Quando nella
vita di quaggiù per il bene agisco, attenuando o risolvendo le difficoltà che
incontra con me in questo cammino incerto chi posso considerare prossimo, o
quando perdono chi insidia i miei passi pur lenti verso il bene e le mie
intenzioni buone distorce, certo, mi ripeto, così vuole quella briciola del dio
che è già in me. Ecco, mi dico, se questo vuole, se così è il dio, mi è tanto
vicino, o lo ho proprio dentro, da infondermi la volontà e la capacità di
operare nella sua giustizia, che vuole tutti partecipi di uno stesso destino di
bene. Ma quando il male mi contamina e sminuisce gli sforzi miei o li rende
vani, dov'è il dio? E’ forse il dio dell’abbandono? Ecco, nero è questo cielo o
se stelle vi sono, questi miei occhi fanno lor fiammelle confuse, ché umidi
diventano. Sì, la mia preghiera s’è fatta supplica, Ridai forza a queste mani,
gli dico, non permettere che si smorzi in me il coraggio, già poco, di lottare
questo male! Sì, gli occhi miei umidi, simili si son fatti a quelli di chi
s’aspetta da me aiuto, conforto e io non ne ho più, nemmeno pietà per me stesso!
Io cerco e non trovo, io domando insistente e non ottengo! Sterile la preghiera
mia quanto il poco che ancora posso, che nulla risolve e davvero più non
conforta! Perché? Io, uomo di fede, mi sento davvero abbandonato quanto chi
tento di soccorrere…
Medico, ho
vissuto proprio così più di una angoscia, che rivivo come se fosse d’oggi e la
preghiera prima che sulle labbra, ancora mi muore dentro! Ma perché ho
conservato la fede, pur tante le smentite? La mia vita è stata tutta una lotta
per essa e, guadagnata, non voglio perderla, mi costi pur affanno dietro alle
contraddizioni che in sé reca! Fin da bambino dentro m’è entrata l’amarezza
dell’abbandono apparente del dio, la sua assenza, il cercarlo inutile, il
parlargli senza alcun cenno di risposta. A lungo sono stato chi un tal dio
nega, tentazione che tornata m’è nei momenti più bui. Il male da sempre
spadroneggia invitto nella mia anima e la
vita par sempre l’occasione di lamenti solitari, oggi stemperati, forse per
residua dignità, nell'appena pronunciato,
parole morte già in gola, o delle poche lacrime a stento trattenute, che fan
corona, gli occhi stringendo, delle fiammelle del cielo, che pur ci sono da
sempre! Sì, di questo male tanto diffuso son succubo ed esso avvertire mi fa il
cuore ferito, come avvertivo deluso quello di chi da me invano attendeva
qualcosa nella pena condivisa, che il mio ricordo attualizza. Cosa mi aiuta? Accettare ogni accaduto, oggi rivissuto, ogni
personale fallimento, come chi vede nell'altro il proprio dio soffrire e morire
su una croce ripiantata e nulla potere per lui. Egli è chi soffre anche del mio
non sapere e potere! Sì, proprio uno che soffre di ogni dolore e muore di ogni
morte! Credere non potrei altrimenti, senza pensarlo così! E ora che tanto è il
tempo vissuto e più s’è fatta pena palese la sollecitudine per me di chi ho
accanto, sempre amorevole, una piccola donna, prego che nulla le accada di
quello che il mio cuore teme nell'ansia sua, ché ora più ancora non sa questa
mente, né possono queste mani! Allora m’appello alle persone buone che
benedetto hanno l’unione nostra, e che pia metafora vuole ci attendano in cielo,
affinché trovino loro le parole per noi, per questo nostro povero amore
minacciato. Sì, quelle che sicure raggiungono il cuore di chi chiaro vedono con
gli occhi del cuore loro, inadatti, cisposi da sempre i miei!
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