venerdì 7 agosto 2015

Le ragioni della solitudine




Se vero è che molte sventure l'uomo presagisce, sente venire o già su di sé opprimere, quando solo e raccolto se ne sta in disparte, è pur vero che non v'è solitudine maggiore dello stare estraneo tra molti. Si sente allora di più la propria inutilità, il giusto abbandono di persone e fatti di rilievo, l'insufficienza a opporsi a un destino pensato tutto nero, vuoto di valori e di speranza. Ed è sensazione che può prendere in ogni epoca, ma è assai frequente tra i ragazzi d'oggi, che insufficienti si sentono più d'altri alla vita, alla miseria sua, all'infelicità che porta con sé, alla morte verso la quale spinge. E uno, da questo preso, ne cerca tregua. La cercherà nel tentativo di distrarsi proprio tra altri con l’esigenza sua stessa, affinché s’allontanino gli schemi che la vita ripropone e che finiscono col far noia, cui seguono i pensieri di sempre, o anche più cupi. Eccolo allora star vociante tra altri che lor membra agitano nelle movenze suggerite da ritmo assordante, in notti interminabili, sì, con altri desiderosi solo di non dover pensare. Ma basta? Nulla all'altro si può dare d'autentico, in incontri fortuiti e brevi, ché nulla si ha, né ricevere. Ma forse qualcosa, un breve rapporto di vera confidenza o anche d’amore, può nascere dal poco o dal niente perfino, è il piccolo miracolo che anche tra gente incredula accade. E lo può fare la simpatia che nasce facile tra giovani. Ecco l’uno sta di fronte all’altro secondando le movenze sue, apparente consenso al divertimento ritenuto comune, e comincia a comportarsi come se lo appaghi la presenza dell’altro, che non gli nega attenzione e forse sarà tanto preso dalla novità da farsi vero dimentico, per un po’ almeno, di ciò che il cuore suo agita, stringendolo da sempre, e di simile è possibile accada in chi l’iniziativa abbia preso. Ma quando tutto sembra lecito, consentito, incoraggiato, si apre la via a ben altro. Si può scegliere lo stordimento sicuro e completo nel mondo degli spinelli, di compresse e polverine, un gioco perverso che finisce col distruggere il sé e, col frammentarsi dell'unità di persona, è vero che più non si pensa che a un nuovo incontro, dipendenti da una o più sostanze diventati, ed è respinto ogni affanno, ogni dolore, ma a prezzo caro, che pagato va a usura fino alla pretesa della propria vita. Che proporre? Io medico alcuno ne ho potuto stabilmente trarre fuori, che quello ricaduto non sia in più profondo e tetro abisso, fino a non venirne più alla luce. Forse ho visto poco, fioca la luce di qui anche per occhi avvezzi, del male che c'è al mondo, ma m'è bastato ché ogni altro male ho immaginato e avvertito con angoscia in me. Sì, questa luce è davvero fioca e poco può illuminare noi comuni sprovveduti, poco più che marionette, manovrate da invisibili fili lor braccia e gambe e così lor recitato, prestato da invisibili commedianti veri protagonisti, su questa scena falsa e posticcia che fa il mondo, in una saga che va vissuta fin in fondo, ma che non ci farà avversari, seppure deboli e fin troppo coinvolti, di tanto male. Ma essa per quanto fioca, è pur sempre spiraglio di qualcosa che oltre la miseria di qui vuol stare e a quel luogo sembra invitare, ma ormai con tutti è un bene tanto compromesso, che sta soprattutto con quelli nell'abisso caduti e restati, da non potersi mostrar più, soffocata con loro in tanto buio. Ecco allora, dai soliti inguaribili dalla speranza, pur tanto delusa, le favole sull'oltre che ci attenderebbe sereno. Ma l'oltre sta già qui, non è più nel dopo. Il tempo più scorrere non vuole, né più portarci al suo nulla, compresso improvviso lo spazio per noi da percorrere e ristretto il tempo disponibile nostro, perché forse stiamo già nel nulla tra i nostri ragazzi sconfitti senza scampo o già morti. Allora io prego il dio di starmi lontano di non lasciarsi coinvolgere nel mio fallimento, ma di continuare a rimanere per la speranza d’altri, seppure solo poca fioca luce quaggiù e già troppo debole fattasi la speranza che ne viene. Gli dico, Io sono un disperato, un vecchio annoiato e nulla più ho dell'uomo più sereno ed energico, che dubito ora di essere mai stato. Non so più guarir nessuno, nemmeno me stesso, posso! E la mia malattia può chiamarsi in molti modi, scegli tu. Ma purché tu non la definisca vigliaccheria, sarei disposto a ricominciare, a ritentare, a raccontare ancora le mie belle favole perché nessuno si senta solo tanto da rinunciare perfino alla solitudine. Questa che ben misera è, pur non deve preludere alla morte, può perfino avere una sua positività, perché può e deve stimolare alla ricerca di un tu, dal momento che, credo, solo il sogno a due può colmare il vuoto di dentro, può guarire la propria insufficienza da poter gridare alle stelle, Nessuno sono, ma per questa piccola donna sono re e il mio regno è piccolo e immenso a un tempo. È un cuore di donna! E se le avrò dato un po' di felicità, allora dirò, Sono stato felice in questa vita! Sì, è solo questo che mi sentirei di dire agli insicuri di oggi e nel mio tempo avrei fatto bene ad affermarlo, ma allora avevo ben diversa convinzione, essere utile con le mie nozioni, così almeno non sarei io stesso precipitato nella disperazione, misere fallite quelle, e smarrito il dio. Quanto è durata la notte? Come tutta una vita! Ma il dio, la madre sua dolce, ha voluto farmene uscire e questi occhi dolci ho incontrato in notte tutta anche di tanti altri brillii! E che dicono da allora? Vivi per me! Allora è vero, ho vissuto tanto, e d'amore!

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