella si desta, quando sia innata, e si attua, o venga sorbita dall'ambiente, nonostante cento misure, a piangerne sì, ma non disperarsene? È più questo coraggio aggiuntivo che vorrei, ché ben mi conosco, infiacchito molto, non osando più nulla, starei dopo l'insuccesso a viltà dovuto! Io sono forse un debole, ma se poco m'aiuti, mai ti vergognerai della fiducia affidatami! Lotterò con me stesso! Oh quanto vorrei bello trovassi questo proposito! Ma forse davvero si è più felici, perché più liberi, facile la vita con pochi o senza doveri, perché essa, se fortunata, potrebbe far abituale il comportamento dell'indifferente, in cui cura,”sollecitudo” per gli altri non sia, e comunque mai diventi ansia, o angoscia, sentendosi non solidale col destino degli altri, per nulla rispondendo alle pretese d'un dio sentito lontano o pensato a torto assente, esentato, disgiunto dal misero, che si trascuri. Ma non è questo che voglio, aborrisco l'uomo così! Allora che fare? Credo che se è inevitabile, senza considerarsi pavido, l'allarmarsi del danno di questa tentazione nel cammino al dio, a te, che vanifichi quanto realizzato, occorra agire sotto calma vigile, e quando la codardia paventata appaia inevitabile, comportarsi da forte, risvegliato un sano orgoglio, per subirne la minima sofferenza e subito rialzarsi. Lunga, tu me lo hai detto, la via al bene! Ecco cosa ti chiedo! Insomma molto, perché cosa temo? E' possibilità, sempre presente anche se sopita, divenir uno che cade, non si rialza, e conveniente trova restar tra i relapsi, tornati pagani goderecci. Vero lungo sarebbe il cammino a te, faticoso più ancora, con la soma della viltà che vien fuori seguendo la propria inclinazione o gli inviti a desistere che vengono dall'ambiente sempre allettante negli occhieggianti luccichii e lusinghe suoi. Ma il male può tentare di più e vincere, e come opporsi? Occorre lottarlo non solo dalla propria debolezza, indigenza, o dalla malattia che lasciarci non voglia, ma quand'anche fortunati, rimasti esentati, per quello che esso insinua. Cosa, come? Col persuadere che ogni sforzo è vano, il bene non è nel futuro che ti porta, è già qui, nell'oggi, da prender per sé soli senza o poco sforzo, è fermarsi a godersi il proprio, quanto di buono e di bello la fortuna abbia coagulato e reso disponibile, insomma star nel proprio “hortus conclusus”, gli altri di fuori ignorando. Cioè godersi gli amici che si hanno, la donna che si ha, le cose belle che si hanno, è sentire, toccare d'avere e ignorare di non essere nulla per il dio, per te, col negligere gli altri tutti. Sì, sarebbe di più di una occasionale caduta, sì, l'entrare in un vortice senza scampo! Perché se così fosse per me, in questo adagiarmi e cullarmi io so ti perderei... Sarebbe la viltà vera, negletto l'amor tuo, non avendolo per gli altri, una iattura per l'uomo di fede e per chi già brancoli nel buio, come me cercandoti, sarebbe perdere lo scopo della vita, il peccato vero, non restando che l'ansioso sperare nel figlio tuo clemente, quando il pentimento per tal mala condotta di vita pur venga. Ma questo, che chiamerei sonno della mente e del cuore, che vero vanificherebbe tutto, ché spegnerebbe anche la piccola luce intravista di te, potrebbe durare la vita che resta, e poi l'altro inferno giusto s'aprirebbe. Provvisorio forse, ma più terribile dell'attuale e vissuto nella cecità completa, il poeta nostro v'è stato! Così non sia per me, né per questa donna mia, da te a me venuta, che mi trotterella accanto i miei passi comunque seguendo! Quest'immagine mi viene da giovane coppia di amici americani, che subito notai avendone simpatia, ella, minuta, tentava, alla passeggiata in collina, star dietro all'uomo suo, che non proprio pede cata pede procedeva, arrancando in piccola tenace corsa... Voglia tu per loro lo stesso bene che senti per me!









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