mercoledì 20 febbraio 2013

Salomone


Della compagna mia davvero tutto non so, né altra vita concessa ne esaurirebbe la fantasia che ha nella relazione nostra d'amore. Normalmente le facezie mie l'inducono al riso, ma spesso anche le cose dette più serie. Non che frivola sia, ma è convinzione sua che caparbio mi sia anche di fronte fatti assurdi. Così io facezie dico o spontanee o talora per reazione, subendo i motteggi suoi, con i monotematici miei, che pungono sulla gelosia sua assai nota. Tutto oggi è iniziato, compunti alle quotidiane notizie sul recente fatto d'orrore, dettato da folle gelosia all'assai famoso atleta che, vintone, ha infierito truce sulla bellissima sua e ora, vile, tenta salvarsi negando l'evidenza. Ma poi per reazione a tanto accoramento, le ho chiesto se la sua gelosia non potesse spingerla a qualcosa di simile. Mi ha consigliato di non frequentare donne giovani e meno alla passeggiata, che talora non accada che innamorarmene possa, perché pur qualcosa la spingerebbe a tanto. A tutte le congetture mie fondate sulla patente sua gelosia ha risposto che sufficienti non sarebbero, non rimaneva che la sofferenza mia, che tanto accorata l'ha per il diniego d'altra donna, or molto non è. Allora tra il serio e il faceto mi ha risposto che lontano tanto dal vero non ero più, ché l'ipotesi della dolce morte, pur avanzata da me immaginandola disperata per mia malattia estrema, si sarebbe resa necessaria per non vedermi di simile ancora soffrire. Poi alla affermazione sua abbiamo riso moltissimo a lungo, ma la giovane coppia che ci vive in casa al piano inferiore, non s'è allarmata dello strepito, ché sa di noi che anche i litigi finiscono nel ridere. Ora a me fa ridere che ella non scherzi affatto, convinta delle affermazioni sue, ride poi dell'assurdo che le sfugge e che io argutamente le faccio notare. Così ora, ma ella giustifica l'ipotetica sua risposta dettata da empatia estrema, forte il suo amore per me, così ai nuovi motteggi miei si deve ridere ancora. Ora storiella biblica dovrò raccontare, sperando che la bella che tanto turbamento le ha provocato, da risentirne fino a oggi, la legga, difficile diventato dirgliela de visu o con altro mezzo, ma lo faccio per tutti quelli che pazienza ne avranno d'ascolto. Di Salomone si diceva che sessanta erano le regine e ottanta le amiche concubine, ma una gli molceva il cuore più d'ogni altra tanto da invocarla, “veni sponsa de Libano, veni!”. Ora pare che attribuire a lui la sublimità del “cantico de' cantici” sia antico abuso per esigenza di ebraica e di cristiana esegesi. Ora io, che non son Salomone, ammesso che di simile ardore capace sia stato per invocare amore da quella donna, ché dal cuore ridiventato bambino, compulso a tanto sia stato, le chiedo: credi tu, bella signora, che metterti volessi tra le mie regine, e sol'una v'è con quella del cielo, o tra le concubine, vuota quella parte della reggia mia? Ecco l'equivoco, che sbrogliato andrebbe! Quello volessi non offrirle amore casto, spiegherebbe il comportamento suo recente analogo a quello antico. E quale? Ragazzo ero ed ella con me, e un fortunato amichetto piccola storia d'amore ne aveva avuto, a dispetto del risaputo interesse mio per la stessa. Ora quello ne piangeva, accorato, l'abbandono, di fronte a me e all'amico che aveva permesso il mio incontro con la bella. E aveva voluto gli promettessi vendetta, ché pur'ella soffrisse le pene d'abbandono. E io, perché cessasse tanto dolore, qualcosa di rassicurante dovevo avergli detto, se non promesso, ché quella al ballo di fine estate del nostro appuntamento, chiarificatore dell'amore reciproco diventato, mi ignorò, uccidendomi il cuore. Or io non sono affatto guarito, non da quell'amore, forse innaturale a lungo e all'insaputa covatomi dentro e sol'ora vero spento, ma dal mio atteggiamento eccessivo, sempre compassionevole verso i meno fortunati, ché ho nella storia mia qualcos'altro di simile. Accadde molti anni dopo, non per frivolezze d'amore giovanile. Collega v'era di me assai meno giovane, che presentarsi doveva al giudizio del nostro consociativismo, giudicarsi dovendosi la competenza sua con quella di un mio amico di vecchia data, del quale avevo nel passato favorito l'ingresso nel consesso, magnificandone l'intelligenza e preparazione. Ora vero io nulla potevo, in disgrazia caduto in quell'ambiente di ottimi ritenuti, né certo i giudicanti sarebbero stati parziali, ma quello piangeva paventando l'abbandono della bellissima sua, che sol con lei l'aveva per l'intelligenza, a dir suo. Io, che nessuno ho mai sopportato veder piangere gli augurai di vincere, la simpatia mia non andando a nessuno, entrambi ugualmente amici, ma l'empatia inconfessata certo a lui. Finì, anche se poi tornò dopo anni, l'amicizia con l'altro, che vinto poi aveva. Ecco questo è il mondo nostro dell'ambiguità e del sospetto della temuta interferenza malevola, e a questo male diffuso io non mi rassegno, ché danni antichi e recenti sempre ne ho avuto. E dico a questa compagna, fuggiamo tra i nostri monti, in attesa che la bella del cielo ci rapisca alle stelle. Luogo c'è, in cui adito, nascosto, ché coronato d'essenze, introduce a profondo antro. Lì temperatura confortevole v'è tutto l'anno. Inconveniente v'è di ratti famelici notturni, ma abbiamo il nostro magnifico gatto che li terrebbe a bada. Pipistrelli v'abitano innocui e tu potresti vederne le teorie uscirne al crepuscolo e tornar per l'imminente giorno. A noi, patiti della natura, non dispiacerebbero affatto e forse metafora farebbero di quel che lasciato avremmo in queste bassure. Un affollarsi di oscure presenze, che seminano il male in questo mondo che ne è recettivo. Ora, così proprio a questa mia donna parlando con convinzione, sì, fuggiamo e viviamo di solo amore, a questa assurda proposta di viver in antro, ella non può che ridere e mi indispettisco e voglio farle di simile, così l'ilare disputa d'oggi, continua! Ma devo rassegnarmi, giullare d'amore diventato son per queste due, la terza mancata, e forse non per sua completa difalta, a tanto spasso!

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